Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27079 del 06/10/2021

Cassazione civile sez. II, 06/10/2021, (ud. 25/02/2021, dep. 06/10/2021), n.27079

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10508/2016 proposto da:

Avv. C.R.F., in proprio nonché rappresentato e

difeso dall’Avv. COSTANTINO ANTONIO MONTESANTO, elettivamente

domiciliati nello studio del secondo, in CETARA (SA) VIA GROTTA 10;

– ricorrente –

contro

INTESA SANPAOLO s.p.a., incorporante la Sanpaolo IMI s.p.a., in

persona del suo legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso

dagli Avvocati GINO CAVALLI, e MASSIMILIANO BIANCHI, ed

elettivamente domiciliato nello studio dell’Avv. DARIO MARTELLA, in

ROMA, L.go di TORRE ARGENTINA 11;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 89/2016 della CORTE di APPELLO di SALERNO,

pubblicata l’11/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/02/2021, dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 1.7.1999, l’avv. C.R.F. esponeva che in data 1.7.1996 aveva stipulato con l’ISTITUTO BANCARIO SANPAOLO DI TORINO s.p.a il contratto di mutuo fondiario n. (OMISSIS), per l’importo di Lire 70.000.000, avendo ritenuto conveniente la proposta pubblicizzata dall’Istituto mutuante, relativamente all’applicazione di un tasso di interesse dell’11,95% annuo; che, in seguito a un’attenta lettura del contratto, aveva constatato che il tasso di interesse effettivamente applicato era quello del 12,62672779% annuo, derivante dall’applicazione graduale del tasso mensile dello 0,9958330%, anziché quello proposto dalla banca; che a nulla erano valse le numerose istanze che l’esponente aveva avanzato alla mutuante, al fine di ottenere la riconduzione del tasso di interesse entro la misura promessa, lamentando che, in ogni caso, il tasso effettivamente applicato eccedeva la soglia fissata dalla L. n. 108 del 1996. Chiedeva: a) di affermare e dichiarare nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., il contratto di mutuo fondiario citato, dando atto della disponibilità dell’attore all’immediata restituzione della differenza legalmente dovuta; b) in via gradata, annullare il contratto per vizi del consenso, ai sensi dell’art. 1472 c.c., accertando la somma legalmente dovuta dall’attore, tenuto conto di quanto già versato in conto capitale e imputando a capitale anche la somma versata in eccedenza a titolo di interessi, per la parte superiore alla soglia di liceità e ricalcolando in favore dell’attore gli interessi sul capitale così gradualmente decrementato, sempre nel rispetto della soglia massima di liceità; c) in via ancor più gradata, disporre la riduzione della penale di cui all’art. 5 del contratto di mutuo, ai sensi dell’art. 1384 c.c.; d) infine, condannare la convenuta al risarcimento dei danni, il tutto con vittoria di spese.

Si costituiva in giudizio la parte convenuta chiedendo il rigetto di tutte le domande. Quanto alla dedotta nullità rilevava che il saggio di interesse applicato corrispondeva a quello dell’11,95%; quanto al lamentato tasso usurario, rilevava che il contratto di mutuo in oggetto era stato stipulato prima dell’individuazione del c.d. “tasso soglia”; quanto alla domanda di annullamento per vizi del consenso, evidenziava che non era stato specificato quale fosse il vizio che avrebbe inficiato l’atto; rilevava altresì la natura di multa penitenziale del compenso stabilito dall’art. 5 del contratto per il recesso anticipato e l’inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 1384 c.c., essendo prevista la riduzione per la sola clausola penale.

Espletato l’interrogatorio formale del legale rappresentante della parte convenuta, prova testimoniale e C.T.U., con sentenza n. 1986/2008, depositata in data 30.7.2008, il Tribunale di Salerno rigettava tutte le domande condannando l’attore al pagamento delle spese del giudizio.

Avverso detta sentenza proponeva appello l’avv. C., al quale resisteva la parte appellata.

