Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26952 del 22/10/2019

Cassazione civile sez. II, 22/10/2019, (ud. 18/06/2019, dep. 22/10/2019), n.26952

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1964-2015 proposto da:

C.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

COSTANTINO MORIN n. 1, presso lo studio dell’avvocato WALTER

FELICIANI, rappresentato e difeso dall’avvocato RICCARDO LEONARDI;

– ricorrente –

contro

IMPRESA INDIVIDUALE E.B. e L.E.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 616/2013 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 12/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/06/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

A seguito di accertamento tecnico preventivo, C.M.G. evocava in giudizio innanzi il Tribunale di Perugia Braccini Eugenio e L.E.M. – il primo in veste di appaltatore e la seconda in qualità di progettista e direttrice dei lavori – per sentir dichiarare la risoluzione per inadempimento del contratto di appalto sottoscritto tra la C. e il B. e per sentir condannare i convenuti al risarcimento del danno, o in subordine per ottenere la riduzione del corrispettivo pattuito nel contratto di appalto.

Si costituivano i convenuti resistendo alla domanda. B. spiegava inoltre domanda riconvenzionale per il pagamento della somma di Lire 115.000.000 a titolo di saldo delle proprie competenze, mentre L. spiegava a sua volta domanda riconvenzionale per il rimborso delle spese e dei compensi a lei dovuti per la sua opera professionale.

Con sentenza n. 155/2010 il Tribunale respingeva la domanda attrice, accoglieva la riconvenzionale del B. ed accoglieva altresì, in parte, quella della L..

Interponeva appello la C. e si costituivano in seconda istanza i due appellati, resistendo all’impugnazione principale. La L. spiegava anche appello incidentale per la parte della sua domanda riconvenzionale non accolta in prime cure.

Con la sentenza oggi impugnata, n. 616/2013, la Corte di Appello di Perugia rigettava tanto l’impugnazione principale che quella incidentale, ritenendo:

– quanto alla prima, che l’appaltatore avesse l’onere verificare la conformità dell’opera che stava eseguendo alle norme urbanistico-edilizie applicabili; che tuttavia, in concreto, non si configurerasse alcun profilo di nullità, posto che l’unica difformità rilevata era dovuta al fatto che l’immobile edificato aveva un’estensione maggiore di quella consentita per la zona agricola, nella quale il bene ricadeva al tempo dell’edificazione; che l’intervento potesse comunque ritenersi legittimo avendo il Comune approvato il P.R.G. successivamente all’edificazione, rimuovendo in tal modo i vincoli preesistenti sulla zona; che la committente non potesse spiegare azione redibitoria, in assenza di vizi di carattere redibitorio ed essendo state le variazioni al progetto concordate tra committente e appaltatore; che il risarcimento del danno fosse stato giustamente escluso anche dal Tribunale – nonostante il C.T.U. avesse indicato, in termini astratti, una somma di Euro 100.000 – perchè lo stesso ausiliario aveva, in concreto, affermato l’intervenuto venir meno dei vincoli sul bene; che la committente avesse sempre continuato a fruire dell’immobile; che il bene non fosse mai stato confiscato in sede penale nè assoggettato ad ordine di demolizione a cura del comune; ed infine, che lo stesso fosse commerciabile, posto che l’appellante vi aveva iscritto ipoteca per Euro 300.000;

– quanto invece all’appello incidentale, la Corte territoriale riteneva ammissibile la domanda di riduzione del compenso svolta dalla committente in via subordinata e corretta la statuizione del Tribunale, che aveva ritenuto l’imperfetta esecuzione della prestazione professionale e ridotto di conseguenza quanto dovuto alla L..

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione C.M.G., affidandosi a sei motivi.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio.

Il ricorso è stato chiamato all’udienza camerale del 14.12.2018, all’esito della quale è stato rinviato a nuovo ruolo per la trattazione in pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 47 del 1985, art. 13 ora art. 36 T.U.E., in applicazione dell’art. 12 disp. gen. e con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 perchè la Corte di Appello avrebbe dovuto rilevare che il bene immobile realizzato dal B. su progetto della L., in quanto difforme dalle prescrizioni del P.R.G. del Comune di Scheggia vigente alla data di presentazione del progetto e di esecuzione delle opere, non era suscettibile di sanatoria ex post. Di conseguenza, ad avviso della ricorrente, la successiva adozione di un nuovo P.R.G. che autorizza la costruzione di cui è causa non sarebbe sufficiente ad assicurare la liceità del manufatto edificato dall’appaltatore in condizione di sostanziale assenza di idoneo titolo edilizio.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 47 del 1985, art. 13 ora art. 36 T.U.E., in applicazione dell’art. 12 disp. gen. e con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto del fatto che la concessione edilizia rilasciata dal Comune di Scheggia per l’intervento edilizio di cui si discute era nulla in quanto emessa sulla base di un certificato di destinazione urbanistica dell’area affetto da falsità ideologica.

