Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27056 del 15/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 15/12/2011, (ud. 24/11/2011, dep. 15/12/2011), n.27056

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 172-2008 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato PAROLETTI CAMILLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2011/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 22/12/2006 r.g.n. 670/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/11/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega PAROLETTI CAMILLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VIOLA Alfredo Pompeo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con sentenza del 20.12.2006, notificata il 15.3.2007, la Corte di Appello di Torino accoglieva parzialmente l’appello proposto dalla s.p.a. delle Poste Italiane, confermando la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto stipulato il 27.11.2000 con M.S., con scadenza al 31.12.2001, e la natura a tempo indeterminato del rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti e riformando la stessa con riguardo alla condanna al risarcimento del danno, rideterminato in minor misura con riguardo alle retribuzioni maturate dalla notifica del ricorso introduttivo, anzichè dal 19.12.2003.

Rilevava la Corte che non era emerso dagli atti alcun dato in ordine alla connessione tra la posizione del lavoratore e le eventuali esigenze eccezionali connesse con la fase di ristrutturazione in corso; quanto al risarcimento del danno, affermava che l’offerta di prestazione lavorativa era stata erroneamente individuata, attesa la mancata prova di ricezione della richiesta per il tentativo obbligatorio di conciliazione. Rigettava il motivo di gravame relativo alla risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la società, affidando l’impugnazione a due motivi:

1) Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 1372 c.c., comma 1, art. 1362 c.c., comma 2, art. 1427 e ss., art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c.), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), rilevando l’erronea valutazione della questione della risoluzione del rapporto per mutuo consenso, con riguardo ad una inerzia del lavoratore di ben quattro anni rispetto ad un rapporto lavorativo di soli due mesi ed alle circostanze del reperimento di nuova occupazione e della mancata presentazione del M. al lavoro, a seguito di comunicazione di riammissione in servizio, nonchè della mancata impugnativa di provvedimento disciplinare di licenziamento.

2) Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3), in relazione alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e ss. (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’accordo del 25.9.1997 e successivi accordi integrativi, assumendo che non vi era nessun riferimento nel testo dell’accordo collettivo alla esigenza della specificazione delle esigenze eccezionali nel singolo ufficio e che non si spiegherebbe, secondo l’interpretazione della Corte territoriale, l’imposizione all’autonomia collettiva dell’obbligo di fissare un limite quantitativo alle assunzioni a termine effettuate in base alle fattispecie pattizie; evidenziando, ancora l’errore prospettico della Corte territoriale, considerati i caratteri della delega rilasciata alle parti sociali dalla L. n. 23 del 1987, art. 23 e la censurabile lettura della L. n. 56 del 1987, art. 23 oltre che la concorrente violazione delle regole ermeneutiche di cui agli artt. 1362 e ss.

c.c. criterio letterale e comportamento delle parti posteriore alla stipulazione dell’accordo.

Il M., intimato, non ha presentato difese, laddove la società ha ulteriormente illustrato i motivi di ricorso , con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

La Corte ha autorizzato la redazione della motivazione in forma semplificata.

Va respinto il ricorso quanto alla prospettata questione della risoluzione per mutuo consenso, che va trattata preliminarmente in ordine di priorità logico-giuridica.

Come questa Corte ha più volte affermato, “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Nella specie la Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado sul punto, ha ribadito, con adeguata e congrua motivazione, che non potesse desumersi dal mero trascorrere del tempo, la volontà, sia pure tacita, del lavoratore di risolvere il rapporto e di rinunciare ad un suo diritto e che il lasso di tempo intercorso tra la cessazione del rapporto (31.12-2001) e la notifica del ricorso introduttivo era da ritenersi insufficiente a fondare qualsiasi presunzione nel senso voluto dalla società.

Peraltro, il richiamo alla comunicazione di riammissione in servizio inviata al lavoratore, ed alla mancata impugnativa di un successivo licenziamento configura una questione nuova, non deducibile per la prima volta nella presente sede di legittimità.

Con l’ulteriore motivo del ricorso principale la società ricorrente in sostanza lamenta che la sentenza impugnata si fonda sull’erroneo pregiudizio secondo cui L. n. 56 del 1987, art. 23 non consentirebbe all’autonomia collettiva di costruire fattispecie legittimanti assunzioni a termine collegate a situazioni (oggettive o soggettive) tipicamente aziendali e che non siano direttamente collegate ad occasioni precarie di lavoro. La ricorrente deduce, infatti, che l’art. 8 del ccnl del 1994, così come integrato dall’accordo 25-9- 97, subordinava la sua applicazione unicamente all’esistenza di un processo di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali dell’azienda, per cui l’interpretazione di tale accordo compiuta dalla Corte torinese “risulta viziata, oltre che dall’erronea lettura della L. n. 56 del 1987, art. 23 che ha condizionato, viziandola irrimediabilmente, anche la successiva esegesi della disciplina contrattuale, anche dall’autonoma e concorrente violazione delle regole ermeneutiche legali di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. (ed in particolare del criterio letterale e del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione)”.

Il motivo non può essere accolto, anche se la motivazione della sentenza merita di essere in parte corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c. come più volte affermato da questa Corte in casi analoghi di ricorsi avverso sentenze dello stesso tenore (v. fra le altre Cass. 24-3-2009 n. 7042, Cass. 22-1-2009 n. 1626, Cass. 7-1- 2009 n. 41, Cass. 12-11-2008 n. 27030, Cass. 19-11-2008 n. 27470).

In base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al D.Lgs. n. 368 del 2001), sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063,v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove, però, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8- 2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte affermato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1- 10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In base al detto orientamento, ormai consolidato, deve quindi ritenersi illegittimo il termine apposto al contratto in esame per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato dopo il 30 aprile 1998 ed è pertanto privo di presupposto normativo (tale considerazione è stata considerata assorbita dalla Corte di Torino in ragione della ritenuta necessità della prova del collegamento concreto della assunzione de qua con la ristrutturazione in atto). Nè a diverse conclusioni può giungersi dall’esame dell’accordo del 18.1.2001, ovvero della disposizione di cui all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, pure invocati dalle Poste a sostegno del proprio assunto.

Si ha riguardo ad un accordo – stipulato ad oltre due anni di distanza dall’ultima proroga – che non potrebbe coprire mai il “vuoto” normativo creatosi nel periodo precedente, rendendo legittimi comportamenti posti in essere in contrasto con norme imperative di legge. Ed in ogni caso il nuovo accordo non potrebbe mai travolgere diritti già acquisiti nel patrimonio di terzi nel periodo intermedio (cfr. in termini Cass. n. 15331 del 7.8.2004).

Risulta, dunque, irrilevante il richiamo all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, sia perchè esso si riferisce chiaramente alle sole assunzioni da effettuare dopo l’entrata in vigore del nuovo contratto, sia perchè la possibilità di procedere ad assunzioni a termine “per esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione” è subordinata all’esito di confronto con la controparte sindacale a livello nazionale ovvero a livello regionale, il che, a ben vedere, conferma l’inesistenza di qualsiasi pregresso accordo generale per tale tipo di assunzioni.

In tal senso, quindi, va respinto il ricorso, in parte correggendosi, come sopra, la motivazione dell’impugnata sentenza, non essendo stata, peraltro, avanzata alcuna altra censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine ed il capo relativo al risarcimento del danno.

Al riguardo, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010.

Orbene, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

Tale condizione non sussiste nella fattispecie, benchè, con sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 siano state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1.

Nulla va statuito sulle spese del presente giudizio, essendo il M. rimasto intimato.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2011

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