Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26975 del 22/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 22/10/2019, (ud. 23/05/2019, dep. 22/10/2019), n.26975

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3380/2018 R.G. proposto da

F.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Giovanni Anania;

– ricorrente –

contro

Aviva Italia S.p.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Monica Zilio,

con domicilio eletto in Roma, via Romeo Romei, n. 27, presso lo

studio dell’Avv. Maurizio Romagnoli;

– controricorrente –

avverso la sentenza del Tribunale di Torino, n. 3272/2017, depositata

il 21 giugno 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 maggio

2019 dal Consigliere Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Torino, in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da F.D. nei confronti della propria assicuratrice per la r.c.a., Aviva Italia S.p.A., avvalendosi della procedura di risarcimento diretto ex art. 149 cod. ass., in relazione ai danni subiti dal proprio motoveicolo a seguito di sinistro stradale.

Ha infatti ritenuto che la presunzione ricavabile dal modulo di constatazione amichevole di incidente (c.d. modulo CAI) -sottoscritto dal conducente dell’autovettura che nell’occorso, secondo quanto dedotto, aveva tamponato il motoveicolo e dal conducente di quest’ultimo – fosse nella specie superata dagli elementi presuntivi forniti dalla compagnia convenuta, di modo che il predetto modulo non poteva “più ritenersi sufficiente a provare il fatto che il sinistro si (fosse) verificato come in esso dichiarato”.

Ha in tal senso in particolare ritenuto che:

– fosse inverosimile che, data l’ora e il luogo dell’incidente, non fosse intervenuta alcuna autorità pubblica a regolare il traffico e a procedere ai dovuti rilievi, tanto più in considerazione dell’entità dei danni dedotti (oltre Euro 8.000);

– fosse altrettanto inspiegabile il mancato intervento di alcun mezzo di soccorso per la rimozione della moto;

– non risultava prodotta alcuna documentazione medica, che pure era da attendersi sia in considerazione del riferimento che ad essa risultava fatto nella denuncia di sinistro, sia in relazione alla dinamica dello stesso e all’entità dei danni lamentati;

– dava adito a dubbi la scelta di parte appellata di non reiterare l’istanza di ammissione di prova testimoniale con riferimento all’unico asserito testimone dell’incidente, così come quella di rifiutarsi di rendere dichiarazioni agli investigatori incaricati dalla compagnia convenuta, in tal modo ostacolando di fatto la procedura di accertamento ed eventuale liquidazione del danno.

2. Avverso tale sentenza F.D. propone ricorso per cassazione affidato ad un solo motivo, cui resiste la compagnia di assicurazioni, depositando controricorso.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Parte ricorrente ha inviato a mezzo posta memoria.

La controricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Occorre preliminarmente rilevare che la memoria fatta pervenire a mezzo posta dalla parte ricorrente è da considerarsi irrituale, giusta il consolidato principio di diritto, secondo cui: “L’art. 134 disp. att. c.p.c., comma 5, a norma del quale il deposito del ricorso e del controricorso, nei casi in cui sono spediti a mezzo posta, si ha per avvenuto nel giorno della spedizione, non è applicabile per analogia al deposito delle memorie di cui agli artt. 378, 380-bis c.p.c., comma 2, e art. 380-bis.1 c.p.c., sia perchè tale previsione, per la sua natura speciale rispetto alle normali attività di deposito degli atti nel giudizio di cassazione, è da reputarsi insuscettibile di applicazione analogica, sia, gradatamente, perchè, essendo il detto deposito diretto esclusivamente ad assicurare al giudice ed alle altre parti la possibilità di prendere cognizione dell’atto con il congruo anticipo rispetto alla udienza di discussione e negli altri due rispetto all’adunanza della Corte, ritenuto necessario dal legislatore, l’applicazione del citato art. 134, finirebbe con il ridurre, se non con l’annullare detto scopo” (v. in termini, ex multis, Cass. 22/10/2018, n. 26551; e anteriormente Cass. 10/04/2018, n. 8835; 19/04/2016 n. 7704; 04/01/2011, n. 182; 04/08/2006, n. 17726).

2. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., e dell’art. 112c.p.c. e art. 115 c.p.c., comma 2”, per avere il giudice a quo motivato sulla base di presunzioni ricavate da fatti – quali il mancato intervento delle autorità e di alcun mezzo di soccorso per la rimozione della moto, la mancata esibizione di documentazione medica – non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, ma puramente ipotetici.

Rileva inoltre che gli altri elementi indiziari in tal senso valorizzati in sentenza (e cioè: il comportamento poco collaborativo tenuto nel corso della procedura di accertamento ed eventuale liquidazione del danno da parte della compagnia) sono privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza normativamente previsti.

3. La censura è inammissibile sotto diversi profili.

3.1. Anzitutto perchè argomenta del tutto confusamente, e contro il chiaro tenore della sentenza impugnata, sulla base della mancata acquisizione al processo di quelli che in realtà sono meri fatti negativi, ovvero il contenuto di mere difese con le quali la convenuta, fin dalla costituzione in primo grado, come pacificamente riferisce lo stesso ricorrente, opponeva la carenza di allegazione da parte dell’attore dei fatti positivi opposti oppure la loro allegazione senza prova; sotto tale profilo il motivo risulta affetto da assoluta carenza di chiarezza (v. Cass. Sez. Un., n. 8077 del 2012) e, dunque, inidoneo a svolgere funzione di critica alla motivazione.

3.2. Tale argomentare oltre che confuso è comunque anche aspecifico; la critica infatti non si correla alla motivazione nella sua interezza, poichè si disinteressa completamente del rilievo attribuito in sentenza anche alla mancata richiesta di assunzione della prova testimoniale, sicchè il ragionamento presuntivo che ha indotto il Tribunale a svalutare le risultanze del CID è criticato in modo incompleto.

3.3. Può inoltre osservarsi, sotto altro profilo, che la censura è in radice viziata da una erronea ricostruzione del dato normativo applicabile (art. 143 cod. ass.).

Si postula infatti, in ricorso, che il modulo di constatazione amichevole di incidente sottoscritto dai conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro avrebbe valore di prova presuntiva, sebbene alla stregua presunzione iuris tantum, superabile da prova contraria, anch’essa eventualmente di tipo presuntivo; con la conseguenza che, invece, ove tale prova contraria non sia offerta, il giudice dovrebbe comunque attenersi al valore di prova piena in tesi attribuito dalla norma al detto documento.

In realtà, come chiarito dalla giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte, sulla scia di Cass. Sez. U. 05/05/2006, n. 10311, nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore della responsabilità civile da circolazione stradale (cui può equipararsi anche quello promosso ai sensi dell’art. 149 cod. ass., nei confronti della propria compagnia di assicurazione, agendo in tal caso questa nella veste, che la legge stessa espressamente gli assegna, di mandatario (senza rappresentanza) dell’assicuratore del responsabile), la dichiarazione confessoria contenuta nel modulo di constatazione amichevole del sinistro (cosiddetto modulo C.A.I.), non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti del solo confitente, ma deve essere liberamente apprezzata dal giudice dovendo trovare applicazione la norma di cui all’art. 2733 c.c., comma 3, secondo la quale, in caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è, per l’appunto, liberamente apprezzata dal giudice.

Tale “libero apprezzamento”, sia che esiti in un giudizio di idoneità probatoria del documento, sia che abbia esito opposto, non equivale ad arbitrio e deve essere dunque adeguatamente motivato;

nel caso di specie tuttavia il giudice di merito ne ha fornito congrua motivazione, in sostanza valorizzando l’assenza di riscontri convergenti di alcun tipo, sebbene gli stessi dovessero ragionevolmente attendersi.

Una tale valutazione, impingendo nella ricognizione del fatto, è sindacabile in sede di legittimità solo per omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,), nella specie nemmeno dedotto.

Ben diversa ed eccentrica è infatti la prospettiva censoria seguita dal ricorrente, la quale, seguendo l’erronea impostazione di cui si è detto, mira a contestare l’insussistenza di basi fattuali su cui reggere un ragionamento presuntivo che possa opporsi alla presunzione, in tesi, altrimenti necessariamente ricavabile dal modulo Cai.

