Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27059 del 15/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 15/12/2011, (ud. 24/11/2011, dep. 15/12/2011), n.27059

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 31533-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato MASCHERONI EMILIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Z.N.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1729/2006 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 05/12/2006 r.g.n. 686/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/11/2011 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega MASCHERONI EMILIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VIOLA Alfredo Pompeo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 1729/06, depositata il 5 dicembre 2006, rigettava l’impugnazione proposta da Poste Italiane spa, nei confronti di Z.N., avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato il 28 maggio 1999 con la suddetta Z.N..

Il Giudice di appello aveva condannato la suddetta società a riammettere quest’ultima in servizio, nonchè a pagare alla stessa le retribuzioni a decorrere dal 29 marzo 2003.

Afferma la sentenza pronunciata in grado di appello che doveva ritenersi l’illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto stipulato con la Z., in quanto introdotta in un periodo in cui la contrattazione collettiva non consentiva le assunzioni a tempo determinato per i motivi e con le modalità previste fino al maggio 1998, e in aperta violazione dei rigidi criteri dettati dalla L. n. 230 del 1962, unica norma di legge di riferimento al caso in esame, non trovando applicazione la disciplina di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 23.

2. Per la cassazione della suddetta sentenza ricorre Poste Italiane spa, prospettando dieci motivi di ricorso.

3. La Z. non ha svolto difese.

4. In prossimità dell’udienza la ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Ad avviso del ricorrente la violazione ed erronea applicazione dell’art. 100 c.p.c. si pone in maniera evidente, tenuto conto che le dimissioni della lavoratrice, non impugnate nel termine di legge e, pertanto, divenute definitivo ed immodificabile atto di interruzione del rapporto di lavoro (ripristinato per effetto della pronuncia di primo grado), erano da ritenersi circostanza idonea a determinare la carenza di interesse (il quale, in quanto concreto ed attuale deve sussistere in qualsiasi momento del giudizio) alla domanda principale formulata in ricorso, di riammissione nel posto di lavoro.

Il quesito di diritto ha il seguente tenore: se successivamente al ripristino del rapporto di lavoro avvenuto per effetto di pronuncia giudiziale (che ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro con conseguente conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato), le dimissioni dal servizio rassegnate dal dipendente reintegrato e non impugnate nel termine di legge determini la sopravvenuta cessazione della materia del contendere, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., con riguardo alla principale domanda di riammissione sul posto di lavoro formulata in seno al ricorso introduttivo del giudizio.

2. Con il secondo motivo d’impugnazione è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Espone la ricorrente di aver eccepito l’inammissibilità della avversa domanda stante l’intervenuta risoluzione consensuale del contratto, resa invero palese dal contegno di prolungata ed ininterrotta inerzia assunto dalla Z. dopo la scadenza del contratto a termine dedotto in giudizio (il contratto è cessato in data 30.9.99, il ricorso introduttivo del giudizio – in mancanza di altra idonea manifestazione di volontà di data anteriore – è stato notificato il 29.3.03) concretando, detto inequivoco comportamento, una palese risoluzione del contratto per mutuo consenso con conseguente carenza di interesse alla proposizione della domanda giudiziale.

Il giudice di prime cure reputando che il mero decorso del tempo non possa, da solo, far ritenere perfezionata la fattispecie estintiva del rapporto, riteneva la sopradetta eccezione non meritevole di accoglimento. La sentenza in questa sede impugnata si palesa illegittima nella parte in cui i giudici di appello hanno posto a carico della società l’onere di fornire prova delle circostanze rivelatrici di un comportamento concludente del lavoratore, così operando una chiara ed illegittima inversione dell’onere probatorio, I quesiti di diritto hanno il seguente tenore:

a) se in applicazione delle previsioni di cui all’art. 1372 c.c., comma 1 nonchè degli artt. 1175 e 1375 c.c., il comportamento inerte delle parti successivo alla scadenza del termine finale di durata apposto ad un contratto di lavoro ed il protrarsi della mancata reazione del lavoratore all’estromissione dall’azienda, avente durata e modalità tali da evidenziare il completo disinteresse al ripristino del rapporto di lavoro, debba considerarsi quale mutuo consenso in ordine alla cessazione di esso (nel caso di specie, la unicità del rapporto intercorso, la sua breve durata, il decorrere, dopo la cessazione del rapporto e fino alla prima manifestazione della volontà di contestazione della sua legittimità, di un tempo superiore a quattro anni);

