Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27027 del 27/12/2016


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Cassazione civile, sez. III, 27/12/2016, (ud. 21/10/2016, dep.27/12/2016),  n. 27027

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI AMATO Sergio – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3981/2014 proposto da:

P.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PARIOLI 73,

presso lo studio dell’avvocato MARCELLA COCCANARI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato NINO FILIPPO MORIGGIA,

giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

T.M.A., G.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEI GRACCHI 130, presso lo studio

dell’avvocato TERESINA TITINA MACRI’, rappresentati e difesi

dall’avvocato RAFFAELE CAGGIANO, giusta procura speciale a margine

del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 314/2012 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 21/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/10/2016 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;

udito l’Avvocato GIANCARLO MATTEI per delega;

udito l’Avvocato RAFFAELE CAGGIANO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Nel 1988 P.R. convenne T.M.A. e G.A. dinanzi al Tribunale di Melfi, esponendo che:

(-) svolgeva l’attività di farmacista nel Comune di (OMISSIS);

(-) nel (OMISSIS) T.M.A. (all’epoca dei fatti ufficiale sanitario comunale) e G.A. (all’epoca dei fatti farmacista nel Comune di (OMISSIS)) vennero sottoposti a procedimento penale per i reati di concussione, truffa e falso, con l’accusa di avere svolto abusivamente l’attività di distribuzione di farmaci, e intascato dagli assistiti somme di spettanza degli enti previdenziali;

(-) nel 1983 il Tribunale di Melfi assolse gli imputati dall’imputazione di concussione, e dichiarò estinti per amnistia gli altri reati;

(-) le condotte dei convenuti avevano provocato un decremento di fatturato della sua attività di farmacista, e diffamato la sua reputazione commerciale, lasciando credere ai pazienti che “la farmacia di P.R. fosse sfornita di farmaci”.

Concluse pertanto chiedendo la condanna dei convenuti al risarcimento dei suddetti danni.

2. Con sentenza 17.12.2004 n. 568 il Tribunale di Melfi rigettò la domanda, ritenendola non provata.

La sentenza venne appellata da P.R..

La Corte d’appello di Potenza, con sentenza 21.12.2012 n. 314, rigettò il gravame.

Per quanto in questa sede ancora rileva, la sentenza d’appello ritenne che:

(a) la domanda di risarcimento del danno in tesi causato dal reato di truffa perpetrato ai danni dell’attore era:

(a1) inammissibile per difetto di specificità del gravame (p. 5, penultimo capoverso, della sentenza impugnata);

(a2) comunque infondata per difetto di prova del danno (p. 5, terzultimo capoverso);

(b) la domanda di risarcimento del danno patrimoniale in tesi causato dall’esercizio abusivo della professione da parte dei convenuti era infondata per difetto totale di prova di un ammanco nei guadagni dell’attore (p. 6, p. 2);

(c) la domanda di risarcimento del danno in tesi causato dalla diffamazione commessa dai convenuti in danno dell’attore era stata dichiarata prescritta dal Tribunale, e sulla statuizione si era formato il giudicato (p. 7, quarto capoverso);

(d) le istanze istruttorie formulate dall’attore (aventi ad oggetto l’acquisizione d’ufficio di informazioni da parte della pubblica amministrazione, e l’ammissione di una consulenza tecnica) erano inammissibili perchè esplorative, e comunque miranti ad acquisire prove che l’attore avrebbe potuto fornire, e non aveva fornito.

3. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da P.R., con ricorso fondato su cinque motivi.

Hanno resistito con un unico controricorso T.M. e G.A..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 2729 c.c..

Deduce, al riguardo, che la Corre d’appello avrebbe violato l’art. 2729 c.c., per non avere tenuto conto dei fatti emergenti dal fascicolo penale, prodotto in atti, e dai quali emergeva la responsabilità civile dei convenuti, odierni controricorrenti.

1.2. Il motivo è inammissibile.

La sentenza impugnata si fonda infatti su una doppia ratio decidendi, ovvero:

(a) il motivo d’appello concernente l’esistenza del danno era “inammissibile” perchè “apodittico”, e dunque ex art. 342 c.p.c.;

(b) in ogni caso mancava la prova del danno.

Il ricorrente ha censurato solo la seconda di queste rationes decidendi, non la prima. Deve, quindi, trovare applicazione il consolidato principio secondo cui, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi (ex multis, Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016, Rv. 639158).

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 116 c.p.c..

Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene in realtà due diverse censure tra loro frammiste, così riassumibili:

(a) la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 116 c.p.c., perchè non ha valutato tutte le prove raccolte;

(b) la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 652 c.p.p., perchè si è ritenuta vincolato dalla sentenza penale di amnistia, sentenza che non poteva produrre alcun effetti di vincolo nei confronti del giudice civile.

2.2. La censura sub (a) è inammissibile per difetto di specificità, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6.

