Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26977 del 26/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 26/11/2020, (ud. 23/09/2020, dep. 26/11/2020), n.26977

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4731/2013 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

CERISMA s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa, giusta procura a margine del ricorso,

dall’Avv. Maurizio Villani, elettivamente domiciliata presso il suo

studio in Lecce, Via Cavour n. 56;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Puglia, sezione distaccata di Lecce, n. 1/22/2012, depositata il 16

gennaio 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di -consiglio del 23 settembre

2020 dal Consigliere Dott. D’Orazio Luigi.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.La Cerisma s.r.l. presentava all’Agenzia delle entrate, Ufficio di Casarano, interpello antielusivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 8, per l’anno 2006, chiedendo la disapplicazione della normativa relativa alle società non operative o “di comodo” prevista dalla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4. L’istanza veniva trasmessa dalla Agenzia delle entrate di Casarano (Lecce) alla Direzione Regionale della Puglia (Bari), competente ad emettere il parere.

2.La Direzione Regionale dichiarava, con provvedimento n. 2007/44964 dell’1-10-2007, improcedibile l’istanza di disapplicazione, in assenza del contenuto minimo, considerando la richiesta come non presentata (cfr. motivazione della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Lecce che riporta il contenuto del rigetto “La predetta istanza di disapplicazione va considerata come non proposta”; cfr. anche motivazione della sentenza della Commissione tributaria regionale “La Direzione Generale interpellata…dichiarava improcedibile la richiesta della contribuente).

3.La Commissione tributaria provinciale di Lecce, con sentenza n. 93/5/08, depositata il 14-4-2008, accoglieva il ricorso, rilevando che la competenza per territorio a decidere era proprio della Commissione tributaria di Lecce ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 4, anche perchè la contribuente aveva il proprio domicilio fiscale in Casarano (Lecce); il provvedimento di rigetto era impugnabile, in quanto rientrava tra gli atti di diniego o di revoca di agevolazioni, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 1, lett. h), poichè la disapplicazione della disciplina delle società non operative era da qualificare come una “sorta di agevolazione fiscale”. La società, poi, aveva dimostrato che la situazione determinatasi non era dipesa dalla volontà dell’imprenditore, avendo la contribuente affittato alla Monteco un terreno da utilizzare come cava, a condizione che fosse rilasciata la relativa autorizzazione da parte degli organi competenti, ma il provvedimento ampliativo non era stato mai rilasciato. Ciò aveva impedito alla contribuente di produrre i redditi minimi legati all’oggetto sociale dichiarato dall’impresa.

4.La Commissione tributaria regionale della Puglia rigettava l’appello della Agenzia delle entrate, evidenziando che era competente a decidere la Commissione tributaria provinciale di Lecce, tanto che la contribuente aveva dovuto produrre l’istanza per la disapplicazione all’Ufficio di Casarano (Lecce) e non alla Direzione Regionale di Bari. Inoltre, la Commissione regionale affermava che era impugnabile il provvedimento di diniego da parte della Direzione Regionale della disapplicazione di una legge antielusiva ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, trattandosi di un atto definitivo in sede amministrativo e recettizio, con immediata rilevanza esterna, da qualificarsi come una ipotesi di diniego di agevolazione quindi impugnabile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 1, lett. h). Quanto al merito il giudice di appello riteneva sussistente la situazione di carattere oggettivo di impossibilità di conseguire ricavi nell’anno 2006 da parte della contribuente, che aveva affittato la cava alla Monteco s.r.l., la quale aveva presentato la richiesta delle autorizzazioni agli organi competenti sin dal 13-12-2004, producendo documentazione integrativa il 3-10-2005, senza ottenere il titolo autorizzativo.

5.Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

6.Resiste con controricorso la società, depositando memoria scritta.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.Anzitutto, si reputa ammissibile il ricorso, che risulta autosufficiente, essendo stati indicati tutti gli elementi indispensabile per la compiuta comprensione della controversia e degli sviluppi processuali.

Peraltro, il ricorso per cassazione è stato articolato come violazione di legge e non come vizio della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. La giurisprudenza richiamata dalla società controricorrente attiene, invece, alla censura in sede di legittimità della sentenza del giudice di appello sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento.

1.1.Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 4 (nel testo vigente prima delle modifiche introdotte dal D.L. n. 78 del 2020) e dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10; con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto era competente a decidere la controversia la commissione tributaria provinciale di Bari, e non quella di Lecce. Infatti, l’atto impugnato, con cui è stata dichiarata la improcedibilità dell’istanza di interpello, è stato emesso dalla Direzione Regionale di Bari, che ha sede in Bari, sicchè era competente la Commissione tributaria provinciale di Bari e non quella di Lecce. L’ufficio di Casarano, in provincia di Lecce, si è limitato solo a trasmettere l’istanza della contribuente, corredandola di ulteriori elementi utili alla emissione del provvedimento, che è stato però emanato dalla Direzione Regionale di Bari.

