Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27044 del 27/12/2016


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Cassazione civile, sez. II, 27/12/2016, (ud. 09/11/2016, dep.27/12/2016),  n. 27044

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14851-2012 proposto da:

ISOLANA SRL, (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, BRUNO

BUOZZI 107, presso lo studio dell’avvocato ENRICO ELIO DEL PRATO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato TEODORO BUBBIO,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

e contro

G.G., G.C., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA G. PISANELLI 4, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE GIGLI,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANCARLO

BOVETTI in virtù di procura a margine del controricorso;

– ricorrenti incidentali –

e contro

I.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA P. da

PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato MARIO CONTALDI, e

rappresentato e difeso dall’avvocato FABRIZIO GAIDANO in virtù di

procura a margine dell’atto di intervento;

– interventore –

avverso la sentenza n. 915/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 24/05/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/11/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Teodoro Bubbio per la ricorrente, nonchè l’Avvocato

Giancarlo Bovetti per i contro ricorrenti e l’Avvocato Fabrizio

Gaidano per il terzo interventore;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso per l’inammissibilità

dell’intervento e per il rigetto del ricorso principale ed

incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 12/12/2008, Gi., C. e G.G. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Mondovì la Isolana S.r.l., assumendo che la stessa deteneva, senza alcun valido titolo, dei fondi siti in (OMISSIS) dei quali gli attori erano comproprietari, e precisamente quelli riportati in Catasto al foglio (OMISSIS).

Chiedevano quindi accertarsi la loro proprietà, secondo le quote di rispettiva spettanza, con la condanna della convenuta all’immediato rilascio.

La società si costituiva e assumeva che sin dal 1977 l’intera area era stata continuativamente ed esclusivamente utilizzata da I.C., che era comproprietario dei fondi di cui al mappale n. (OMISSIS), e che l’aveva adibita ad area di manovra e di parcheggio della sua impresa di autotrasporto, avendo altresì fatto costruire un muro di sostegno e recinzione, manifestando quindi una visibile e completa signoria sul bene.

Chiedeva pertanto accertarsi in via riconvenzionale l’usucapione del bene.

Gli attori producevano allora due dichiarazioni a firma dell’ I. che avrebbero dimostrato l’esistenza di un contratto di comodato, e conseguentemente l’insussistenza del possesso idoneo ad usucapire. All’esito del giudizio, il Tribunale adito con la sentenza del 23 marzo 2010 accoglieva la domanda attorea, rigettando la riconvenzionale, reputando che le scritture versate in atti erano dei contratti di comodato, contratti nei quali era poi subentrata anche la società, a seguito del trasferimento dell’azienda effettuato dall’ I. in favore della stessa con atto del (OMISSIS).

Ne conseguiva che la società era a sua volta detentrice del bene oggetto di causa, e non avendo dimostrato un atto di interversione, non poteva in alcun modo invocare l’acquisto per usucapione.

A seguito di appello proposto dagli attori e di appello incidentale avanzato dalla società, la Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 915 del 24 maggio 2012, in accoglimento del primo motivo dell’appello principale, condannava la società all’immediato rilascio dei beni di proprietà degli appellanti, rigettando l’appello incidentale.

Dopo avere fornito una descrizione dell’area oggetto di causa, precisava che alcuni mappali erano di esclusiva proprietà degli attori, altri di esclusiva proprietà di I.C., ed altri ancora in comproprietà tra i G. e l’ I..

Riteneva poi pacifico che tutte le installazioni presenti nel piazzale e funzionali allo svolgimento dell’attività della società erano state realizzate da I.C. a partire dal 1977.

Quindi dopo avere ritento inammissibile il primo motivo di appello incidentale, concernente la mancata ammissione delle prove richieste dalla società, esaminava le scritture prodotte dagli attori e recanti le date del 18/11/1980 e del 1/10/1981, ritenendo che effettivamente non poteva reputarsi che le stesse contenessero la stipula di un contratto di comodato.