Il ricorrente, infatti, si è limitato a lamentare che la Corte d’appello non avrebbe valutato “gli atti penali”, ma non ha indicato:

-) nè quali documenti, tra questi atti penali, dimostravano l’esistenza del danno;

-) nè quale fosse il contenuto degli atti che si assumevano non esaminati.

2.3. La censura (b) è del pari inammissibile, per totale estraneità alla ratio decidendi. La Corte d’appello, infatti, non ha affatto ritenuto di essere vincolata dalla sentenza penale di assoluzione (per amnistia); ma ha autonomamente valutato le prove offertele e le ha ritenute insufficienti.

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 1226 c.c..

Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 1226 c.c., perchè anche in assenza di prove avrebbe potuto liquidare il danno in via equitativa ex art. 1226 c.c..

3.2. Il motivo è manifestamente infondato.

La liquidazione equitativa del danno è consentita quando sia impossibile la esatta stima d’un pregiudizio certamente esistente, impossibilità non imputabile alla parte (Sez. 3, Sentenza n. 25912 del 19.11.2013). Nel nostro caso, pertanto, correttamente la Corte d’appello non ha fatto ricorso all’art. 1226 c.c., dal momento che non può dirsi “impossibile” dimostrare la riduzione del fatturato e degli utili d’una impresa commerciale, non foss’altro che per l’obbligo di questa di tenere le scritture contabili, dall’esibizione delle quali il lamentato ammanco sarebbe pur dovuto emergere.

4. Il quarto motivo di ricorso.

4.1. Col quarto motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 210 c.p.c..

Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello ha violato l’art. 210 c.p.c., perchè ha rigettato le “istanze istruttorie” dell’attore. Nell’ultimo rigo del motivo si lamenta, oltre che il rigetto delle istanze istruttoria, anche la mancata nomina di un consulente tecnico d’ufficio.

4.2. Il motivo è manifestamente inammissibile.

Il ricorrente infatti non indica, in violazione del principio di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, quali fossero le istanze istruttorie del cui rigetto si lamenta; quando formulate, in che termini, dove reiterate in grado di appello.

Incensurabile, poi, è la scelta del giudice di merito di non avvalersi d’un consulente tecnico, giacchè la consulenza tecnica d’ufficio non può essere invocata per superare l’onere probatorio gravante sulle parti, nè può avere un contenuto meramente esplorativo.

5. Il quinto motivo di ricorso.

5.1. Col quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la motivazione della sentenza impugnata sia “mancante, insufficiente e contraddittoria”.

Il ricorrente, prima dell’illustrazione del motivo, chiede che sia sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134, per contrarietà all’art. 111 Cost..

Deduce che l’illegittimità costituzionale della norma gli consentirebbe di censurare la sentenza impugnata, per avere la Corte d’appello adottato una motivazione insufficiente e contraddittoria sia nel rigettare le istanze istruttorie, sia nel “giustificare la decisione di primo grado”.

5.2. Il motivo è manifestamente inammissibile, in quanto il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non consente più di censurare la “illogicità o contraddittoietao della motivazione, se non nei casi estremi in cui una motivazione manchi del tutto, o sia totalmente inintelligibile.

Le Sezioni Unite di questa Corte, nel chiarire il senso della nuova norma, hanno infatti stabilito che per effetto della riforma “è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Nella motivazione della sentenza appena ricordata, inoltre, si precisa che “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti”.

5.3. La questione di legittimità costituzionale del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, come prospettata dal ricorrente, appare manifestamente inammissibile.

Essa, infatti, è priva di rilevanza nel presente giudizio, perchè la censura della motivazione della sentenza impugnata (così come esposta alle pp. 1617 del ricorso) è talmente generica che anche nella vigenza del vecchio art. 360, n. 5, sarebbe stata inammissibile.

Il sospetto di illegittimità costituzionale del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, è comunque manifestamente infondato: il ricorrente, infatti, confonde e sovrappone l’obbligo di motivazione, imposto dalla costituzione, con la censurabilità in sede di legittimità del difettoso adempimento di quell’obbligo da parte del giudice di merito, che copertura costituzionale non ha. Censurabilità che anzi trova un limite proprio nell’art. 111 Cost., là dove assicura il ricorso per cassazione solo per violazione di legge.

6. Le spese.

6.1. Le spese del presente grado di giudizio vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1 e sono liquidate nel dispositivo, avuto riguardo all’effettiva difficoltà – non elevata – delle questioni sollevate col ricorso.

Esse vanno distratte ex art. 93 c.p.c., comma 1, in favore dell’avv. Raffaele Caggiano, il quale – dichiarandosi distrattario – ha sostenuto di non avere riscosso gli onorari e di avere anticipato le spese.

6.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

la Corte di Cassazione:

(-) rigetta il ricorso;

(-) condanna P.R. alla rifusione in favore di T.M.A. e G.A., in solido, delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 5.200, di cui Euro 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2, spese tutte che si distraggono ex art. 93, comma 1, in favore dell’avv. Raffaele Caggiano;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di Roberto Palermo di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 21 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2016

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