1.2.Tale motivo è infondato.

1.3.Invero, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 4, comma 1, all’epoca vigente, prevede che “Le commissioni tributarie provinciali sono competenti per le controversie proposte nei confronti degli uffici delle entrate o del territorio del Ministero delle finanze ovvero degli enti locali ovvero dei concessionari del servizio di riscossione, che hanno sede nella loro circoscrizione”; la norma prevede, poi, che ” se la controversia è proposta nei confronti di un centro di servizi è competente la commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale spettano le attribuzioni sul tributo controverso”.

L’art. 4, comma 2, quindi, stabilisce che “le commissioni tributarie regionali sono competenti per le impugnazioni avverso le decisioni delle commissioni tributarie provinciali, che hanno sede nella loro circoscrizione”.

1.4.Va precisato che le commissioni tributarie provinciali hanno sede nel capoluogo di ogni provincia e la competenza è determinata, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 4, comma 1, con riferimento alla sede degli “uffici tributari” nei cui confronti il ricorso è stato proposto.

La “circoscrizione” delle commissioni tributarie, per effetto del D.Lgs. n. 545 del 1992, art. 1, coincide con la provincia, mentre in precedenza, con riferimento alle commissioni tributarie di primo grado, coincideva con la circoscrizione dei tribunali. Ogni commissione è competente a giudicare sugli atti emessi dagli uffici aventi sede nella propria circoscrizione. Tuttavia, gli uffici vengono indicati nominativamente come “uffici delle entrate o del territorio del Ministero delle finanze ovvero degli enti locali o dei concessionari del servizio di riscossione” ovvero “centri di servizio”, con la conseguenza che il ricorso deve essere proposto contro il “singolo ufficio”.

1.5.Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 4, comma 1, è stato modificato dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 28, comma 2, convertito in L. 30 luglio 2010, n. 122, con l’aggiunta tra gli enti impositori delle “altre articolazioni della Agenzia delle entrate, con competenza su tutto o parte del territorio nazionale, individuate con il regolamento di amministrazione di cui al D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 71, nell’ambito della dotazione organica prevista a legislazione vigente e anche mediante riorganizzazione, senza oneri aggiuntivi, degli Uffici dell’Agenzia”. Se la controversia, dunque, è proposta nei confronti di un “centro di servizi” o di “altre articolazioni della Agenzia delle entrate, con competenza su tutto o parte del territorio nazionale”, è competente la commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio “al quale spettano le attribuzioni sul tributo controverso”.

1.6.Può concludersi che la competenza delle commissioni tributarie provinciali è determinata dalla sede del soggetto nei cui confronti è proposta la controversia, e quindi generalmente dalla sede del soggetto che ha emesso l’atto impugnato. Se, però, la controversia è proposta nei confronti di un centro di servizi o di altre articolazioni della Agenzia delle entrate, la competenza della commissione provinciale si individua nella circoscrizione in cui ha sede l’ufficio “al quale spettano le attribuzioni sul tributo controverso”.

1.7.Il D.P.R. n. 600 del 1986, art. 37 bis, comma 8, all’epoca vigente, dispone che “Le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazione di crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi”.

Si aggiunge che “a tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione”.

E’ pacifico, dunque, che la competenza a decidere sulla istanza di disapplicazione è della direzione regionale e non dell’ufficio periferico. Nella specie, infatti, il provvedimento di improcedibilità è stato emesso dalla Direzione regionale della Puglia, quindi dalla sede di Bari, e non dall’ufficio periferico di Casarano, della,provincia di Lecce.

Tuttavia, trattandosi di una articolazione della Agenzia delle entrate, deve farsi riferimento, ai fini della competenza per territorio, alla sede dell’ufficio al quale spettano le attribuzioni sul tributo controverso (imposte che scaturiscono dalla liquidazione della dichiarazione unico 2007, per l’anno di imposta 2006), e quindi all’ufficio periferico di Lecce.

Del resto, aderendo alla diversa tesi prospettata dalla Agenzia delle entrate, il contribuente sarebbe costretto a difendersi presso un organo giurisdizionale non coincidente con la sede dell’Ufficio periferico.

Inoltre, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10 attiene alla individuazione delle “parti” del processo ed individua quale “parte” dinanzi alle commissioni tributarie il singolo ufficio dell’amministrazione che ha trattato la controversia, ossia l’ufficio che ha emanato l’atto impugnato o che non ha emesso l’atto richiesto.

Se, però, l’ufficio è un’articolazione dell’Amministrazione “è parte l’ufficio al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso”, quindi l’ufficio periferico della Agenzia delle entrate.