Con sentenza n. 89/2016, depositata in data 11.2.2016, la Corte d’Appello di Salerno rigettava l’appello condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite. In particolare, la CTU evidenziava che la banca aveva correttamente calcolato le rate di mutuo applicando il tasso nominale annuo dell’11,95%, pari allo 0,09958330 mensile; che alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 8742 del 2001; Cass. n. 4380 del 2003), al quale si era uniformato il primo Giudice, non era applicabile la normativa antiusura, né al fine di dichiarare la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418 c.c., né al fine di provvedere alla sostituzione del tasso stabilito al momento della sottoscrizione del piano di ammortamento con quello individuabile in base al meccanismo introdotto dalla L. n. 108 del 1996, limitatamente ai ratei maturati successivamente all’entrata in vigore del meccanismo di determinazione tasso soglia; che (nonostante il CTU avesse provveduto al ricalcolo delle rate mediante applicazione del tasso dell’8%, con decorrenza dal 2.1.2001, come disposto dal D.L. n. 394 del 2000, pervenendo a un totale degli interessi a debito del cliente di poco inferiore (solo Euro 210,00) rispetto a quello individuato dalla banca) il Giudice di secondo grado accertava che non risultava tempestivamente allegata dall’attore la circostanza di un’erronea rideterminazione del piano di ammortamento mediante applicazione del tasso dell’8%, né tempestivamente formulata la domanda di ripetizione di quanto versato in eccedenza a causa di un errore di calcolo, per cui non poteva essere accolta la domanda di ripetizione; che, infine, la clausola di cui all’art. 5 del contratto di mutuo, prevedendo il pagamento di un corrispettivo in caso di recesso o risoluzione, stabiliva una multa penitenziale, per cui non poteva trovare accoglimento la domanda di riduzione, prevista per la clausola penale. Di conseguenza, ritenuta l’infondatezza delle domande dirette a far dichiarare la nullità o a far annullare il contratto di mutuo, era anche respinta la domanda di risarcimento dei danni.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione l’avv. C.R.F. sulla scorta di tre motivi. Resiste l’Istituto con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione dell’art. 1418 c.c., L. n. 154 del 1992, artt. 2 e 4 e L. n. 108 del 1996, artt. 1 e 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4”, là dove la Corte d’Appello non avrebbe adeguatamente approfondito i chiarimenti forniti dal CTU all’udienza del 22.3.2007, ritenendo che il maggior tasso indicato dall’attore costituisse un dato puramente virtuale, che quantificava il vantaggio per la banca derivante dall’incasso anticipato degli interessi. Invero, il pagamento anticipato degli interessi con cadenza mensile, in luogo di quella annuale, modificava realmente, e non virtualmente, il tasso effettivo annuale che non era più dell’11,95%, bensì del 12,62672779%. Che il tasso annuo effettivo fosse reale, e non virtuale, era confermato dallo stesso CTU; avendo il C. versato Lire 24.444 in più per ogni rata dalla n. 1 alla n. 52 per un totale di Lire 1.271.000. Secondo il ricorrente, dunque, la nullità del contratto stava nella capziosa asserzione di cui all’art. 2 del contratto di mutuo che, nel mendace tentativo di rispettare quanto pubblicizzato (erogare mutui al tasso dell’11,95% fisso annuale), prevedeva che il tasso degli interessi fosse stabilito, per tutta la durata del mutuo, nello 0,9958330% mensile pari al tasso nominale annuo dell’11,95%.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4”, poiché la sentenza della Corte di merito si pone in contrasto con l’orientamento della Suprema Corte, che esclude sì la c.d. “usurarietà sopravvenuta”, ma solo per quei rapporti già esauriti prima della successiva entrata in vigore della L. n. 108 del 1996 (24.3.1996), ma non per quelli in essere. Nella fattispecie, il rapporto sorgeva il 26.7.1996, dopo l’entrata in vigore della suddetta legge: la banca non può impunemente incassare dalla rata 22 (del 1.5.1998) alla n. 52 (dell’1.11.2000) un tasso d’interesse superiore a quello soglia. I Giudici di merito, attestando la liceità del rapporto violavano il combinato disposto degli artt. 1339 e 1419 c.c. e, ritenendo lecito l’incasso d’interessi superiori alla soglia usuraria a un rapporto che era nella sua fase iniziale, si ponevano in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, in presenza di rapporti non esauriti al momento dell’entrata in vigore della suddetta legge, gli interessi corrispettivi e moratori ulteriormente maturati andavano ritenuti usurari e sostituiti automaticamente, anche ai sensi dell’art. 1419 c.c., comma 2 e dell’art. 1319 c.c., in relazione ai diversi periodi, dai tassi soglia (Cass. n. 602 del 2013).