Ed, infatti, tenuto conto che l’attività di utilizzo del piazzale da parte dell’ I. risaliva al 1977, con le scritture in questione l’ I. riconobbe la proprietà delle aree in favore dei G., impegnandosi al contempo a provvedere allo sgombero dell’area a semplice richiesta degli attori.

Poichè il contratto di comodato è un contratto a forma libera doveva ritenersi che lo stesso fosse stato concluso tra gli attori e l’ I. per facta concludentia ed in epoca anteriore alle dichiarazioni, con le quali si intendeva ribadire l’obbligo del comodatario di rilasciare i beni ad nutum.

Ne discendeva che non poteva trovare accoglimento la domanda di usucapione, non esistendo il possesso in capo alla convenuta, atteso che anche le opere realizzate sul piazzale erano in realtà facultate dal contratto di comodato intervenuto) tra le parti.

Quanto alla pretesa di usucapire parzialmente il mappale n. (OMISSIS), che era in comproprietà tra i G. e l’ I., essendo quindi escluso dal rapporto regolato dal comodato, rilevava la Corte torinese che la fruizione del bene avveniva quale esercizio del diritto di comproprietà e non poteva quindi legittimare una richiesta di usucapione in danno degli altri comunisti.

Passando poi alla disamina dell’appello principale, reputava fondato il primo motivo, con il quale ci si doleva dalla mancata pronunzia della condanna della società al rilascio del bene in favore degli attori, mentre, quanto alla domanda risarcitoria riteneva che non potesse essere accolta in mancanza di prova del danno.

La Isolana S.r.l. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.

G.C. e G.G., anche quali eredi di Ga.Gi., deceduto nelle more del giudizio hanno resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale condizionato articolato in due motivi.

La ricorrente ha proposto controricorso al ricorso incidentale.

In data 25/10/2016 ha depositato atto denominato di intervento I.M..

La ricorrente principale ed i ricorrenti incidentali hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità dell’atto di intervento spiegato direttamente in questo grado di giudizio da I.M., il quale deduce la non integrità del contraddittorio in relazione alla domanda di rimozione delle opere esistenti sul mappale n. (OMISSIS), del quale lo stesso I. è comproprietario, e ciò sul presupposto che la domanda di demolizione di un immobiliare in comunione deve essere rivolta necessariamente nei confronti di tutti i comproprietari, quali litisconsorti necessari dal lato passivo.

Ne discenderebbe che il difetto di integrità del contraddittorio mina la validità dell’intero giudizio, e che, trattandosi di questione rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità, si imporrebbe la cassazione della sentenza gravata, con rinvio al giudice di primo grado.

Tuttavia reputa il Collegio che debba darsi continuità al costante orientamento di questa stessa Corte per il quale è inammissibile l’intervento proposto dal terzo direttamente in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 11375/2010), mancando al riguardo una espressa previsione normativa, indispensabile nella disciplina di una fase processuale autonoma, e riferendosi l’art. 105 c.p.c., esclusivamente al giudizio di cognizione di primo grado (in senso conforme si veda anche Cass. n. 10813/2011; Cass. n. 5759/2016).

Dall’inammissibilità consegue anche l’inutilizzabilità in questa sede dei documenti prodotti dall’interventore nonchè dei documenti, in parte identici a quelli prodotti dall’ I., versati in atti dalla ricorrente principale come da lista notificata in data 26/10/2016, atteso che trattasi di documenti che, in quanto volti a documentare l’esistenza del litisconsorzio necessario, esulano dal novero dei documenti la cui produzione è ammissibile ex art. 372 c.p.c. (così ex multis Cass. n. 3024/2012; Cass. n. 17581/2007).