Pertanto, parte del processo è stata correttamente la Direzione provinciale di Lecce, munita delle attribuzioni sul rapporto in contestazione a fronte del ricorso del contribuente dinanzi alla Commissione tributaria di Lecce, ferma restando la legittimazione passiva della Direzione regionale a partecipare al processo ove destinataria della notifica del ricorso del contribuente (Cass., sez. 5, 23 luglio 2019, n. 19795, seppure in tema di dazi doganali).

Del resto la ratio della disposizione, se diversamente interpretata, comporterebbe che, in tutti i casi in cui la Direzione regionale emette un provvedimento oggetto di impugnazione, la stessa diventerebbe la sola legittimata passiva e attiva nel processo, con l’onere quindi in capo alla stessa di resistere in giudizio in una mole sterminata di processi, e accentramento conseguente degli stessi presso la commissione provinciale della Regione ove ha sede la Direzione regionale (Cass., sez. 5, 23 luglio 2019, n. 19795).

2.Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19: con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto tra gli atti impugnabili ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 non rientra il provvedimento di improcedibilità della richiesta di interpello, in carenza dei requisiti minimi della istanza.

2.1.Tale motivo è fondato.

2.2.Invero, con una prima decisione di questa Corte si è ritenuto che il diniego da parte del direttore regionale delle entrate di disapplicazione di una legge antielusiva, effettuato ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, comma 8 è un atto definitivo in sede amministrativa (così indicato espressamente dal D.M. Finanze 19 giugno 1998, n. 259, attuativo della procedura di cui al citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8) e recettizio con immediata rilevanza esterna, da qualificarsi come un’ipotesi di diniego di agevolazione, come tale impugnabile innanzi alle Commissioni tributarie, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 1, lett. h). Il relativo giudizio instaurato dinanzi al giudice tributario, vertendo in materia di diritti soggettivi e non di meri interessi legittimi, è a cognizione piena e si estende, quindi, al merito della pretesa e non è limitata alla mera illegittimità dell’atto per cui, all’esito, potrà essere emessa una decisione sulla fondatezza della domanda di disapplicazione, con conseguente attribuzione, ove ne ricorrano le condizioni applicative, dell’agevolazione richiesta (Cass., sez. 5, 15 aprile 2011, n. 8663). In particolare, si è osservato che l’unico tratto differenziale rispetto alle altre ipotesi di “agevolazione” era di tipo procedimentale, in quanto il potere di autorizzazione non spettava all’Ufficio locale competente per territorio, ma alla massima autorità regionale in materia fiscale e l’atto di controllo consisteva in una autorizzazione specifica e preventiva. Sussisteva l’interesse ad agire in capo al destinatario del diniego che, con l’azione giurisdizionale, era in grado di evitare un effetto a sè pregiudizievole.

Si precisava – ma tale precisazione veniva confutata dalla giurisprudenza di legittimità successiva – che la mancata impugnazione di tale atto tipico comportava la intangibilità dellò stesso, con esclusione di ogni contestazione successiva, ponendosi come fatto di per sè preclusivo nell’ambito del giudizio sul rifiuto espresso o tacito di rimborso.

2.3.Con una successiva sentenza questa Corte (Cass., sez. 5, 5 ottobre 2012, n. 17010; successivamente in termini Cass., sez. 5, 11 luglio 2019, n. 18604, sia pure in una ipotesi di istanza di “revisione” di risposta ad interpello, ritenuta inammissibile; anche Cass., sez. 6-5, 6 ottobre 2017, n. 23469; Cass., sez. 6-5, 11 dicembre 2019, n. 32425; Cass., 8 maggio 2019, n. 12150; Cass., sez. 5, 21 gennaio 2020, n. 1230) confermava la impugnabilità del provvedimento di rigetto della istanza di disapplicazione, ma con alcune importanti precisazioni.

Si afferma, in particolare, l’esclusione della equiparazione tra “agevolazione fiscale” e “disapplicazione di norma antielusiva”, sicchè il provvedimento di rigetto della istanza di disapplicazione non può rientrare in alcune delle categorie di atti impugnabili di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19. La natura tassativa degli atti indicati nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, però, consente una interpretazione estensiva del “catalogo”, sino a ricomprendervi tutti gli atti adottati dell’ente impositore che, con l’esplicitazione delle concrete ragioni che li sorreggono, portino a conoscenza del contribuente una individuata pretesa tributaria (Cass., sez. 5, 8 maggio 2019, n. 12150).

Va precisato che vi è una mera facoltà di impugnazione del privato, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento. La mancata impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 non determina, in ogni caso, la non impugnabilità di questa pretesa, che può essere successivamente reiterata in uno degli atti tipici di cui allo stesso art. 19.

