Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27044 del 03/12/2013


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 27044 Anno 2013
Presidente: TRIOLA ROBERTO MICHELE
Relatore: MATERA LINA

SENTENZA

sul ricorso 29691-2007 proposto da:
D’EGIDIO CARLA, D’EGIDIO VINCENZO, D’EGIDIO ANITA,
tutti in proprio e nella qualita’ di eredi di D’EGIDIO
DOMENICO, nonche’ quali componenti della impresa
familiare coltivatrice ed occorendo, altresi’, anche
nella qualita’ di eredi della fu CENCI ANITA,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA R.R. PEREIRA
202, presso lo studio dell’avvocato BOFFA FRANCO, che
li rappresenta e difende;
– ricorrenti contro

Data pubblicazione: 03/12/2013

D’EGIDIO LUIGI

DGDLGU70R14C237Y,

RICCI GIUDITTA

RCCGTT39R50C237H, elettivamente domiciliati in ROMA,
VIA LUIGI RIZZO 41, presso lo studio dell’avvocato
OLIVIERI VITTORIO, che li rappresenta e difende;
– controrícorrentí –

D’EGIDIO UMBERTO;

intimat#

avverso la sentenza n. 2850/2007 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 26/06/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 22/10/2013 dal Consigliere Dott. LINA
MATERA;
udito l’Avvocato FRANCO BOFFA difensore dei ricorrenti
che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato VITTORIO OLIVIER’ difensore dei
resistenti che ha chiesto l’inammissibilita’ del
ricorso e si riporta agli atti depositati chiedendone
l’accoglimento;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. LUCIO CAPASSO che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

nonche contro

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 9-5-1985 D’Egidio Pino
conveniva dinanzi al Tribunale di Roma Cenci Annita, D’Egidio
Umberto, D’Egidio Carla, D’Egidio Anita e D’Egidio Vincenzo, per

caduti nella successione ereditaria di D’Egidio Vincenzo, deceduto
in data 8-7-1972, secondo le disposizioni contenute nel testamento
pubblicato il 26-9-1975. L’attore deduceva che con tale atto il de
cuius aveva nominato usufruttuaria di tutti i beni la moglie Cenci
Annita, lasciando a titolo di prelegato al figlio Pino la casa rustica in
Rignano Flaminio, località Valle Spadana, con adiacente terreno di
mq. 2000, e attribuendo la restante proprietà per un terzo ciascuno ai
figli Pino e Umberto, nonché ai nipoti Anita, Carlo e Vincenzo, figli
dell’altro figlio Domenico, escluso dall’eredità -per

1110iil’i

a lui ben

noti . Affermava che D’Egidio Domenico, il quale si trovava in
possesso dei beni ereditari, rifiutava di procedere alla divisione, di
rendere conto della gestione e di corrispondere l’usufrutto alla
madre.
Si costituivano D’Egidio Anita, Carlo e Vincenzo, deducendo
che il patrimonio del de cuius era stato salvato grazie ad interventi
ed esborsi del padre Domenico, il quale aveva compiuto anche a sue
spese miglioramenti ed addizioni sui terreni e sui fabbricati. Essi
facevano presente di avere contribuito con il padre alla cura,

sentir procedere allo scioglimento della comunione degli immobili

manutenzione e miglioramento degli immobili e chiedevano,
pertanto, che, integrato il contraddittorio nei confronti di D’Egidio
Domenico, si stabilisse in quale misura i beni appartenessero o
fossero stati acquisiti per usucapione o per altro titolo a quest’ultimo

o ai convenuti, e si procedesse alla divisione ereditaria delle restanti
porzioni o quote di beni
Disposta con ordinanza collegiale del 13-4-1990 l’integrazione
del contraddittorio nei confronti di D’Egidio Domenico, quest’ultimo
si costituiva deducendo che aveva collaborato nell’azienda paterna,
di cui deteneva il possesso continuo e indisturbato dal 1963; che gli
immobili oggetto di controversia erano stati assoggettati a procedure
esecutive e da lui riscattati, nel disinteresse dei fratelli; che
D’Egidio Vincenzo non gli aveva restituito le somme impiegate per
il salvataggio del patrimonio; che egli aveva esercitato il possesso
sui beni siti alla località Spadana, acquisendoli per usucapione; che
sul complesso dei beni era stata costituita un’impresa agricola
familiare. D’Egidio Domenico chiedeva, conseguentemente, che