Ne deriva altresì che, poichè il difetto di integrità del contraddittorio per omessa citazione di alcuni litisconsorti necessari può essere dedotto per la prima volta anche nel giudizio di cassazione, alla duplice condizione che gli elementi posti a fondamento emergano, con ogni evidenza, dagli atti già ritualmente acquisiti nel giudizio di merito (poichè nel giudizio di cassazione sono vietati lo svolgimento di ulteriori attività e l’acquisizione di nuove prove), una volta ribadita la inammissibilità della suddetta produzione documentale, e l’impossibilità quindi per la Corte di poterne tenere conto ai fini della decisione, non vi è, prova della circostanza che giustifica una fattispecie di litisconsorzio necessario.

In tal senso, infatti, la necessità di evocare in giudizio gli altri comproprietari della sola particella n. (OMISSIS) (in quanto per le altre particelle interessate dal presente giudizio, i ricorrenti incidentali sono proprietari esclusivi, e quindi non si pone alcuna necessità di integrare il contraddittorio) scaturirebbe dalla necessità di dover demolire delle opere edificate sulla stessa particella, circostanza che però non risulta in alcun modo provata nelle precedenti fasi di giudizio, posto che, anche dal tenore della sentenza gravata, pur dandosi atto della presenza di installazioni sul piazzale, non vi è prova che queste insistano specificamente sulla particella n. (OMISSIS).

Nè la sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario può desumersi dal fatto che sia stata proposta domanda di usucapione della particella n. (OMISSIS), appartenente altresì ad I.M. e Cl., in quanto, anche a voler sorvolare circa l’effettivo interesse a dedurre la violazione del principio del litisconsorzio da parte di coloro che sono risultati sostanzialmente vittoriosi a fronte della domanda di usucapione, quali i germani I., che hanno appunto conservato la comproprietà del bene, tuttavia emerge che la domanda di usucapione, come si ricava dalla lettura della sentenza impugnata alla pag. 15, laddove riassume il motivo di appello proposto sul punto dalla società, riguardava la sola quota appartenente agli attori, non risultando quindi destinatari della stessa anche gli I..

2. Passando al primo motivo di ricorso, con il medesimo si denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Infatti, nell’esaminare la domanda di usucapione parziale del mappale n. (OMISSIS), la Corte d’Appello aveva mostrato di essere ben consapevole che la proprietà del bene era in capo sia a G.C. e G. per la quota di 1/2, sia in capo ad Is.Cl. e M. per la restante parte. Ira quindi palese che la società ricorrente non vantava alcun diritto proprietario su tale fondo, tuttavia, nell’esaminare la domanda de qua, la sentenza aveva affermato in maniera contraddittoria che l’occupazione del mappale ad opera della società era avvenuta in ragione ed a titolo di comproprietà.

La evidente confusione nella quale è incorsa la Corte distrettuale rende la motivazione della sentenza sul punto contraddittoria, mostrando di avere altresì trascurato l’autonomia esistente tra la società e le persone dei soci.

Per l’effetto deve escludersi che il godimento del bene in esame sia avvenuto da parte della ricorrente avvalendosi delle facoltà connesse alla qualità di comproprietaria.

Il secondo motivo del ricorso principale denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, nonchè la violazione dell’art. 112 c.p.c..

In particolare la società aveva contestato con la comparsa di risposta in appello che la richiesta di restituzione dei beni avanzata ante iudicium dagli attori non aveva riguardato anche il bene di cui al mappale n. (OMISSIS), sicchè non era stata soddisfatta una condizione dell’azione, rappresentata dalla preventiva richiesta di restituzione del bene al comodatario.

Tale contestazione era stata poi reiterata in tutto il corso del giudizio di gravame ma sulla stessa non vi era stata alcuna statuizione ad opera della decisione oggi gravata.