Le due censure, che per la loro connessione possono essere esaminate congiuntamente, sono inammissibili sotto diversi ma concorrenti profili.

Va premesso che la stessa ricorrente, a pag. 24 del ricorso, afferma che la sua posizione in sede penale è stata oggetto di provvedimento di archiviazione e non deduce, in alcun punto dell’atto di impugnazione introduttivo del presente giudizio di legittimità, di aver mai subito alcun atto, da parte del Comune di Scheggia o di altra Autorità, comminatorio della nullità della concessione edilizia sulla cui base era stato originariamente realizzato l’intervento edilizio contestato nè alcuna ordinanza di sospensione dei lavori o di demolizione.

Peraltro la controversia non si fonda sulla legittimità o meno dell’atto amministrativo ampliativo della sfera della ricorrente, che avrebbe dovuto costituire oggetto di autonomo giudizio innanzi il Giudice Amministrativo, ma sulla diversa questione della validità di un contratto di appalto avente ad oggetto l’esecuzione di opere non debitamente autorizzate dalla P.A.

Per inciso, e per quanto possa qui rilevare, va anche precisato che la sentenza impugnata dà espressamente atto che l’atto concessorio non è mai stato impugnato (cfr. pag. 6).

Nè rileva, ai fini della decisione della causa, la circostanza che l’intervento edilizio, originariamente non consentito alla luce delle norme di P.R.G. vigenti all’epoca del rilascio della concessione edilizia e di esecuzione delle opere, sia poi de facto divenuto lecito per effetto di una modifica del P.R.G., successiva all’ultimazione dei lavori, che ha reso possibile, e quindi autorizzabile, ciò che originalmente non avrebbe dovuto essere autorizzato. Il punto centrale della controversia, infatti, è e rimane la validità del contratto concluso tra le parti, che evidentemente va riferita alla situazione di fatto e di diritto esistente in quel momento.

Nè è possibile configurare un interesse concreto all’impugnativa in capo alla ricorrente, posto che le due censure in esame, in quanto riferite alla legittimità del provvedimento a contenuto concessorio rilasciato ab origine dal Comune, contengono la deduzione di un pregiudizio del tutto eventuale e, di fatto, mai realizzatosi, proprio per effetto del pacifico intervento del nuovo P.R.G. del Comune di Scheggia (cfr. pag. 25 del ricorso).

Ed infine, con specifico riferimento al secondo motivo, va rilevato anche il suo difetto di specificità, posto che in esso la ricorrente fa valere una presunta falsità ideologica del certificato di destinazione urbanistica sulla cui base sarebbe stata rilasciata alla C. l’originaria concessione edilizia, senza tuttavia indicare da quale documento emergerebbe la dedotta falsità, nè riportare il contenuto del certificato contestato, nè – ancora – dare atto del momento del giudizio di merito in cui la specifica questione sarebbe stata proposta.

Per tutte le ponderazioni che precedono, va dichiarata l’inammissibilità delle prime due censure proposte dalla C..

Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c. in applicazione dell’art. 12 disp. gen. e in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 perchè la Corte di Appello avrebbe dovuto ravvisare la nullità del contratto di appalto di cui è causa, in quanto esso non era mai stato formalmente sottoscritto dalla committente, ma solo dalla direttrice dei lavori, con conseguente impossibilità di imputarne gli effetti alla prima.

Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1659 c.c. in applicazione dell’art. 12 disp. gen. e in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5 perchè il giudice di seconde cure non avrebbe considerato la circostanza che la D.I.A. in variante prot. 3203 del 23.8.1996 era stata sottoscritta soltanto dalla direttrice dei lavori e quindi non era imputabile alla committente.

Le due censure, che per la loro connessione meritano un esame congiunto, sono inammissibili per diverse ma concorrenti ragioni.

In primo luogo le due doglianze non sono sufficientemente specifiche, in quanto non riportano nè il contratto di appalto nè la D.I.A. in variante, nè indicano in quale momento del giudizio di merito la peculiare questione relativa alla mancanza, su detti documenti, della sottoscrizione della C. fosse stata dedotta.