venisse accertata la sua proprietà relativamente ai predetti beni, per
averli riscattati dalle procedure esecutive, o comunque per averli
acquisiti per usucapione; che venisse dichiarato che i beni stessi
facevano parte di impresa agricola familiare e che, in via
subordinata, si accertasse l’acquisto per usucapione da parte di tale

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impresa, individuandosi la residua parte dei beni su cui poteva
ritenersi realizzata la comunione ereditaria.
Con sentenza non definitiva del 14-7-1999 il Tribunale
rigettava la domanda di accertamento dell’acquisto per usucapione

Domenico e dai figli, in proprio e quali appartenenti ad impresa
familiare, rigettava la domanda di accertamento dell’acquisto dei
medesimi beni per riscatto nel corso delle procedure esecutive,
proposta dalle stesse parti; accertava la comunione ereditaria tra
D’Egidio Pino, Umberto e Domenico, in ragione di 1\3 ciascuno,
sulla nuda proprietà degli immobili indicati nella stessa sentenza.
Avverso la predetta decisione proponevano appello D’Egidio
Domenico e i figli Anita, Carlo e Vincenzo.
Il processo, interrotto per la morte dell’attore, veniva riassunto
dagli appellanti, anche nella qualità di eredi di Cenci Annita, nei
confronti degli eredi di D’Egidio Pino.
Si costituivano, in tale qualità, D’Egidio Luigi e Ricci
Giuditta, concludendo per il rigetto dell’appello.
Con sentenza in data 26-6-2007 la Corte di Appello di Roma,
in parziale riforma della sentenza impugnata, nel dare atto che Cenci
Annita era deceduta il 31-12-1991, dichiarava estinto l’usufrutto alla ,
stessa spettante sui beni costituenti l’eredità di D’Egidio Vincenzo,

dei beni siti in località Valle Spadana, proposta da D’Egidio

rigettava per il resto il gravame e condannava gli appellanti al
pagamento delle spese del grado.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso
D’Egidio Carla, Anita e Vincenzo, in proprio e quali eredi di

dell’impresa familiare coltivatrice, sulla base di sei motivi
D’Egidio Luigi e Ricci Giuditta, quali eredi di D’Egidio Pino,
hanno resistito con controricorso.
I ricorrenti hanno depositato una memoria ex art. 378 c.p.c. e,
all’esito della discussione orale svoltasi in udienza, osservazioni
scritte sulle conclusioni del Procuratore Generale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano vizi di
motivazione in ordine alla ritenuta mancanza di prova del possesso
dei beni per cui è causa in capo a D’Egidio Domenico. Deducono, in
particolare, che la Corte di Appello ha desunto in modo illogico
dalla intestazione fatta dal Paradisi a D’Egidio Vincenzo la prova
della capacità d’intendere e di volere di quest’ultimo e dell’esercizio
del possesso ad opera dal medesimo, ha erroneamente ritenuto che lo
scritto del 1965 confermasse il permanere del possesso in capo al de
euilts,

ed ha immotivatamente negato l’ammissione della prova

articolata dai convenuti in ordine al pieno possesso esercitato da
D’Egidio Domenico.