In ogni caso deve ritenersi non condivisibile quanto in passato sostenuto dalla Corte con la sentenza n. 5899/87, a mente della quale la richiesta di restituzione dei beni al comodatario non deve essere preceduta da una richiesta stragiudiziale, invocandosi a tal fine un mutamento di giurisprudenza, in ragione dell’esigenza di perseguire un’interpretazione delle norme rispettosa del principio di economia processuale, al fine di assicurare una deflazione del contenzioso.

Il terzo motivo denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss. e dell’art. 1141 c.c., nonchè la contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio.

Si deduce che la Corte distrettuale, nell’interpretare le dichiarazioni rese dall’ I. e prodotte dagli attori, avrebbe malamente applicato le norme in tema di interpretazione dei contratti.

Inoltre si sarebbe affermata la natura di dichiarazioni ricognitive del diritto di proprietà, laddove nel nostro ordinamento si tratta di figura disciplinata in maniera espressa solo in materia di enfiteusi.

L’affermazione circa l’esistenza dell’altrui diritto di proprietà non avrebbe in ogni caso impedito il maturare dell’usucapione come confermato dalla costante interpretazione offerta della previsione di cui all’art. 1141 c.c. in tema di animus possidendi.

Inoltre la decisione impugnata ha violato le norme ed i principi in materia di comodato, la cui conclusione non presuppone necessariamente in capo al comodante la titolarità di un dritto reale quale quello di proprietà.

Infine, sarebbe stato violato l’art. 1141 c.c. anche nella parte in cui si esclude il possesso in capo alla società, sebbene il godimento del piazzale da parte, prima della ditta individuale I., e poi da parte della società, risalga ad un’epoca anteriore al rilascio delle due dichiarazioni esaminate dalla Corte distrettuale, mancando quindi la prova che il godimento in questione sia avvenuto a titolo di detenzione.

3. Con il primo motivo di ricorso incidentale condizionato, i resistenti denunziano l’omessa pronuncia da parte della Corte distrettuale circa l’eccezione di inammissibilità dell’appello incidentale, in quanto tardivamente proposto.

Si assume che con l’atto di appello era stata fissata per la comparizione delle parti la data del 29 settembre 2010, laddove la comparsa di risposta contenente l’appello incidentale, era stata depositata in data 6 settembre 2010, e cioè tardivamente, tenuto conto di quello che all’epoca era il periodo di sospensione feriale.

Peraltro non poteva tenersi conto del differimento dell’udienza disposta con decreto del Presidente della Sezione della Corte d’Appello di Torino per la successiva udienza del 2 novembre 2010, trattandosi a ben vedere di differimento operato per ragioni organizzative non dal consigliere delegato, rientrando quindi nella previsione di cui art. 168 bis c.p.c., comma 4.

Poichè solo il differimento disposto ai sensi del comma 5 legittima il differimento anche del termine di costituzione dell’appellato, nella fattispecie doveva quindi ritenersi che l’appello incidentale fosse intempestivo.

Tuttavia su tale eccezione la Corte torinese ha omesso di fornire alcuna risposta.

Il secondo motivo di ricorso incidentale condizionato denunzia l’omessa pronunzia sull’eccezione avanzata dagli appellanti principali circa la non contestazione dell’esistenza del contratto di comodato a suo tempo concluso tra i G. ed I.C., considerato che la difesa della società si era limitata a porre in discussione unicamente il fatto che, a seguito) del conferimento dell’azienda individuale nella società, fosse stato trasferito anche il contratto di comodato avente ad oggetto i beni di causa.

4. Il primo motivo di ricorso principale è infondato e deve essere disatteso.

Deve, infatti, escludersi che l’affermazione circa la comproprietà di parte del piazzale tra gli attori e gli I., quali successori del originario titolare, I.C., sia in insanabile contraddizione con l’avere escluso che fosse possibile per la società usucapire la piena proprietà del bene, relativamente a tale porzione, trattandosi di godimento frutto di legittima -estrinsecazione delle facoltà com(proprietarie).

