Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27009 del 27/12/2016

Cassazione civile, sez. III, 27/12/2016, (ud. 17/05/2016, dep.27/12/2016),  n. 27009

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22148/2013 proposto da:

STATI UNITI D’AMERICA, legalmente rappresentanti dalla Sig.ra

M.D. C., Capo dell’Ufficio Europeo, Divisione Civile, del

Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti d’America,

elettivamente domiciliati in ROMA, FORO TRAIANO 1-A, presso lo

studio dell’avvocato GIORGIO COSMELLI, che li rappresenta e difende

in virtù di mandato speciale alle liti del 25/09/2013, autenticato

e munito di Apostilla ai sensi della Convenzione dell’Aja del

05/10/1961;

– ricorrenti –

contro

CO.FIN. SPA, in persona del Presidente del C.d.A. e legale

rappresentante pro tempore, Ing. C.G., elettivamente

domiciliata in ROMA, PIAZZA DIGIONE 1, presso lo studio

dell’avvocato LORENZO DE SANCTIS, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato SALVATORE MONTICELLI, giusta procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3749/2012 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 21/11/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/05/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato MARIA GRAZIA MEDICI per delega;

udito l’Avvocato SALVATORE MONTICELLI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI

Con sentenza depositata il 17 maggio del 2011, il Tribunale di Napoli, accogliendo, sia pur soltanto in parte qua, la domanda proposta dalla CO.Fin nei confronti degli Stati Uniti d’America, conduttore di un immobile di proprietà dell’attrice, condannò lo Stato estero convenuto al pagamento, a titolo di risarcimento danni da omessa manutenzione ordinaria ed uso anomalo del bene condotto in locazione, della somma di Euro 235.813, 70.

Accogliendo in parte anche la domanda riconvenzionale del convenuto, il giudice di primo grado condannò la locatrice al pagamento della somma di Euro 49.893 a titolo di rimborso per la mancata utilizzazione di parte dell’immobile, allagatosi in seguito ad un nubifragio nell’anno 2011.

La corte di appello di Napoli, investita delle impugnazioni, principale e incidentale, hinc et inde proposte, le rigettò.

Per la cassazione della sentenza della Corte partenopea lo Stato estero ha proposto ricorso sulla base di 3 motivi di censura. Resiste l’intimata con controricorso.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5; violazione degli artt. 1322, 1362, 1366 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il motivo è inammissibile.

Sotto un duplice, concorrente profilo.

Il primo, quello secondo il quale, se l’oggetto della censura dovesse interpretarsi come funzionale alla denuncia di un preteso errore percettivo del consulente tecnico, tradottosi in uno speculare errore percettivo in cui sarebbe incorsa la Corte di appello “nel recepirne acriticamente le conclusioni”, come sostenuto dallo stesso ricorrente, ebbene tale error facti non consentirebbe l’impugnazione della sentenza con il ricorso per Cassazione, dovendo la relativa doglianza formare oggetto di una diversa impugnazione, ex art. 395 c.p.c., n. 4.

Il secondo, quello secondo il quale, se l’oggetto della censura dovesse ritenersi afferente ad una asseritamente erronea valutazione, da parte della Corte di appello, delle risultanze processuali, esso si infrangerebbe irrimediabilmente sul divieto di riesame del merito della vicenda processuale da parte del giudice di legittimità, volta che, come nella specie, la sentenza appare scevra da vizi logico-giuridici nel suo complessivo, articolato ed esaustivo impianto motivazionale.

Nessun “omesso esame di fatti decisivi” appare, difatti, predicabile nella vicenda che ancora continua ad occupare questa Corte di legittimità, poichè il giudice territoriale si è puntualmente espresso, disattendendolo, sul 1^ motivo di appello, motivatamente e condivisibilmente escludendo l’applicabilità della praesumptio hominis di cui all’art. 1588 c.c., attesane la esclusione ex pactis, e concludendo per la genericità (in parte qua) e infondatezza (in parte qua) della complessiva censura, sulla base, oltre che delle conclusioni della CTU, anche della prova per interpello e della documentazione fotografica di parte, le cui risultanze lo hanno condotto a concludere, con apprezzamento di fatto non censurabile in questa sede, per la sostanziale fondatezza dell’an delle pretese attoree.

Con il secondo motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5; violazione dell’art. 1590 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Il motivo con il quale si lamenta una pretesa omissione valutativa in cui sarebbe incorso il CTU per avere quest’ultimo limitato, nella determinazione dei costi di ripristino dello status quo ante dell’immobile, alla sola condizione di usura risalente al secondo contratto di locazione, e non anche al primo, di cui il secondo doveva considerarsi mera proroga, non essendo l’immobile rientrato nella disponibilità del locatore è anch’esso inammissibile.

Alla luce di una più che consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, difatti, va in questa sede riaffermato il principio secondo il quale la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, per poi scegliere, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile).

Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai stabilizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Quanto, poi, all’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto della convenzione negoziale per la quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va nuovamente riaffermato il principio secondo il quale, in tema di ermeneutica contrattuale, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni normativi di interpretazione (sì come dettati dal legislatore agli artt. 1362 c.c. e segg.) e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, funditus, Cass. n. 2074/2002): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per assoluta ed insanabile inadeguatezza/inconferenza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili, con riguardo alla sentenza oggi impugnata), con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Con il terzo motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Il motivo – con il quale parte ricorrente si duole dell’accoglimento soltanto parziale della sua domanda riconvenzionale – non ha giuridico fondamento.

La Corte territoriale, con argomentazioni scevre da vizi logico-giuridici, si è motivatamente adeguata alle valutazioni del CTU, che ha ritenuto di determinare il valore locativo dell’immobile attribuendo al locale seminterrato la funzione di locale accessorio, con conseguente riduzione del computo del relativo valore.

Si è palesemente in presenza di una valutazione di merito, istituzionalmente sottratta al vaglio di questo giudice di legittimità.

Il ricorso è pertanto rigettato.

Le spese del giudizio di Cassazione seguono il principio della soccombenza.

Liquidazione come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 10.200, di cui Euro 200 per spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2016

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