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D’Egidio Domenico e di Cenci Annita, nonché quali componenti

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano vizi di
motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’acquisto, da
parte di D’Egidio Domenico, della proprietà dei beni per usucapione.
Sostengono che la Corte di Appello non ha considerato che nel

periodo compreso tra l’aprile 1963, epoca in cui D’Egidio Domenico
ha iniziato a possedere i beni paterni, e il 2-10-1978, data in cui
D’Egidio Pino ha notificato il primo atto di citazione, era decorso il
termine di usucapione breve ex art. 1159 bis c.c.; e che, avendo
D’Egidio Pino rinunciato alla prima citazione, al momento della
notifica della seconda citazione, avvenuta 1’8-5-1985, era decorso
anche il termine di usucapione ventennale. In ogni caso, secondo i
ricorrenti, il giudice del gravame avrebbe dovuto dare atto del
compimento del termine di prescrizione quanto meno sulla quota di
un terzo spettante a D’Egidio Umberto, il quale si era allontanato da
tempo dall’Italia, rinunciando ad ogni forma di partecipazione alla
divisione ereditaria e non contrastando il possesso di Domenico.
Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione
dell’art. 48 della 1. 3-5-1982 n. 203 e degli artt. 535 e 1140 c.c.
Sostengono che la sentenza impugnata è incorsa nella violazione
dell’art. 48 della 1. 3-5-1982 n. 203, nel ritenere che, a differenza
dell’impresa collettiva, esercitata a mezzo di società semplice,
l’impresa familiare appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari
partecipanti hanno diritto solo ad una quota degli utili. La norma

r

citata, infatti, configura l’impresa familiare coltivatrice come ente
collettivo, munito di soggettività e quindi capace di titolarità.
Deducono, inoltre, che il giudice di appello ha erroneamente
affermato che l’impresa familiare può essere destinataria solo di

Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano vizi di
motivazione: in ordine alla ritenuta insussistenza negli appellanti dei
requisiti occorrenti per la formazione della impresa familiare
coltivatrice ed all’affermazione secondo cui l’efficacia interruttiva
dell’atto di citazione del 1978 ha operato anche nei confronti
dell’impresa familiare. Deducono che la Corte di Appello non ha
tenuto conto del fatto, non contestato dalle controparti, che i beni
per cui è causa sono stati coltivati e portati a crescente produttività
da D’Egidio Domenico e dalla sua famiglia, costituitasi in impresa
familiare agricola. Il giudice del gravame, inoltre, non ha
considerato che il primo atto di citazione notificato a D’Egidio
Domenico e agli altri convenuti non conteneva alcun cenno alla
soggettività collettiva costituita dalla impresa familiare agricola e
non poteva, quindi, produrre effetti interruttivi nei confronti di
quest’ultima.
Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano il travisamento
del terzo motivo di appello e delle domande avanzate in primo grado
dai ricorrenti, nonché la violazione degli artt. 1140, 1150, 535 c.c. e

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rapporti di mera detenzione, inidonei all’acquisto per usucapione.

48 1. 203\1982, in relazione all’affermazione secondo cui l’attore
non aveva accettato il contraddittorio sulle richieste creditorie
formulate dagli appellanti all’udienza di conclusioni di primo grado
del 2-7-1996. Rilevano che tale affermazione risulta smentita per

udienza, nulla aveva contestato ed eccepito. Sostengono, pertanto,
che, essendo le predette domande già entrate a far parte della vicenda
processuale, nessun rilievo può assumere la successiva comparsa
conclusionale del 5-2-1999, con la quale l’altro procuratore
costituitosi per l’attore ha dichiarato di non accettare il
contraddittorio su di esse.
Con il sesto motivo, infine, i ricorrenti si dolgono della
violazione degli artt. 112, 113, 115 c.p.c. Deducono che la Corte di
Appello ha omesso di pronunciare su tutte le domande e sulle istanze
istruttorie formulate dai convenuti e dal chiamato in causa in sede di
conclusioni, ha travisato le risultanze delle prove assunte ed ha
erroneamente ritenuto irrilevante la richiesta di consulenza tecnica
d’ufficio, volta alla determinazione del valore degli apporti arrecati
ai beni ereditari da D’Egidio Domenico e dall’impresa familiare
coltivatrice.
2) 11 primo motivo non è meritevole di accoglimento.
La Corte di Appello ha dato adeguato conto delle ragioni per le
quali, condividendo il giudizio già espresso dal Tribunale, ha