1.3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 1427, 1428, 1429 e 1430 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5”, nella parte in cui, per la Corte distrettuale, si sarebbe posta alcuna falsa rappresentazione della realtà che avesse indotto il ricorrente “a manifestare la propria volontà in sede contrattuale, stante la accertata coincidenza tra quanto dichiarato dalla banca e quanto contrattualmente approvato dal cliente mediante sottoscrizione dell’atto contenente il piano di ammortamento predisposto mediante applicazione del medesimo tasso di interesse pubblicizzato”. Il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità secondo la quale l’errore assume rilevanza quando incide sul processo formativo del consenso, dando origine a una falsa o distorta rappresentazione della realtà, a cagione della quale la parte sarebbe stata erroneamente indotta a manifestare la propria volontà, consistente nel proporre all’atto della stipula del mutuo, e lì per la prima volta, il frazionamento del pubblicizzato tasso annuo dell’11,95% in ratei mensili dello 0,9958330% come una mera operazione matematica, mentre gli interessi corrisposti anticipatamente diventavano a loro volta fruttiferi di interessi, facendo lievitare a favore della banca e a spese del mutuatario il tasso annuo effettivo.

2. – Stante la loro stretta connessione logico-giuridica, i motivi di ricorso vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – Essi sono privi di fondamento.

2.2. – In termini generali va rilevato che, nel ricorso per cassazione, non è consentita la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione tra loro eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, non essendo permessa la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e la insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro.

Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa, palesemente mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 2018).

2.3. – Il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Quando nel ricorso per cassazione viene denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il vulnus deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 15177 del 2002; Cass. n. 1317 del 2004; Cass. n. 635 del 2015). Le Sezioni Unite (Cass., sez. un., n. 23745 del 2020) hanno ritenuto che l’onere di specificità dei motivi, di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, impone al ricorrente, a pena d’inammissibilità della censura, di indicare puntualmente le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente ad indicare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare (con una ricerca esplorativa officiosa che trascende le sue funzioni) la norma violata o i punti della sentenza che vi si pongono in contrasto.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto configurati (come nella specie) per mezzo della sola indicazione delle norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

2.4. – Quanto alle censure riferite alla violazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (peraltro erroneamente evocato con riferimento alla asserita omissione del procedimento ermeneutico; ovvero al difetto di motivazione), va posto in rilievo che costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma (nella formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 27.03.2015) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Viceversa, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’e’ alcuna idonea e spcifica indicazione.

2.5. – Infine, è altrettanto consolidato il principio (della essenza del quale non è dato argomentare, in ragione della mera evocazione del parametro, in tutti i motivi riuniti) di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che non è diretta a tutelare l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria attraverso la denuncia di vizi in judicando, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza dell’error in procedendo (ex plurimis, Cass. n. 17905 del 2016; Cass. n. 11354 del 2016; Cass. n. 23417 del 2015; Cass. n. 15676 del 2014).

3. – Orbene, le contestazioni del ricorrente (e di cui al primo motivo, quanto alla infondatezza) si basano sull’assunto per il quale la banca, all’inizio del 1996, avrebbe avuto l’obbligo di pubblicizzare il tasso effettivo praticato al cliente, mentre la L. n. 154 del 1992, art. 2, imponeva alle banche di rendere pubblici i “tassi di interesse effettivamente praticati”, e cioè di praticare tassi conformi a quelli pubblicizzati, senza introdurre alcun concetto di tasso effettivo. Nella fattispecie, la banca rispettava la suddetta disposizione pubblicizzando e indicando in contratto il tasso di interesse effettivamente praticato, vale a dire il tasso nominale dell’11,95% annuo. Nel contratto, poi, oltre ad essere indicato il suddetto tasso nominale, era descritto il rimborso del prestito, ovvero il piano di rientro a rate mensili costanti, comprensive di quota capitale e di quota interessi (v. ricorso pag. 3 e segg.).

