Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27051 del 26/11/2020

Cassazione civile sez. I, 26/11/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 26/11/2020), n.27051

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3444/2016 proposto da:

Veneto Banca S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Pompeo Magno n. 3,

presso lo studio dell’avvocato Gianni Saverio, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato Solinas Gianni, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.P.O., D.P.L., S.G., elettivamente

domiciliati in Roma, Viale Giuseppe Mazzini n. 88, presso lo studio

dell’avvocato Sperati Raffaele, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Grelli Enzo, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2903/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 29/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

07/07/2020 dal Cons. Dott. DI MARZIO MAURO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Veneto Banca S.p.A., già Veneto Banca S.c.a.r.l., ricorre per quattro mezzi illustrati da memoria, nei confronti di D.P.O., S.G. e D.P.L., contro la sentenza del 29 dicembre 2014 con cui la Corte d’appello di Venezia ha respinto il suo appello avverso sentenza del Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Montebelluna, che l’aveva condannata al pagamento delle somme di Euro 128.106,69 in favore di D.P.O. e S.G. e di Euro 195.926,18 in favore di D.P.L., il tutto con accessori e spese, a titolo di risarcimento del danno per violazione, da parte della banca, in veste di intermediario finanziario, di obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza in relazione all’investimento effettuato dagli originari attori, a ciò indotti da due dipendenti della banca medesima, in prodotti finanziari ritenuti particolarmente rischiosi (fondi di investimento (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS)).

2. – D.P.O., S.G. e D.P.L. resistono con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso contiene quattro motivi.

1.1. – Il primo motivo denuncia: “art. 360, n. 3, art. 360, n. 4, art. 360, n. 5: violazione e errata applicazione della disposizione di legge di cui all’art. 342 c.p.c. e art. 21, comma 1, TUF; nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., per motivazione “apparente”; omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

La composita censura è volta ad affermare che la decisione del Tribunale, poi confermata dalla Corte d’appello, aveva fondato la propria pronuncia risarcitoria sull’accoglimento di una domanda di risoluzione per inadempimento, per avere essa banca violato obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza, sicchè la domanda medesima avrebbe potuto essere accolta solo in ipotesi di accertamento di un inadempimento, accertamento che sarebbe mancato in quanto la Corte territoriale:

-) avrebbe errato nel ritenere non contestata l’esistenza di un riempimento dei contratti contra pacta, dal momento che Veneto Banca aveva puntualmente contestato in appello l’errore commesso dal primo giudice nell’aver definito come “due proposte di investimento” un documento redatto dal suo dipendente B., che era invece un documento privo di alcun rilievo negoziale e/o valenza probatoria, tanto più che il B. non aveva mai prestato servizio presso la filiale frequentata dagli originari attori e, inoltre, non aveva mai incontrato D.P.O. e S.G., ma solo D.P.L., per il fatto che questi gestiva una palestra frequentata dal menzionato dipendente;

-) avrebbe errato nell’affermare che Veneto Banca non avrebbe fornito alcuna prova in ordine all’informativa somministrata ai clienti, giacchè la banca aveva sostenuto, sulla base della prova documentale fornita addirittura da controparte, che non solo gli attori erano stati resi edotti sulla eventuale rischiosità degli investimenti dagli stessi richiesti, ma al momento dell’acquisto dei fondi avevano ricevuto i prospetti informativi relativi a ciascun investimento, documenti ben più esaustivi sotto il profilo informativo rispetto ad un semplice generico documento sui rischi generali;

-) non aveva considerato che nessuna prova era stata fornita con riguardo al carattere apocrifo o addirittura falso di alcuno dei documenti posti a sostegno della domanda;

-) avrebbe errato nel ritenere che la banca non avesse contestato il nesso causale sul danno asseritamente subito dagli attori.

1.2. – Il secondo mezzo è rubricato: “art. 360, n. 3, art. 360, n. 4, art. 360, n. 5: violazione e errata applicazione della disposizione di legge di cui all’art. 342 c.p.c. e art. 28, comma 2, reg. Consob n. 11.522/1998; nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., per motivazione “apparente”; omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è dato oggetto di discussione tra le parti”.

La Corte territoriale, si sostiene, non avrebbe considerato il momento storico in cui era collocato l’investimento, momento nel quale i più prestigiosi titoli italiani ed esteri avevano subito importanti flessioni, il che stava a testimoniare che non erano sbagliati gli investimenti nei fondi comuni, ma era stato infelice il momento di effettuazione dell’investimento.

D’altronde non risultava neppure provato che gli attori in primo grado avessero inteso porre in essere investimenti di tipo conservativo, tant’è che gli stessi avrebbero confermato di aver sottratto i propri investimenti-risparmi ad altri fondi-rapporti proprio al fine di ottenere un maggior lucro dal proprio denaro.