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iabulas, in quanto il difensore di D’Egidio Pino, presente in tale

ritenuto che non fosse possibile ravvisare nella condotta di D’Egidio
Domenico i presupposti del possesso dei beni con esclusione del
padre
In particolare, il giudice del gravame ha rilevato che la

presupponeva che il possesso degli immobili per i quali gli interventi
erano stati compiuti continuava ad essere esercitato da D’Egidio
Vincenzo, il quale per tale ragione si riconosceva debitore del figlio.
Ha altresì evidenziato che la circostanza dedotta nei capitoli di prova
testimoniale dai convenuti, secondo cui il Paradisi, dopo aver
ricevuto la somma di lire 6.000.000 da D’Egidio Domenico, aveva,
d’intesa con D’Egidio Vincenzo, reintegrato quest’ultimo nei beni, si
poneva in contrasto con la ipotizzata incapacità d’intendere e di
volere di D’Egidio Vincenzo e con la mancanza nello stesso di un
animus possidendi,

ed andava valutata a discapito di D’Egidio

Domenico, il quale non aveva reagito alla iniziativa del Paradisi e
del padre
A fronte di tali argomentazioni, scevre da vizi logici e come
tali non censurabili in sede di legittimità, i ricorrenti, con il motivo
in esame, ripropongono sostanzialmente gli stessi assunti difensivi
già prospettati nei precedenti gradi di giudizio, secondo cui D’Egidio
Domenico aveva iniziato a possedere in proprio gli immobili per cui
causa nei mesi di febbraio-aprile del 1963, allorché, nel

ricognizione di debito del 15-5-1965, invocata dagli appellanti,

progressivo dissestarsi del patrimonio paterno e nel grave
deterioramento delle condizioni bio-fisiche del padre, era riuscito a
recuperare i beni dal Paradisi, il quale li aveva però intestati a
D’Egidio Vincenzo.
pertanto,

attraverso la formale

prospettazione di vizi di motivazione, tradiscono il reale intento di
ottenere una nuova e più favorevole valutazione delle emergenze
processuali rispetto a quella compiuta dalla Corte territoriale.
Come è noto, peraltro, i vizi di motivazione denunciabili in
cassazione non possono consistere nella difformità
dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito
rispetto a quello preteso dalla parte, perché spetta solo a quel
giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine
valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza,
scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a
dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro
mezzo di prova ((tra le tante v. Cass. 14-10-2010 n. 21224; Cass. 53-2007 n. 5066; Cass. 21-4-2006 n. 9368; Cass. 20-4-2006 n. 9234;
Cass. 16-2-2006 n. 3436; Cass. 20-10- 2005 n. 20322).
Nella parte in cui si duole della mancata ammissione della
prova testimoniale e dell’interrogatorio formale dell’attore, inoltre,
il motivo difetta di specificità, non riportando i capitoli di prova
articolati e non ponendo, quindi, questa Corte nelle condizioni di

Le doglianze mosse,

esprimere una valutazione circa l’eventuale carattere di decisività
dei mezzi istruttori non ammessi dal giudice di merito.
3) Il secondo motivo è infondato.
Come si è rilevato, la Corte di Appello ha accertato, con

del 15-5-1965 i beni in questione si trovavano ancora nel possesso
esclusivo di D’Egidio Vincenzo. In considerazione dell’effetto
interruttivo della notifica del precedente atto di citazione del 2-101978, pertanto, il giudice del gravame ha correttamente escluso che
in favore di D’Egidio Domenico potesse essere maturato il tempo
necessario ai fini dell’invocata usucapione. E’ evidente, infatti, che,
essendo il dedotto possesso di Domenico sicuramente iniziato in
epoca successiva al 15-5-1965, alla indicata data del 2-10-1978 non
era decorso il termine breve di quindici anni previsto dall’art. 1159
bis c.c., e al momento della instaurazione del presente giudizio non
si era compiuto il termine ventennale ordinario previsto dall’art.
1158 c.c.
Del tutto generiche, d’altro canto, appaiono le deduzioni svolte
dai ricorrenti per sostenere che il primo atto di citazione era stato
vanificato e posto nel nulla da quello successivo: il ricorso non
riporta alcun passo della citazione del 1985, idoneo a manifestare la
volontà dell’attore D’Egidio Pino di rinunciare alla precedente
domanda giudiziale.