Dalla successione cronologica degli eventi, quale si ricava pacificamente dalle posizioni delle parti, e quale confermata anche dalla lettura della sentenza impugnata, risulta che l’utilizzo dell’area de qua risale al 1977, ed ad opera del solo I.C., all’epoca titolare di una impresa individuale di autotrasporti. Emerge poi che la società, alla quale l’ I. conferì l’azienda, con esclusione dei soli immobili (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata, nella parte in cui si riporta il contenuto della sentenza di primo grado), è subentrata nel godimento dell’area solo nel 1985, ed a seguito proprio dell’atto di conferimento d’azienda del (OMISSIS) giusta atto per notaio F..

Deve pertanto ritenersi che effettivamente, per quanto attiene alle porzioni del piazzale in comunione tra le parti in causa, l’utilizzo da parte dell’ I. avvenne, non già in ragione di un rapporto di comodato, come invece ritenuto) per le porzioni di proprietà esclusiva dei G., ma nel legittimo esercizio della facoltà di godimento spettante al comunista ex art. 1102 c.c..

Il subentro nel godimento da parte della società se ha determinato che il godimento del bene da parte del comproprietario I. non fosse più diretto ed immediato, ma indiretto, non ha però inciso, in assenza dell’allegazione del compimento di un atto di interversione da parte della società nei confronti del conferente, che trattasi comunque di un godimento che trae fondamento dal diritto del comproprietario ad usare la cosa comune.

Il riferimento contenuto in sentenza nel punto 4.4., che appunto concerne la pretesa usucapione delle aree comuni, alla fruizione di parte appellata, deve essere chiarito nel senso che anche il godimento del bene da parte della società, per il periodo successivo al conferimento dell’azienda, alla quale ineriva la facoltà di utilizzo del piazzale, trova in maniera mediata la sua giustificazione nel diritto di godimento spettante al proprietario, ben potendosi ritenere che nei rapporti interni tra socio conferente e società, l’utilizzo possa essere stato a sua volta regolato in base ad un distinto rapporto di comodato.

5. Del pari infondato deve ritenersi il secondo motivo del ricorso principale.

Si sostiene, infatti, che con la comparsa di risposta in appello, la società aveva evidenziato la carenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda di restituzione dei beni concessi in comodato, e precisamente del bene di cui al mappale n. (OMISSIS), in quanto non risultava tra i beni per i quali era stata avanzata stragiudizialmente, con missiva dell’1 giugno 2008, la richiesta di rilascio.

Tale deduzione era stata poi reiterata nei successivi scritti difensivi ma la decisione gravata nulla ha detto sul punto violando pertanto la previsione di cui all’art. 112 c.p.c., o comunque omettendo la motivazione.

In primo luogo deve escludersi la sussistenza della dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c.

Infatti, per costante giurisprudenza (Sez. 2, 4 ottobre 2011, n. 20311; Sez. 1, 20 settembre 2013, n. 21612), ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia l’accoglimento del motivo di appello principale, finalizzato ad ottenere la condanna all’immediata restituzione dei beni implica in maniera quanto meno implicita il rigetto dell’eccezione in esame, attesa, nella prospettazione di parte ricorrente, la sua portata ostativa, ed in radice, all’accoglimento della detta richiesta di condanna.

Ancora deve rilevarsi che gli attori hanno proposto in questa sede un’azione di revindica, assumendo quindi che il diritto al rilascio del bene fosse fondato non già sul venir meno del diritto di godimento scaturente dal contratto di comodato, quanto in ragione della sussistenza del loro diritto di proprietà. Il contratto di comodato, la cui esistenza sarebbe confermata dalle suddette dichiarazioni, nella fattispecie rileva ai fini essenzialmente del rigetto della riconvenzionale di usucapione, ed al precipuo fine di dimostrare che il godimento del bene è avvenuto da parte dell’ I., prima, e della società, poi, nella qualità di detentori del fondo, e non anche di possessori.