1.3. – Il terzo mezzo è rubricato: “Art. 360, n. 3, art. 360, n. 5: violazione e errata applicazione della disposizione di legge di cui all’art. 1227 c.c.; omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe totalmente omesso di considerare la condotta degli attori, ai quali erano sempre stati recapitati gli estratti conto, che non erano stati mai contestati.

1.4. – Il quarto mezzo è rubricato: “Art. 360, n. 3: errata qualificazione della fattispecie come debito di valore con conseguente errata applicazione della disposizione di legge di cui all’art. 1224 c.c.”.

Si assume che la condanna pronunciata dal Tribunale e confermata dalla Corte d’appello avrebbe riguardato “la restituzione delle somme investite senza effettuare l’esatto calcolo del danno asseritamente subito”, di guisa che il debito andava qualificato come debito di valuta e non di valore, neppure avendo gli attori provato il maggior danno di cui al comma 2 della disposizione citata in rubrica.

2. – Il ricorso è infondato.

2.1. – Il primo mezzo è per lo più inammissibile sotto una pluralità di profili.

Si tratta di un motivo ampiamente cumulato che coniuga violazione di legge, vizi di attività ed omessa considerazione di un fatto decisivo e controverso.

Ora, nella giurisprudenza di questa Corte:

-) per un verso, il cumulo dei motivi è sì permesso, ma solo a condizione che la formulazione consenta di comprendere con chiarezza le censure prospettate (Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100; Cass. 17 marzo 2017, n. 7009), e cioè se la sua formulazione permetta di isolare le doglianze prospettate onde consentirne l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati: nell’accolta prospettiva, dunque, il motivo cumulato è in realtà solo apparentemente tale, giacchè lo svolgimento di ciascuna delle doglianze in cui esso si articola, tale da prestarsi senza difficoltà, ad un esame separato, segue, semplicemente, ad una rubrica onnicomprensiva e non è invece preceduto da una rubrica riferita ad ognuna delle doglianze medesime, autonomamente sviluppate;

-) per altro verso il cumulo rende il motivo di per se stesso inammissibile quando le doglianze risultino intrinsecamente contraddittorie, il che, in particolare, accade in ipotesi di cumulo della censura di violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, ed oggi di omessa considerazione di un fatto decisivo e controverso, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (tra le tante Cass. 9 maggio 2018, n. 11222; Cass. 7 febbraio 2018, n. 2954; Cass. 20 novembre 2017, n. 27458; Cass. 5 ottobre 2017, n. 23265; Cass. 23 settembre 2011, n. 19443). Nel caso in esame, come si diceva, il motivo risulta perlopiù inammissibile comunque lo si guardi: e cioè non soltanto per il fatto che esso indica simultaneamente censure riconducibili, da un lato, ai numeri 3 e 4 dell’art. 360, e, dall’altro, al numero 5 della stessa disposizione, ma altresì perchè le singole censure sono in effetti tra di loro così sovrapposte ed intrecciate, così da non prestarsi ad essere isolate ed individualmente esaminate. Non riesce in particolare a comprendersi:

-) nè in che cosa consisterebbe la violazione dell’art. 21 TUF, considerato che la censura non pone in alcun modo in discussione, almeno comprensibilmente, il significato e la portata applicativa della norma;

-) nè in che cosa si sarebbe sostanziata la violazione dell’art. 342 c.p.c., ed in quale parte detta norma sarebbe per ipotesi stata violata;

-) nè quale, di preciso, sarebbe il fatto decisivo e controverso che la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare.

Al profilo di inammissibilità evidenziato se ne aggiunge uno ulteriore, giacchè la censura, in più punti, non è neppure autosufficiente, con conseguente inammissibilità ai sensi del numero 6 dell’art. 366 c.p.c., giacchè non riesce a capirsi con esattezza di cosa la ricorrente stia discorrendo – e su cosa la censura si fondi – quando menziona:

-) l’esistenza di un riempimento dei contratti contra pacta;

-) un non meglio identificato documento redatto dal B., del quale può supporsi abbia parlato il Tribunale, ma che la Corte d’appello non menziona punto a fondamento della propria decisione, dandone brevemente conto solo nella parte dedicata allo svolgimento del processo;

-) i prospetti informativi;

-) il carattere apocrifo o addirittura falso di alcuno dei documenti posti a sostegno della domanda;

-) la contestazione del nesso causale sul danno subito dagli attori. Ancora, la censura spiegata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è inammissibile, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., versandosi in ipotesi di “doppia conforme”.

