Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27012 del 15/12/2011

Cassazione civile sez. VI, 15/12/2011, (ud. 18/11/2011, dep. 15/12/2011), n.27012

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Luigi – Presidente –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso proposto da:

F.B. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e difesa,

in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dagli Avv.ti

PICCIOLI Alessandro e Marco Tacchi Venturi ed elettivamente

domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, alla Via Fogliano,

n. 4/A;

– ricorrente –

contro

P.M. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e

difeso, in virtù di procura speciale a margine del controricorso,

dall’Avv. SEGNALINI Daniela ed elettivamente domiciliato presso il

suo studio, in Roma, via della Stazione di San Pietro, n. 45;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza n. 4660 del 2009 della Corte di

appello di Roma, depositata il 25 novembre 2009 (e non notificata).

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18 novembre 2011 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

sentito l’Avv. Marco Tacchi Venturi per la ricorrente;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che il consigliere designato ha depositato, in data 9 dicembre 2010, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.: “1) P.M. – proprietario di un fabbricato rurale con diritti su una corte comune ad altri – conveniva in giudizio F.B., proprietaria del confinante fabbricato – chiedendone la condanna alla restituzione di alcuni beni comuni (nel dettaglio specificati) che la convenuta aveva occupato accorpandoli alla sua proprietà esclusiva. La convenuta resisteva alla domanda che il tribunale di Velletri accoglieva con sentenza n. 51/2003 avverso la quale la soccombente proponeva appello. 2) Con sentenza 25/11/2009 la Corte di appello di Roma rigettava il gravame osservando: che i sette motivi di appello erano tutti infondati; che la causa era stata correttamente qualificata ed istruita come petitoria in relazione all’assunto del P. di rivendica di beni appropriati dalla F. che ne aveva assunto la proprietà esclusiva; che il Tribunale aveva esaminato tutti gli atti di acquisto a decorrere dall’atto 25/11/1886 di divisione (dell’utile dominio indicato negli atti successivi come proprietà pur non risultando le modalità dell’affrancazione) sino all’atto 16/7/1963 con il quale i beni in questione erano stati trasferiti a B. A. dante causa delle parti in causa; che, come concluso dal Tribunale, i beni indicati come comuni nel citato atto di divisione erano rimasti tali anche di fatto dopo i vari passaggi di proprietà;