Ne scaturisce da tanto che, anche a voler ritenere fondata la necessità di una previa richiesta stragiudiziale, la stessa si porrebbe come necessario presupposto nei soli casi in cui la domanda di rilascio sia fondata sulla cessazione del rapporto di comodato, e non anche, come nel caso in esame, in cui la pretesa si fondi sul diritto dominicale degli istanti.

Quanto, infine, alla questione dell’assenza di motivazione a giustificazione del rigetto dell’eccezione sollevata, ed anche a voler superare il rilievo che precede in ordine al tipo di domanda proposta, vale richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5729/2012) secondo cui alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 cost., comma 2, nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia su di un’eccezione (nella specie di inammissibilità dell’appello), la Corte di cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata ed esaminare il merito del ricorso, allorquando la suddetta eccezione sia infondata, essendo in tal caso inutile il ritorno della causa in fase di merito.

In tal senso deve ritenersi consentito alla Corte di cassazione decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, una questione di diritto che non richieda nuovi accertamenti di fatto, anche quando essa – ritualmente prospettata sia in primo che in secondo grado – sia stata totalmente ignorata dai giudici di merito. In tale eventualità, infatti, non solo non vi è stata alcuna limitazione al contraddittorio ed al diritto di difesa, ma la perdita per le parti di un grado di merito è compensata dalla realizzazione del principio costituzionale di speditezza, di cui all’art. 111 cost. (Cass. n. 8622/2012).

Per l’effetto la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un “error in procedendo”, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass. n. 28663/2013).

Reputa il Collegio che ricorrano le condizioni per enunciare, a fronte del silenzio serbato sul punto dalla Corte distrettuale, le ragioni che giustificano in ogni caso il rigetto dell’eccezione sollevata dalla società, trattandosi all’evidenza di una questione di mero diritto, e che non implica accertamenti in fatto.

In tal senso, ad avviso della Corte si ritiene debba darsi continuità a quanto affermato da Cass. n. 5899/1987, a mente della quale nel contratto di comodato senza determinazione di durata, nulla vieta che la messa in mora del comodatario per la restituzione del bene avvenga mediante notifica dell’atto di citazione in giudizio, salve le conseguenze, sul regolamento delle spese del giudizio, di una immediata consegna o rilascio del bene da parte del convenuto il quale aderisca immediatamente alla domanda.

invero non sussistono ragioni per discostarsi da tale orientamento in quanto la diversa soluzione sollecitata dalla difesa della ricorrente verrebbe a configurare una ipotesi di giurisdizione condizionata, al di fuori dei casi previsti dal legislatore, ed in evidente violazione del diritto di azione riconosciuto a livello costituzionale dall’art. 24, con evidenti riflessi anche in relazione alla previsione di uguaglianza di cui all’art. 3, non risultando comprensibili, in assenza della deduzione dell’esigenza di perseguire interessi generali, le ragioni per differenziare le modalità di accesso alla giurisdizione per la fattispecie in esame rispetto alle altre richieste di tutela giurisdizionale.

La generica esigenza di deflazionare il contenzioso che giustificherebbe a detta della ricorrente la necessità di una previa richiesta stragiudiziale di restituzione, appare comune alla quasi totalità delle domande di tutela giudiziaria, ed è stata poi tenuta presente dal legislatore allorquando, ma in maniera espressa, ha imposto per determinate tipologie di controversie, l’istituzione della mediazione obbligatoria.

D’altronde l’inconveniente legato al fatto che venga proposta una domanda di rilascio laddove il comodatario non intenda resistere alla richiesta del comodante, rinviene un adeguato correttivo, come suggerito dal precedente citato di questa Corte, nel regolamento delle spese di lite.

6. Quanto infine al terzo motivo, appare sicuramente infondata la doglianza relativa ala pretesa erronea interpretazione da parte del giudice del merito delle due dichiarazioni negoziali a firma di I.C..