In secondo luogo, le censure non si confrontano con il fatto che comunque la committente ha ricevuto l’opera e quindi profittato del risultato del contratto di appalto e della D.I.A. di cui si discute; di conseguenza, la stessa non può ragionevolmente protestare la sua estraneità a rapporti e documenti dei cui effetti ha in concreto beneficiato.

Infine, i due motivi in esame non colgono la ratio della decisione, poichè il punto nodale della questione non è l’imputabilità alla committente del contratto di appalto o della D.I.A. per carenza di sottoscrizione autografa su detti documenti (elemento, questo, di carattere soltanto formale e comunque superabile con la valorizzazione del fatto che la C. abbia comunque profittato del contesto), ma piuttosto il tema relativo alla validità di un contratto di appalto finalizzato alla realizzazione di un’opera non consentita dalle norme di P.R.G. vigenti nel momento di conclusione ed esecuzione del negozio.

Con il quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1667 e 1668 c.c. in applicazione dell’art. 12 disp. gen. e in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5 perchè la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che il manufatto non era suscettibile di sanatoria ex post e lo avrebbe erroneamente ritenuto commerciabile valorizzando la circostanza che su di esso fosse stata iscritta ipoteca; ad avviso della ricorrente, quest’ultimo fatto non dimostrerebbe affatto la libera commerciabilità del manufatto oggetto di causa.

Infine, con il sesto motivo la C. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1176,1667 e 1668 c.c. in applicazione dell’art. 12 disp. gen. e in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 perchè la Corte di Appello avrebbe dovuto ritenere l’appaltatore inadempiente per non aver verificato, prima di iniziare i lavori oggetto del contratto di appalto, che questi ultimi fossero leciti in base alle vigenti prescrizioni di P.G.R.

Le due censure, che per la loro connessione meritano un esame congiunto, sono fondate.

Ed invero è pacifico, nel caso di specie, che l’opera realizzata dal B. non fosse, all’epoca dell’esecuzione del contratto di appalto esistente tra le parti, conforme alle prescrizioni del P.R.G. all’epoca in vigore: tale circostanza, infatti, emerge sia dalla sentenza impugnata che dal ricorso.

Da ciò deriva la nullità del contratto di appalto, in applicazione del principio -che merita di essere ribadito – secondo cui “Il contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di un’opera senza la prescritta concessione edilizia è nullo per illiceità dell’oggetto e la nullità impedisce al contratto di produrre i suoi effetti sin dall’origine, senza che rilevi l’eventuale ignoranza delle parti circa il mancato rilascio della concessione, ignoranza comunque inescusabile, attesa la grave colpa di ciascun contraente, che avrebbe potuto verificare, con l’ordinaria diligenza, la reale situazione del bene dal punto di vista amministrativo” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20301 del 20/11/2012, Rv. 624247; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4015 del 21/02/2007, Rv. 595389 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21418 del 30/08/2018, Rv. 650037).

La circostanza che l’immobile sia stato successivamente oggetto di condono edilizio non è sufficiente a superare la predetta nullità, posto il concorrente principio – anch’esso da ribadire – secondo cui “Il contratto di appalto per la costruzione di un’opera senza la concessione edilizia è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., per illiceità dell’oggetto, sicchè non è suscettibile di convalida stante il disposto di cui all’art. 1423 c.c., nè tale nullità è sanabile retroattivamente in virtù di condono edilizio, onde l’appaltatore non può pretendere, in forza di quel contratto, il corrispettivo pattuito” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7961 del 20/04/2016, Rv. 639609; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13969 del 24/06/2011, Rv. 618451).

Ne deriva che la Corte territoriale ha erroneamente omesso di considerare il profilo della nullità del contratto di appalto oggetto della controversia.

La sentenza impugnata va di conseguenza cassata in relazione alle censure accolte e la causa va rinviata, anche per le spese del presente grado di legittimità, alla Corte di Appello di Perugia, in diversa composizione, la quale procederà al riesame della fattispecie avendo cura di applicare il principio posto da questa Corte, secondo cui “In tema di contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di immobili eseguiti senza rispettare la concessione edilizia, occorre distinguere le ipotesi di difformità totale e parziale. Nel primo caso, che si verifica ove l’edificio realizzato sia radicalmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetrie, l’opera è da equiparare a quella posta in essere in assenza di concessione, con conseguente nullità del detto contratto per illiceità dell’oggetto e violazione di norme imperative; nel secondo, invece, che ricorre quando la modifica concerne parti non essenziali del progetto, tale nullità non sussiste” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 30703 del 27/11/2018, Rv. 51755).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i primi quattro motivi e accoglie il quinto ed il sesto. Cassa la decisione impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Perugia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2019

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