b) se ove sia pacificamente cessata l’attuazione di un rapporto di lavoro ed il lavoratore ne chieda il ripristino, incomba sul datore di lavoro, a norma dell’art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare l’avvenuta estinzione anche nel caso di prolungato disinteresse delle parti o se in tale ultima ipotesi debba presumersi l’estinzione per mutuo consenso incombendo sul lavoratore che agisce per l’accertamento della nullità del termine l’onere di provare le circostanze atte a contrastare la predetta presunzione;

c) se il silenzio, in quanto tacita manifestazione di volontà, può soggiacere all’errore quale vizio del consenso ai sensi dell’art. 1427 e ss. c.c. e, pertanto, per valutare la “consapevolezza” dell’illegittimità del termine finale di durata apposto al contratto di lavoro intesa quale condizione necessaria per attribuire significato abdicativo al silenzio del lavoratore in ordine all’attuazione del rapporto occorre che il lavoratore fornisca anche la prova della riconoscibilità dell’errore da parte dell’altro contraente.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ovvero sulla individuazione degli elementi (ulteriori) rispetto al mero decorso del tempo che possano valere a qualificare il contegno del lavoratore, successivamente alla cessazione del rapporto, in termini solutori del rapporto e sulla valenza dello svolgimento, da parte della dipendente, di altra attività lavorativa in epoca successiva alla cessazione del rapporto di lavoro a termine.

4. Con il quarto motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione della L. 18 aprile 1962, n. 230, artt. 1 e 2, nonchè della L. 26 febbraio 1987, n. 56, art. 23, art. 360 c.p.c., n. 3.

La sentenza della corte d’appello è, altresì, censurabile per l’erronea interpretazione delle norme di diritto che regolano la fattispecie e, in particolare, della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2, e della L. n. 56 del 1987, art. 23.

La pronuncia d’appello – pur riconoscendo che l’art. 8 CCNL con i relativi accordi integrativi costituisce applicazione della deroga di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 23 e consente il ricorso ai contratti a tempo determinato – ha, peraltro, erroneamente affermato che il potere ivi riconosciuto ai contraenti collettivi di introdurre nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle previste dalla legge sarebbe soggetto a pretesi limiti temporali.

Il quesito di diritto ha il seguente tenore: se il potere dei contraenti collettivi di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle normativamente previste, stabilito dalla L. n. 561 del 1987, art. 23 può essere esercitato senza limiti di tempo, tenuto conto che la suddetta legge non prevede alcun limite temporale al riguardo.

5.Con il quinto motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 8 CCNL del 26.11.94, nonchè degli accordi sindacali del 25.9.97, del 16 gennaio 1998, del 27 aprile 1998, del 2 luglio 1998, del 24.5.99 e del 18 gennaio 2001, in connessione con l’art. 1362 c.c. e ss. (art. 360 c.p.c., n. 3).

I quesiti di diritto hanno il seguente tenore:

a) se in applicazione dei principi che regolano la successione dei contratti collettivi nel tempo, in termini di efficacia e validità, ad un accordo collettivo che integra il contratto collettivo con riguardo alla introduzione di una nuova ed ulteriore ipotesi di legittimo ricorso alla stipulazione a termine, deve riconoscersi valenza ed efficacia, anche temporale, pari al contratto collettivo di cui costituisce integrazione (nel caso di specie l’accordo integrativo del ccnl 26.11.94, del 25.9.97, introduttivo di una ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine, in quanto non prevedente nel suo contenuto alcun termine finale di validità, assumeva la stessa efficacia temporale del cent che ha integrato);