L’istanza di disapplicazione della normativa antielusiva rientra nel novero degli atti impugnabili per varie ragioni: l’istanza è obbligatoria per il privato; deve contenere la descrizione compiuta della fattispecie concreta; deve essere corredata della documentazione rilevante; è soggetta a richieste istruttorie; è volta ad ottenere un atto dell’amministrazione; le determinazioni del direttore regionale sono comunicate al richiedente mediante servizio postale, in plico raccomandato, con avviso di ricevimento, con provvedimento da ritenersi “definitivo”.

In particolare, la risposta all’interpello, positiva o negativa, costituisce il primo atto con cui l’amministrazione, a seguito di una fase istruttoria e di una valutazione tecnica, e con particolare garanzie procedimentali, porta a conoscenza del contribuente, in via preventiva, il proprio convincimento in ordine ad una specifica richiesta, relativa ad un determinato rapporto tributario, con l’immediato effetto di incidere, comunque, sulla condotta del soggetto istante in ordine alla dichiarazione dei redditi in relazione alla quale l’istanza è stata inoltrata. Sussiste, quindi, l’interesse ad impugnare da parte del contribuente ai sensi dell’art. 100 c.p.c., ai fini del controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’atto emesso dall’amministrazione. Ovviamente, l’omessa impugnazione dell’atto di diniego non pregiudica la posizione del contribuente che ad esso non ritenga di adeguarsi.

Se il provvedimento è negativo esso prelude, predeterminandone il contenuto, ad un eventuale avviso di accertamento relativo alla dichiarazione dei redditi presentata in difformità dalla risposta. La risposta all’interpello non impedisce alla stessa amministrazione di rivalutare, in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso, l’orientamento (negativo) in precedenza espresso, nè al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale. Resta fermo che, invece, la risposta positiva del direttore regionale impedisce all’amministrazione l’applicazione della norma antielusiva oggetto di interpello, in applicazione del principio di tutela dell’affidamento, che ha diretto fondamento costituzionale e carattere generale ed immanente anche nell’ordinamento tributario nel quale trova espresso riconoscimento, in linea generale, nella L. n. 212 del 2000, art. 10.

Si è anche affermato che le risposte rese dall’Amministrazione finanziaria agli atti di interpello di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 11 non sono impugnabili, trattandosi di meri pareri che non incidono direttamente in danno del contribuente, salvo quelli resi a seguito di richiesta di disapplicazione di norme antielusive i quali, anche secondo la disciplina anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 156 del 2015, possono essere impugnati in quanto contenenti una compiuta pretesa tributaria (Cass., sez. 5, 20 dicembre 2018, n. 32962).

2.4.L’ipotesi oggetto di esame è, invece, in questa sede, quella della dichiarazione di improcedibilità della istanza di interpello, per assenza dei requisiti minimi della richiesta, sì da poter essere considerata come una “non istanza”.

In tal senso, per questa Corte, non è impugnabile il provvedimento di improcedibilità emesso dalla direzione regionale, in quanto in tal modo l’amministrazione non manifesta il proprio convincimento sul merito della richiesta. Trattasi, dunque, non di provvedimento “definitivo”, ma di provvedimento solo “interlocutorio” (Cass., sez. 5, 13 aprile 2012, n. 5843). In quel caso il provvedimento della amministrazione aveva dichiarato improcedibile l’istanza di interpello ai sensi del D.M. n. 259 del 1998, art. 1, comma 3, per difetto delle indicazioni ed allegazioni essenziali al fine della correlativa valutazione di merito. L’istanza di disapplicazione era stata ritenuta dalla direzione regionale come “non presentata”, sicchè non si era in presenza di un provvedimento definitivo corredato da idonea motivazione, ma solo di un provvedimento di natura “interlocutoria”, che si limitava, in assenza di qualsiasi attività istruttoria o di valutazioni tecniche, a dichiarare l’istanza di interpello come “non presentata”, senza alcuna valutazione sul merito (in tal senso anche Cass., sez. 5, 11 dicembre 2019, n. 32425, che evidenzia la peculiarità della sentenza n. 5843/2012).

3.La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, ma senza rinvio, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, in quanto il provvedimento di “improcedibilità” della istanza di interpello emesso dalla direzione regionale della Agenzia delle entrate, non poteva essere impugnato, avendo solo natura interlocutoria e non “definitiva”.

4.Trattandosi di cassazione senza rinvio, deve pronunciarsi sulle spese dell’intero giudizio (Cass., sez. 1, 9 marzo 1988, n. 2359). Le spese dei gradi di merito vanno compensate per intero tra le parti, per la peculiarità della controversia. Le spese del giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico della società e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo di ricorso; rigetta il primo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, senza rinvio.

Compensa interamente tra le parti le spese delle fasi di merito.

Condanna la società a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 5.200,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2020

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