Pertanto, nessuna censura può essere mossa alla banca resistente, che non altro faceva se non pubblicizzare e applicare le condizioni contrattuali previste e alle quali il ricorrente aveva consapevolmente aderito.

3.1. – Va peraltro sottolineato che, fattualmente, l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016).

Ne consegue che un tale accertamento sia censurabile in sede di legittimità unicamente nel caso in cui (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie, che appare congrua e coerentemente supportata) la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire al rapporto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006).

3.2. – Quanto al secondo motivo, va rilevato che, al momento della stipulazione del contratto (1.7.1996), il tasso fisso d’interesse praticato all’appellante (11,95% annuo) non era qualificabile come usurario, non essendo ancora utilizzabile il parametro di riferimento del “tasso soglia”, rilevato per la prima volta nel febbraio 1997, e avendo il D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, convertito nella L. n. 24 del 2001 (c.d. decreto d’interpretazione autentica della L. n. 108 del 1996) chiarito che, ai fini del superamento del tasso soglia, il momento rilevante fosse esclusivamente quello della pattuizione del tasso, in tal modo escludendo un fenomeno di usurarietà sopravvenuta.

La legge, aggiungendo che tale nozione è l’unica praticabile agli effetti di cui all’art. 1815 c.c., comma 2, rende certi che, nel caso di tasso originariamente lecito, non è possibile applicare le sanzioni ivi previste, per cui è inibito di giungere a una qualsiasi declaratoria di nullità o di sostituzione automatica della clausola, con inapplicabilità, quindi dell’art. 1418 c.c. e degli artt. 1339 e 1419 c.c.. Come, infatti, precisato nel preambolo del D.L. n. 394 del 2000, è esplicitato che l’intendimento del legislatore sia stato quello di correggere l’orientamento assunto da questa Suprema Corte (che il ricorrente vorrebbe vedere confermato) secondo cui la L. n. 108 del 1996, avrebbe spiegato i propri effetti anche sui mutui già in essere alla data della sua entrata in vigore. E, appunto, questo collegio, ha coerentemente affermato che “Allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto” (Cass., sez. un., n. 24675 del 2017; cfr. Cass. n. 801 del 2016).

4. – Il controllo affidato a questa Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). Sicché, in ultima analisi, tale motivo si connota quale riproposizione, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, di doglianze di merito che attengono all’apprezzamento motivatamente svolto dalla Corte di merito (Cass. n. 24817 del 2018).

Viceversa, i ricorrenti mostrano di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e le vicende processuali, quanto gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi, e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibili nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Compito della Cassazione non e’, infatti, quello di condividere o non condividere la ricostruzione degli accadimenti contenuti nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008); dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che appunto, nel caso di specie, è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

3.3. – Quanto al preteso vizio del consenso, dall’istruttoria di primo grado risulta che la banca aveva pubblicizzato mutui al tasso nominale annuo dell’11,95%, che costituiva il tasso poi effettivamente pattuito in contratto e applicato dalla banca (come confermato in sede di interrogatorio formale e di prova testimoniale).

Quanto alla contestazione relativa alla rideterminazione del piano di ammortamento in seguito all’entrata in vigore della L. n. 24 del 2001, il confronto tra le conclusioni di primo grado (in cui la censura e le relative domande non erano formulate) e quelle svolte nell’atto di appello (dove, per la prima volta, il tema era stato introdotto) non lascia alternativa alla conferma della sentenza impugnata, che correttamente escludeva che la presunta violazione della L. n. 24 del 2001, fosse stata tempestivamente richiesta dall’attore. Si precisa, peraltro, che la censura era infondata dal momento che l’esigua differenza (solo Lire 407.118) rilevata dal CTU derivava dalle diverse metodologie seguite dalla banca e dal CTU per la predisposizione del piano di ammortamento successivo al mutamento del tasso.

4. – Il ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021

 

 

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