b) se nell’interpretare un accordo collettivo si deve tener conto del significato letterale delle espressioni in esso utilizzate dalle parti e del comportamento complessivo da esse tenuto anche in epoca successiva alla sua stipulazione facendo applicazione dei criteri di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 c.c. ss e, quindi, valutando oltre alla lettera del contratto (dubbia con riferimento alle espressioni atecniche usate) il comportamento complessivo tenuto dalle parti anteriormente e posteriormente alla stipulazione dell’accordo collettivo del 25.9.97 (nel quale nessun termine finale risulta previsto), gli accordi ed i verbali intervenuti tra le parti in epoca successiva al 25.9.97 e sino al 18.1.01 non avevano natura negoziale bensì valenza meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e della necessità di stipulare o meno ulteriori contratti a termine e, pertanto, da valutarsi quali comportamenti successivi alla stipulazione del contratto idonei ad escludere che le parti abbiano inteso fissare un termine finale alla facoltà riconosciuta a Poste Italiane di fare ricorso ai contratti a tempo determinato;

c) se la posizione giuridica attiva affermata in giudizio meritevole di tutela possa definirsi “diritto quesito” e quindi indisponibile da parte degli agenti contrattuali anche qualora l’accertamento preliminare della sua esistenza non sia stata ancora oggetto di verifica giudiziale per il tramite di sentenza passata in giudicato.

6. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta: omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio – art. 360 c.p.c., n. 5.

La sentenza impugnata sarebbe insufficientemente motivata ai sensi dell’art. 366-bis, avendo la stessa esposto in modo inidoneo le ragioni circa il rapporto, asseritamente sussistente, tra il contratto collettivo, l’accordo sindacale del 25 settembre 1997 e i successivi cd. accordi attuativi, in relazione al supposto limite temporale a cui sarebbero subordinate le assunzioni a termine effettuate dalla società.

Infatti, l’approccio ermeneutico seguito dalla Corte, che ha preteso di desumere l’esistenza del menzionato limite temporale – non previsto nè dal contratto collettivo, nè dall’accordo sindacale del 25 settembre 1997 – soltanto dai cd. accordi attuativi presuppone necessariamente il maturato convincimento in ordine al potere di questi ultimi di prevalere sul CCNL di settore, introducendo elementi in esso non stabiliti.

La Corte di Appello ha, pertanto, proceduto ritenendo di accertare il diritto come se sancito dall’accordo, omettendone l’interpretazione sulla scorta del criterio ermeneutico dato dal comportamento posteriore al preteso perfezionamento della fattispecie di diritto soggettivo ritenuta accertata.

Nei termini corretti si sarebbe dovuto, preliminarmente, procedere alla interpretazione dei negozi coinvolti e, qualora il dato letterale non fosse stato sufficientemente chiaro, non si sarebbe potuto prescindere dalla valutazione del comportamento posteriore delle parti e quindi dal verbale di incontro del maggio 1999 e dall’accordo del 18.1.2001 il quale si palesa decisivo ai fini della soluzione della questione, in quanto correttamente valutato nel suo chiaro significato letterale, consente di interpretare tutti gli accordi coevi e successivi a quello del 25.9.97 quali mere prese d’atto e/o verifiche della persistenza delle esigenze di ristrutturazione posto che con essi ed infine con il medesimo verbale del 18.1.01 le organizzazioni sindacali hanno riconosciuto che effettivamente le assunzioni erano avvenute in coerenza con la causale prefigurata dall’accordo del 25.9.97.

7. Con il settimo motivo è dedotta omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

Il giudice d’appello, esclusa la riconducibilità del contratto in esame sotto la disciplina di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 23 in considerazione della ritenuta scadenza, alla data dell’assunzione, dell’efficacia temporale dell’accordo integrativo del 25.9.97, ha omesso di motivare su un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, ovvero sulla alternativa possibilità di riconduzione della previsione (posta a fondamento dell’assunzione) ad una delle ipotesi di legittima apposizione del termine di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1.

8. Con l’ottavo motivo d’impugnazione è dedotta violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. e), artt. 1362 e 1363 c.c. (art. 360, n. 3).

La Corte di appello nel ritenere non inquadrabile la previsione in esame fra le ipotesi tassativamente indicate dalla L. n. 230 del 1962 ha certamente operato una sostanziale violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. e), (prevedente quale eccezionale ipotesi di apposizione del termine finale di durata al contratto quella volta a far fronte a “l’esecuzione di un opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale”) e degli artt. 1362 e 1363 c.c..