Ed, infatti, l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c., e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicchè, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).

Nella fattispecie, la ricorrente deduce solo in maniera generica la violazione delle regole di ermeneutica contrattuale ma peraltro cade nello stesso errore del giudice di primo grado, e nel quale non ha inteso incorrere il giudice di appello, e cioè di ritenere che le due scritture in oggetto valessero altresì a concludere un contratto di comodato, atteso che la Corte distrettuale ha avuto cura di chiarire, con adeguata motivazione, che in realtà il contratto di comodato delle aree di proprietà dei G. era preesistente alle dichiarazioni che si limitavano semplicemente a ribadire la proprietà in capo agli attori ed a precisare quali fossero le obbligazioni gravanti sull’ I., confermando quindi quelle che erano le conseguenze scaturenti dalla disciplina del già concluso contratto di comodato.

Nè vale addurre che anche la conoscenza della proprietà aliena non impedisca in favore del possessore il maturare dell’acquisto per usucapione, trattandosi di affermazione che non tiene conto del fatto che, proprio in ragione dell’intervenuta conclusione di un contratto di comodato, il godimento delle aree oggetto di causa ad opera dell’ I. (e successivamente della società) non avveniva nella veste di possessore, ma nella qualità di detentore, escludendo in radice la ricorrenza dei presupposti per l’acquisto per usucapione.

6.1 Del pari non è idonea a configurare una violazione di legge la deduzione di parte ricorrente secondo cui la Corte torinese avrebbe errato nell’affermare che il diritto di proprietà in capo al comodante fosse un elemento tipico della fattispecie contrattuale del comodato.

Ed, infatti sebbene costituisca principio pacifico quello per il quale ciò che rileva ai fini della valida conclusione di un contratto di comodato è la situazione di disponibilità del bene da parte del comodante (cfr. da ultimo Cass. n. 6543/2016), è però evidente che la stessa debba riconoscersi anche in capo al proprietario del bene che come tale è quindi pienamente legittimato a rivestire la qualità di comodante.

6.2 Le superiori considerazioni danno altresì contezza dell’infondatezza della denunzia di violazione dell’art. 1141 c.c., laddove la norma pone una presunzione di possesso in colui che esercita il potere di fatto, essendo invece necessario dimostrare che sia stato inizialmente esercitato a titolo di detenzione.

Ed, infatti, oltre ad incorrere nel medesimo errore che si imputa alla sentenza con il primo motivo di ricorso, confondendo cioè il godimento iniziale del bene, avvenuto da parte di I.C., con quello invece operato dalla società (ed iniziato dopo il 1985), nell’evidenziare che il possesso sarebbe iniziato nel 1977 e cioè alcuni anni prima delle dichiarazioni ricognitive del 1980 e del 1981, la critica non si confronta con quanto affermato in sentenza, e cioè che in realtà il rapporto di comodato non scaturiva dalle dichiarazioni de quibus, (che avevano l’effetto di ribadire le obbligazioni già insorte in precedenza) ma da un contratto di comodato, concluso per fatti concludenti e coevamente all’inizio della fruizione del piazzale da parte.

Deve pertanto ritenersi che la sentenza impugnata non abbia violato la norma invocata da parte ricorrente, avendo viceversa ritenuto che fosse stata offerta la prova dell’iniziale detenzione da parte dell’ I., prima, e della società, dopo, senza che sia stato posto mai in essere un atto di interversione del possesso.

7. Il rigetto del ricorso implica poi l’assorbimento del ricorso incidentale che risulta espressamente proposto in maniera condizionata.

8. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo che segue.

PQM

La Corte dichiara inammissibile l’intervento di I.M., rigetta il ricorso principale ed assorbito il ricorso incidentale condizionato, condanna la ricorrente principale e l’interventore al rimborso delle spese in favore dei controricorrenti che liquida in Euro 3.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 9 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2016

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