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apprezzamento di fatto non sindacable in questa sede, che alla data

Giova rammentare, comunque, che, secondo l’orientamento di
questa Corte, la rinuncia in corso di causa ad una delle domande è
equiparabile, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2945 c.c ; (applicabile
anche in materia di usucapione, ai sensi dell’art. 1165 c.c.),

ex art. 306 c.p.c. e, pertanto, comporta il venire meno dell’effetto
interruttivo permanente della prescrizione, lasciando salva solo
l’interruzione istantanea prodotta dalla domanda rinunciata (cfr.
Cass. 7-8-2003 n. 11919; Cass. 12-3-1998 n. 2712).
Nella specie, pertanto, l’eventuale rinuncia di D’Egidio Pino
alla precedente domanda del 1978 non farebbe venir meno
l’interruzione istantanea del termine di usucapione prodotta da tale
domanda, di per sé ostativa al successivo maturare dell’usucapione
ventennale.
Sotto altro profilo, si rileva che la Corte di Appello ha
motivatamente disatteso la tesi subordinata dell’acquisto per
usucapione della quota ereditaria di spettanza di D’Egidio Umberto,
rilevando che, “avuto riguardo alla natura dell’azione giudiziaria
intrapresa da D’Egidio Pino e al principio della concorrenza (in
assenza di prova contraria) di pari poteri gestori in tutti i
compartecipi alla comunione ereditaria deve ritenersi che l’efficacia
interruitiva dell’atto sia riferibile a tutti i partecipi della
comunione, ivi compreso D’Egidio Umberto – . Tale affermazione non

li

all’ipotesi estintiva determinata dalla rinuncia agli atti del giudizio

ha costituito oggetto di specifica censura da parte dei ricorrenti, i
quali, con le deduzioni svolte, hanno riproposto in termini apodittici
la tesi dell’abbandono di ogni pretesa ereditaria da parte di D’Egidio
Umberto, già prospettata con il primo motivo di appello, nel palese

del merito della vicenda, non consentito in sede di legittimità.
4) Il terzo e il quarto motivo di ricorso possono essere
esaminati congiuntamente, per ragioni di connessione.
La Corte di Appello ha rigettato il secondo motivo di gravame,
diretto al riconoscimento della formazione della proprietà
dell’impresa familiare e dell’acquisizione per usucapione della
proprietà dei beni in capo a quest’ultima, rilevando in primo luogo
che gli appellanti non avevano dedotto alcun mezzo di prova in
ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge ai fini della
costituzione di un’impresa familiare, e cioè lo svolgimento da parte
del titolare di un’attività di lavoro di carattere continuativo e
l’accrescimento della produttività dell’impresa procurato dal lavoro
del partecipante. Ha fatto presente, comunque, che l’impresa
familiare di cui all’art. 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare,
mentre i familiari partecipanti hanno diritto solo a una quota degli
utili; ed ha conseguentemente affermato che, poiché secondo
l’assunto degli stessi appellanti il titolare dell’impresa coltivatrice
era D’Egidio Domenico, apparivano condivisibili i rilievi svolti dal

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ma inammissibile tentativo di ottenere da questa Corte un riesame

giudice di primo grado, fondati sia sul fatto che l’impresa può essere
esercitata sulla base di meri rapporti di detenzione, inidonei
all’acquisto per usucapione, sia sul fatto che le medesime ragioni
ostative al riconoscimento dell’acquisto per usucapione in favore di

di detta impresa.
Ciò posto, si osserva che i ricorrenti non hanno censurato
specificamente l’affermazione concernente la mancata deduzione di
mezzi di prova in ordine agli elementi costitutivi di un’impresa
agricola familiare. Essi si sono limitati ad affermare, con il quarto
motivo, che l’esistenza di un’impresa agricola familiare non era stata
contestata dalle controparti, ma tale asserzione risulta del tutto
generica ed apodittica, non essendo accompagnata dal richiamo ad
alcun atto giudiziale avversario idoneo ad avallarla.
Le doglianze mosse al riguardo, pertanto, devono essere
disattese.
Di conseguenza, dovendosi escludere in radice, alla luce degli
accertamenti contenuti nella sentenza impugnata, che tra D’Egidio
Domenico e i suoi familiari sia stata costituita un’impresa familiare
agricola, rimangono assorbite le ulteriori censure mosse con i motivi
in esame, basate sul presupposto dell’esistenza di tale impresa.
5) Il quinto motivo è privo di fondamento.