Ciò che residua in definitiva dalla lettura del motivo, come sovente accade in ipotesi di cumulo, è il tentativo di rimettere in discussione il giudizio di fatto compiuto dalla Corte territoriale, la quale ha affermato, in modo del tutto chiaro, lineare e comprensibile:

-) che la propensione al rischio degli originari attori, come risultante dagli investimenti da essi in precedenza effettuati, fosse assai contenuta (la sentenza impugnata, pagina 7, parla di propensione “obbiettivamente inesistente”), sicchè la banca, nella sua veste di intermediario finanziario, era tenuta ad informare gli investitori dell’elevatissimo rischio che si accingevano a correre nell’acquisto dei prodotti finanziari oggetto del contendere, mentre essa non aveva somministrato le informazioni dovute in violazione del citato art. 21;

-) che, in ogni caso (i.e. anche ad ammettere che gli investitori fossero stati resi consapevoli dell’entità del rischio da correre), la Banca avrebbe comunque dovuto astenersi dal dar corso all’operazione così palesemente inadeguata, in ossequio all’art. 29 del regolamento Consob nella specie applicabile.

Giudizio di fatto, quello che precede, che, peraltro, senza dubbio si inscrive correttamente nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di intermediazione mobiliare, ove pure il cliente affidi all’intermediario il solo incarico di eseguire degli ordini, ma non anche quello di consulenza in relazione alla scelta dei prodotti finanziari da acquistare e di gestione del portafoglio dei titoli stessi, l’intermediario è comunque tenuto a fornire al primo adeguate informazioni sia sulle operazioni in sè, sia quanto alla loro adeguatezza rispetto al suo profilo di rischio, sicchè, ai fini della valutazione di adeguatezza di tali informazioni, nonchè delle omissioni in esse ravvisabili, non rileva che il cliente abbia dichiarato, in sede di stipula del contratto quadro di investimento, di possedere un’esperienza “alta” con riferimento ai prodotti finanziari da acquistare ed un’elevata propensione al rischio, nè che egli si sia eventualmente rifiutato di dare indicazioni sulla propria situazione patrimoniale (p. es. Cass. 23 settembre 2016, n. 18702).

Ciò detto, è cosa nota che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, nei limiti in cui detto sindacato è tuttora consentito dell’art. 360 c.p.c., vigente n. 5, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 agosto 2017, n. 19547; Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 9 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357).

Resta da dire della censura di nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., la cui infondatezza è resa manifesta da quanto testè rammentato in ordine alla motivazione addotta dal giudice di merito a fondamento della propria decisione, motivazione senz’altro collocata al di sopra dell’asticella del minimo costituzionale (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).

2.2. – Il secondo mezzo è inammissibile.

Valgono le considerazioni già svolte con riguardo al confezionamento del motivo quale motivo cumulato nonchè quelle concernenti l’inammissibilità per “doppia conforme” della censura motivazionale. Basterebbe poi osservare che la censura mira a contrastare, ancora una volta, nel merito la valutazione di inadeguatezza dell’investimento: ma a ciò deve aggiungersi che i profili evidenziati (il momento storico dell’andamento borsistico, in disparte ogni considerazione sull’idoneità di una così vago riferimento ad assumere in proposito alcun rilievo, ed il disinvestimento di precedenti attività) non risultano trattati nella sentenza impugnata, con conseguente inammissibilità anche per novità della censura (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675).

2.3. – Eguali considerazioni valgono con riguardo al terzo motivo. Dalla sentenza impugnata non risulta affatto che nella fase di appello fosse stata sollevata la questione dell’applicabilità dell’art. 1227 c.c. (risulta invece che la norma era stata invocata dinanzi al Tribunale), nè il ricorso per cassazione indica con precisione dove e quando la questione sarebbe stata sollevata in fase di impugnazione: e dunque ancora una volta l’inammissibilità discende dalla novità della censura.

2.4. – Il quarto motivo è infondato.

A pagina 4 della sentenza impugnata la Corte d’appello ha affermato che il Tribunale aveva condannato la banca “al risarcimento del danno” ed ha ribadito che “l’omessa informazione sul grado di rischio di un investimento in strumenti finanziari… è fonte di responsabilità…, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni”: ed è superfluo rammentare che, nella ferma giurisprudenza di questa Corte l’obbligazione di risarcimento del danno configura un debito di valore (ex multissimis da ult. Cass. 20 aprile 2020, n. 7948).

Sicchè il motivo, laddove assume che si verserebbe in ipotesi di obbligazione di valuta, muove da una premessa smentita dalla sentenza impugnata, in conformità a quella di primo grado.

3. – Il ricorso è respinto. Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore dei controricorrenti, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 11.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2020

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