In realtà, trattandosi non di verificare il superamento di una presunzione iuris tantum sempre e comunque ricavabile dal predetto documento, ma piuttosto, ben diversamente, di valutare la valenza probatoria della confessione stragiudiziale in esso contenuta (valenza nient’affatto presunta ma liberamente valutabile, come s’è detto), è mal posta una critica diretta a negare la sussistenza degli elementi indiziari in tesi erroneamente valorizzati dal giudice di merito, mentre, semmai, avrebbe dovuto sostenersi l’esistenza di elementi contrari che, se considerati, avrebbero potuto corroborare quella confessione e condurre ad una diversa sua valutazione.

Tanto però non arriva a dire il ricorrente, il quale invero non sostiene affatto che vi sia stato l’intervento delle autorità o di mezzi di soccorso o che sia stata esibita la documentazione medica relativa al conducente, limitandosi ben diversamente ad affermare la mancata rituale acquisizione in giudizio delle circostanze opposte.

3.4. Sotto altro profilo ancora, e pur seguendo l’impostazione predetta, può ancora rilevarsi che la critica al ragionamento presuntivo seguito dalla Corte di merito, sotto il profilo della dedotta violazione dell’art. 2729 c.c., non rispetta i criteri e i requisiti al riguardo indicati di recente, sulla falsariga di giurisprudenza precedente, da Cass. Sez. U. 24/01/2018, n. 1785 nei termini seguenti:

“la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare (come altrove venne sostenuto: Cass. n. 17457 del 2007; successivamente. Cass. n. 17535 del 2008; di recente: Cass. n. 19485 del 2017) sotto i seguenti aspetti:

aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;

bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacchè dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.

Con riferimento a tale secondo profilo, si rileva che, com’è noto, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B (non è condivisibile, invece, l’idea che vorrebbe sotteso alla “gravità” che l’inferenza presuntiva sia “certa”).

La precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti.

La concordanza esprime – almeno secondo l’opinione preferibile – un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.

Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta.

Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.

In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.

Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l’evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi.

Di contro la critica al ragionamento presuntivo svolto da giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali).

In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti.

Terreno che, come le Sezioni Unite (Cass. Sez. U. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente il nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c., è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito ha omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria”.

Ebbene, nella specie, l’illustrazione del motivo non prospetta la falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, nei termini su indicati, ma si risolve o nella contestazione della mancata rituale acquisizione dei fatti indizianti (contestazione in realtà priva di senso posto che, come s’è detto, si tratta di “fatti negativi”, ossia del rilievo della mancata allegazione e prova degli opposti “fatti positivi”) o nella generica contestazione della gravità dell’indizio, ovvero della validità logica del ragionamento probabilistico che lo correla al fatto da dimostrare senza però nemmeno indicare quale esso sia nè tanto meno le ragioni che dovrebbero farlo ritenere inidoneo nei sensi sopra detti.

Ne segue che il motivo non presenta le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, e nemmeno – pur riconvertito alla stregua di Cass. Sez. U. n. 17931 del 2013 – quelle di un motivo ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c..

3.5. Palesemente eccentriche, oltre che generiche nei sensi già detti di cui a Cass. Sez. Un., n. 8077 del 2012, sono poi le doglianze riferite agli artt. 112 e 115 c.p.c..

Quanto alla prima è agevole rilevare che è del tutto fuor di luogo la prospettazione della violazione del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato che si fa nel motivo, in astratto apprezzabile solo con riferimento alle domande ed eccezioni in senso stretto non certo (come invece pretende parte ricorrente) in relazione alle valutazioni di merito dei fatti allegati (positivi o negativi) e delle prove acquisite a fondamento delle une o delle altre.

Del tutto fuori segno è parimenti l’evocazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., del quale nella specie non risulta fatta alcuna applicazione, avendo il giudice di merito ben diversamente valorizzato, come detto, “fatti negativi” ossia il rilievo da parte della società appellante della mancata allegazione e prova di “fatti positivi” che avrebbero invece dovuto attendersi ragionevolmente in relazione alla dinamica del sinistro e per tal motivo negato attendibilità e valore probatorio alla dichiarazioni contenute nel modulo Cai.

4. Per tutte le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2019

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