13

D’Egidio Domenico impedivano l’acquisto per usucapione da parte

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, con
riguardo a procedimento pendente alla data del 30 aprile 1995 -per il
quale trovano applicazione le disposizioni degli artt. 183, 184 e 345
c.p.c., nel testo vigente anteriormente alla “novella” di cui alla legge

del 1995)-, il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del
giudizio di primo grado risulta posto a tutela della parte destinataria
della domanda. Pertanto, la violazione di tale divieto -che è
rilevabile dal giudice anche d’ufficio, non essendo riservata alle parti
l’eccezione di novità della domanda- non è sanzionabile in presenza
di un atteggiamento non oppositorio della parte medesima,
consistente nell’accettazione esplicita del contraddittorio o in un
comportamento concludente che ne implichi l’accettazione. A
quest’ultimo fine, l’apprezzamento della concludenza del
comportamento della parte va effettuato dal giudice attraverso una
seria indagine della significatività dello stesso, senza che assuma
rilievo decisivo il semplice protrarsi del difetto di reazione alla
domanda nuova, ne’ potendosi attribuire, qualora questa sia
formulata all’udienza di precisazione delle conclusioni, valore
concludente al mero silenzio della parte contro la quale la domanda è
proposta, sia essa presente, o meno, a detta udienza (v. per tutte
Cass. S.U. 22-5-1996 n. 4712).

14

n. 353 del 1990 (art. 9 D.L. n. 432 del 1995, conv. nella legge n. 534

Nella specie, pertanto, la Corte di Appello ha correttamente
ritenuto inammissibile la domanda intesa al riconoscimento di un
diritto di credito per i miglioramenti e le addizioni, proposta dai
convenuti e dall’interventore all’udienza di conclusioni del 2-7-

manifestato nella comparsa di costituzione con nuovo difensore per
D’Egidio Pino Alla luce degli enunciati principi di diritto, infatti,
non può assumere di per sé alcuna rilevanza, in contrario, il mero
silenzio serbato all’udienza di conclusioni dal precedente difensore
dell’attore.
6) 11 sesto motivo, nella parte in cui lamenta la mancata
ammissione delle istanze istruttorie formulate in sede di conclusioni
e l’erronea valutazione della prova testimoniale raccolta, difetta del
requisito di specificità, non riportando il contenuto dei capitoli di
prova non ammessi e delle dichiarazioni dei testi erroneamente
interpretate dal giudice di merito, sì da porre questa Corte nelle
condizioni di verificare l’esistenza dei vizi denunciati e la loro
incidenza ai fini della decisione
Le censure inerenti all’omessa pronuncia sulle pretese
creditizie avanzate in sede di conclusioni ed alla mancata
ammissione di consulenza tecnica d’ufficio volta a quantificare i
miglioramenti e le addizioni apportati agli immobili ereditari da
D’Egidio Domenico e\o dall’impresa familiare rimangono, invece,

15

1996, stante l’espresso rifiuto di accettazione del contraddittorio

assorbite dalle considerazioni in precedenza svolte riguardo alla
mancata proposizione di una tempestiva domanda riconvenzionale
diretta al riconoscimento di ragioni di credito degli appellanti nei
confronti dell’eredità.

conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese
sostenute dai resistenti D’Egidio Luigi e Ricci Giuditta nel presente
grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento
delle spese in favore dei resistenti, che liquida in euro 4,200,00, di
cui curo 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge
Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio del 22-10-2013
Il Consigliere estensore Il sidente

,t4,

orario Giudiziario
NERI

7) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con

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