Se la L. n. 230 del 1962, art. 1 nel prevedere che “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate”, individua le (eccezionali) ipotesi in cui è consentita l’apposizione di un termine finale di durata al contratto di lavoro ma non impone che la ragione legittimante l’assunzione debba letteralmente riprodurre una di quelle normativamente individuate, occorrendo verificare, in concreto, caso per caso, attraverso una ricostruzione del significato letterale e complessivo delle espressioni utilizzate dalle parti, secondo i criteri di cui all’art. 1362 e 1363 c.c., la possibilità di riconduzione della ragione limitativa della durata del contratto di lavoro, ad una delle eccezionali ipotesi previste dalla L. n. 230 del 1962, art. 1.

9. I primi tre motivi di impugnazione, relativi, rispettivamente, al rilievo delle intervenute dimissioni e alla tematica del mutuo consenso alla risoluzione del contratto, devono esser trattati congiuntamente in ragione della loro intrinseca connessione.

Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.

9.1. Come questa Corte ha più volte affermato nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Nella specie la Corte d’Appello, confermando la sentenza del Tribunale di Cosenza ha correttamente e congruamente ritenuto che Poste italiane, a fronte della deduzione della intervenuta risoluzione del rapporto per mutuo consenso, omette di fornire, come pure sarebbe stato suo onere, ogni elemento utile, non potendosi arguire dal mero decorso del tempo l’intenzione dei lavoratori di abbandonare ogni iniziativa giudiziaria riguardo alìillegittimità della apposizione del termine al contratto di lavoro, avuto riguardo, in particolare alla imprescrittibilità dell’azione di nullità, che esonera il soggetto legittimato a fare valere l’invalidità ed attivarsi entro un determinato limite temporale ovvero di far precedere l’iniziativa giudiziaria da un comportamento significativo della sua volontà di porre nel nulla il contratto.

In modo corretto e congruo, altresì, la Corte d’Appello ha ritenuto che le dimissioni intervenute dopo la sentenza di primo grado, non potevano riverberarsi sui diritti patrimoniali che detta sentenza aveva riconosciuto alla dipendente sulla base di un rapporto di lavoro ritenuto sussistente con le caratteristiche del lavoro subordinato a tempo indeterminato, in quanto maturati prima delle stesse.

10. Anche i motivi 4, 5, 6 e 7, che attengono, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, alla disciplina applicabile alla fattispecie in esame, devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro intrinseca connessione. Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.

10.1.In modo altrettanto corretto e congruo la Corte d’Appello, tenuto conto del dato temporale e dalla causale dello specifico contratto a termine, ha ritenuto l’illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto stipulato con l’appellata, in quanto introdotta in un periodo in cui la contrattazione collettiva non consentiva le assunzioni a tempo determinato per i motivi e con le modalità previste fino al maggio 1998 e in aperta violazione dei rigidi criteri dettati dalla L. n. 230 del 1962.

Occorre ricordare che per i contratti anteriori al CCNL del 11-1-2001 (nonchè al nuovo regime previsto dal D.Lgs. n. 348 del 2001), come quello in esame, vanno applicati i principi più volte affermati da questa Corte in materia, in base ai quali, sulla scia di Cass. S.U. 2- 3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali e di provare la sussistenza del nesso causale fra le mansioni in concreto affidate e le esigenze aziendali poste a fondamento dell’assunzione a termine” (v. fra le altre Cass. 8-7-2009 n. 15981, Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866), per cui, come ripetutamente affermato da questa Corte, deve ritenersi che “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’alt 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’ari. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

12. Con il nono motivo di ricorso è dedotta violazione ed erronea applicazione detti artt. 1206, 1207, 1217 e 1218 c.c., art. 1219 c.c., art. 1223 c.c., art. 2094 c.c., art. 2099 c.c. (art. n. 360 c.p.c., n. 3).

In via subordinata, la ricorrente evidenzia che nella sentenza ricorsa è ravvisabile la violazione dei principi e delle norme di legge sulla messa in mora (artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219 e 1223 cod. civ.) e sulla corrispettività delle prestazioni (artt. 1453, 1460, 2094 e 2099 cod. civ.), norme e principi sulla base dei quali i lavoratori – anche nel caso di denegata conferma della nullità del termine finale apposto al contratto de quo – avrebbe diritto, a titolo risarcitorio, alle retribuzioni solo dal momento dell’effettiva ripresa del servizio.