che il titolo del P. trovava origine in quello stesso da cui derivava il titolo della F. e mai variato con gli atti di trasferimento dal B. alle parti in causa; che in nessun atto risultava trasferito alla F. il locale forno in questione; che per il resto i beni rivendicati come comuni – ivi compresi il grottino e il locale cantina sottostanti all’area scoperta del cortile – facevano parte della particella comune 165 come risultava dagli atti di provenienza; che l’eccezione di usucapione sollevata dalla F. era stata correttamente rigettata per mancanza di prova; che la sentenza invocata a sostegno di detta eccezione, pur risultando dal verbale di udienza 13/11/2001 prodotta, non poteva essere esaminata in quanto non esistente negli atti di causa. 3) La cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma è stata chiesta da F.B. con ricorso affidato ai seguenti cinque motivi: a) vizi di motivazione per aver la Corte di appello errato nell’identificazione dell’oggetto del giudizio in quanto essa ricorrente è proprietaria dell’intero fabbricato di cui alla particella 102 a titolo ereditario e non per acquisto da B.; b) violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 111 Cost., per aver la Corte di appello: travisato i fatti (ed il contenuto dagli atti posti a fondamento della decisione) sull’erroneo presupposto del comune dante causa delle parti e ravvisato una comproprietà non riscontrabile nè nell’atto di acquisto del P. (nel quale non si rinviene identità tra il bene descritto nel titolo e quelli rivendicati) nè in quello del B.: il P., quindi, non ha assolto all’onere probatorio sullo stesso incombente in base ai principi in tema di rivendica; c) violazione degli artt. 2697, 957, 958, 963, 970, 971 e 1140 c.c., nonchè vizi di motivazione, per aver la corte di appello confuso l’enfiteusi con la proprietà anche in assenza della prova dell’affrancazione con conseguenti riflessi sull’onere della prova non potendo a tal fine valere l’atto di divisione di utile dominio del 1886; d) violazione dell’art. 2697 c.c. e vizi di motivazione per aver la Corte di appello errato nell’affermare sia che per i beni controversi vi era stato tra le parti un comune dante causa, sia che i beni indicati come comuni nell’atto del 1886 erano rimasti tali fino alle vendite ad essa F. ed al P. (circostanza smentita dalla documentazione in atti); e) violazione del giusto processo, anche in relazione all’art. 111 Cost., per aver la Corte di appello omesso di rilevare di ufficio il giudicato esterno e di ordinare l’acquisizione della sentenza invocata a sostegno dell’eccezione di usucapione. 4) Il relatore ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per la manifesta inammissibilità o infondatezza delle riportate censure. I primi quattro motivi di ricorso si risolvono essenzialmente – quale più quale meno sia pur sotto aspetti e profili diversi – in una critica in ordine all’interpretazione data dalla Corte di appello al contenuto e dall’oggetto dei vari atti di provenienza prodotti dalle parti a sostegno della rispettive e contrapposte tesi. Al riguardo va osservato che come è pacifico nella giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione degli atti di autonomia privata si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito: tale accertamento è incensurabile in cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed immune da vizi logici o da errori di diritto e sia il risultato di un’interpretazione condotta nel rispetto delle norme di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 c.c., e segg.. L’identificazione della volontà contrattuale – che, avendo ad oggetto una realtà fenomenica ed obiettiva, concreta un accertamento di fatto istituzionalmente riservato al giudice di merito – è censurabile non già quando le ragioni poste a sostegno della decisione siano diverse da quelle della parte, bensì quando siano insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica. Peraltro la ricorrente nella censura in esame non ha neanche lamentato la violazione di specifici principi relativi all’interpretazione degli atti negoziali in questione, nè ha riportato per intero il testo di tali atti: ciò rende manifesto che è stato investito il “risultato” interpretativo raggiunto, il che è inammissibile in questa sede. Va inoltre evidenziato che, come sopra riportato, la Corte di appello – alla luce dell’esame dei titoli acquisiti – ha accertato che i beni in contestazione sono stati indicati come comuni nell’atto di divisione del 1886 e sono rimasti tali “anche di fatto” dopo i vari passaggi di proprietà fino alle due vendite alla F. ed al P. da parte della stessa dante causa B.. Le parti in causa hanno quindi acquistato i loro immobili da un comune dante causa con conseguente attenuazione della c.d. “probatio diabolica”. Infatti, come è noto, il rigore probatorio si attenua quando si accerti che il bene conteso provenga da un dante causa comune all’attore e al convenuto, nel senso che, in tale ipotesi, il rivendicante non ha l’onere di provare il diritto dei suoi autori fino all’acquisto a titolo originario, dovendo limitarsi a dimostrare (come ritenuto nella specie dai giudici del merito) l’originaria appartenenza del bene al comune dante causa.

L’infondatezza del quinto motivo emerge con immediatezza tenuto conto del principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo cui affinchè il giudicato esterno, che è rilevabile di ufficio, possa far stato nel processo, è necessaria la certezza della sua formazione, la quale deve essere provata attraverso la produzione della sentenza con il relativo attestato di cancelleria (tra le tante, sentenze 8/5/2009 n. 10623; 2/4/2008 n. 8478; 24/11/2008 n. 27881). Nella specie la ricorrente non ha contestato che la sentenza dalla stessa posta a base della sua eccezione di usucapione non trovava riscontro tra i documenti ritualmente acquisiti agli atti di causa. Considerato quindi che il ricorso può essere deciso in Camera di consiglio per ivi essere rigettato”.

Rilevato che, ad avviso del Collegio, non sussistono, anche alla stregua della valutazione del contenuto della memoria depositata nell’interesse della ricorrente, le condizioni di evidenza decisoria che, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., consentono la definizione del ricorso in camera di consiglio;

che, pertanto, occorre rimettere la trattazione del ricorso alla pubblica udienza presso la Sezione Seconda Civile.

P.Q.M.

La Corte rinvia la trattazione del ricorso alla pubblica udienza presso la Sezione Seconda Civile.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 18 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2011

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