Infatti, la sentenza di appello ha ritenuto che dall’accettata nullità del termine conseguisse, da un lato, la prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato, e dall’altro l’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro dalla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Sono stati indicati i seguenti quesiti di diritto:

a) se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. c.c.;

b) se in ipotesi di accertamento della nullità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro e di riconoscimento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni maturate, in applicazione delle previsioni di cui all’art. 1218 e ss. c.c., e degli artt. 2043 e ss.

c.c., devono detrarsi i ricavi percepiti o percepibili facendo uso della ordinaria diligenza (rientrando detti ultimi tra le ipotesi di danno riconducibile a fatto e colpa del soggetto che si assume danneggiato) dal lavoratore (sul quale grava conseguentemente l’onere di provare di aver posto in essere ogni attività utile ad eliminare o limitare il danno) che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa.

13. Con il decimo motivo di ricorso è prospettata contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

Sempre con riguardo ai profili economici conseguenti alla dichiarazione di illegittimità del termine, ritiene la ricorrente che la sentenza sarebbe inficiata da un vizio di contraddittorietà della motivazione in merito al seguente fatto controverso e decisivo:

la (pretesa) avvenuta messa in mora dell’esponente.

Infatti, la Corte pur avendo correttamente affermato il principio per il quale il pagamento delle retribuzioni può decorrere solo dalla data di messa in mora della società – ha disposto la corresponsione delle medesime dalla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, anche se il relativo atto non conteneva alcuna offerta della prestazione e, quindi, era inidoneo alla costituzione in mora.

14. Con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente, invoca, in via subordinata, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

15. Anche i suddetti motivi di ricorso, nove e dieci, devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.

15. I motivi sono inammissibili.

16. Va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547). In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria.

16.1. In particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che essi non siano tardivi o generici, etc; in particolare, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, tali motivi devono essere altresì corredati, a pena di inammissibilità degli stessi, dalla formulazione di un adeguato quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ., ratione temporis ad essi applicabile.

In caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

16.2. Premessi tali principi di diritto, si rileva che, richiamando la sentenza delle Sezioni Unite n. 14381/02, la società sostiene che la situazione di mora accipiendi necessaria per la decorrenza del danno da risarcire nel caso di mancata ripresa del rapporto a seguito della scadenza del relativo termine, a posteriori dichiarato nullo non è intergrata dalla domanda di annullamento del preteso licenziamento illegittimo e tantomeno dalla istanza pregiudiziale di tentativo obbligatorio di conciliazione pregiudiziale.

La ricorrente aggiunge, inoltre, che l’aliunde perceptum non poteva che essere dedotto genericamente, a prescindere dal mancato corso dato alle proprie istanze istruttorie (informazioni presso il collocamento, ordine di esibizione dei modelli 740 del ricorrente) tese a dimostrare la percezione da parte della lavoratrice di redditi alternativi nel periodo di inoccupazione presso le poste, come tali incidenti sulla misura del risarcimento danni.

16.3. I quesiti di diritto sopra richiamati, per come riguardano il tema dell’aliunde perceptum (la ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum, in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr.. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099), e, comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi, sono generici (ma già nell’illustrazione del motivo la società non indica del resto quale atto in concreto i giudici abbiano erroneamente qualificato come di mora credendi, riferendosi viceversa alle due ipotesi astratte della impugnazione del licenziamento e della richiesta pregiudiziale del tentativo di conciliazione), e non pertinenti rispetto alla fattispecie, in quanto si risolvono nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Il quesito di diritto, che la norma del codice di rito richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve infatti essere formulato, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr., ad es., Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico o non pertinente.

In proposito, come rilevato da Cass. S.U., ord. 5 febbraio 2008 n. 2658, a fini indicativi “potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui erroneità sono adeguatamente illustrate nel motivo.

16.4. Concludendo, nel caso in esame la genericità, astrattezza e quindi non pertinenza dei quesiti ne determina l’inesistenza e con essa l’inammissibilità del relativi motivi di ricorso, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c..

17. Pertanto il ricorso va rigettato. Nulla spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2011

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA