Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2695 del 02/02/2017


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Cassazione civile, sez. III, 02/02/2017,  n. 2695

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4316/2014 proposto da:

P.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE

14 A/4, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE PAFUNDI, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARCO CASAVECCHIA,

GIULIETTA REDI giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE TORINO, in persona del Sindaco pro tempore On.

F.P.F.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI,

87, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO COLARIZI, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati DONATELLA SPINELLI,

ANTONIETTA MELIDORO giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

O.G., S.N., A.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1929/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

5/10/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;

udito l’Avvocato MERCO CASAVECCHIA;

udito l’Avvocato FABRIZIO MOZZILLO per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del quarto

motivo del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Comune di Torino convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, tra gli altri, P.F., O.G., S.N. e A.R., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni provocati a seguito di dedotti episodi di corruzione, posti in essere dai convenuti e coinvolgenti funzionari del predetto ente.

Per quanto rileva in questa sede, si costituirono, tra gli altri, P.F. e O.G., eccependo il primo la prescrizione ed entrambi l’infondatezza della domanda proposta nei loro confronti.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 4897/11, depositata il 15 luglio 2011, accolse le domande risarcitorie formulate dal Comune di Torino.

Avverso tale decisione proposero distinti gravami P.F. e O.G..

In entrambi i giudizi si costituì il Comune di Torino che chiese il rigetto delle proposte impugnazioni.

La Corte di appello di Torino, pronunciando sugli appelli riuniti proposti da P. e da O. nei confronti del Comune di Torino, di S.N. e di A.R., gli ultimi due appellati contumaci, escluso, dalla pronuncia di condanna dei convenuti in solido al rimborso delle spese processuali di primo grado – disposta nella sentenza appellata in favore del comune di Torino – il riferimento ad IVA e CPA come per legge, perchè non dovuti, rigettò entrambi gli appelli proposti, condannò P.F. e O.G., in solido tra loro, alle spese di quel grado in favore del Comune di Torino.

Avverso la sentenza della Corte di merito P.F. ha proposto ricorso per cassazione basato su quattro motivi e illustrato da memoria.

Ha resistito con controricorso il Comune di Torino.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, lamentando “violazione art. 360 c.p.c., in relazione agli artt. 444 e 445 c.p.p.; art. 319 c.p.; artt. 2730 e 2733 c.c., (sul valore della confessione)”, sostiene il ricorrente che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare i soli fatti ammessi dall’imputato (senza tener conto della qualificazione giuridica degli stessi contenuta nella decisione resa ai sensi dell’art. 444 c.p.p.) e il contesto in cui si erano svolti, posto che, come affermato dal giudice penale, “svariati imprenditori” effettuavano i pagamenti per essere “agevolati” nei pagamenti e nella stessa esecuzione delle opere affidate e cioè per far sì che i funzionari svolgessero le attività del loro ufficio.

Ad avviso del P., se la Corte avesse valutato il solo contenuto delle sue ammissioni, avrebbe dovuto concludere che, nella fattispecie, il reato commesso era quello di concussione e non di corruzione.

2. Il secondo motivo è così rubricato “Violazione art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 12 preleggi al codice civile (applicabile anche al diritto penale), art. 317 c.p.(reato di concussione) e 319 (reato di corruzione) nel testo previgente. Errata qualificazione giuridica del reato. Violazione art. 360 c.p.c., n. 5, vizio logico a carico della ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito per la qualificazione del reato di corruzione anzichè concussione”.

Il ricorrente deduce che la Corte di appello, pur avendo affermato di aver tenuto conto delle risultanze delle cause penali, sarebbe pervenuta a conclusioni non conformi ai fatti emersi dall’istruttoria penale ed avrebbe, conseguentemente, errato nell’individuare la disciplina giuridica applicabile ai fatti di causa. Ad avviso del ricorrente, la diffusa prassi dei pagamenti che coinvolgeva tutti gli imprenditori che, aggiudicatisi un appalto, dovevano confrontarsi coi funzionari incriminati per svolgere la propria attività senza subire vessazioni e, quindi, i pagamenti che venivano richiesti sia in modo esplicito che implicito servivano per far compiere ai funzionari atti del loro ufficio e non ad esso contrari. Assume il ricorrente che se la Corte territoriale avesse tenuto conto dei fatti emergenti dalla complessiva istruttoria penale avrebbe concluso nel senso che il reato commesso sarebbe quello di concussione e che nulla il ricorrente dovrebbe a titolo di risarcimento del danno, in quanto parte lesa.

3. I primi due motivi – i quali, essendo strettamente connessi, ben possono essere esaminati congiuntamente – sono infondati.

Con i detti mezzi la parte ricorrente ripropone questioni già esaminate dalla Corte di merito e da questa disattese con argomentazioni del tutto condivisibili e immuni dai lamentati vizi di violazione di legge e di motivazione, sulla base delle risultanze processuali, anche emergenti dall’istruttoria penale.

Si evidenzia che correttamente e motivatamente la Corte di merito, pur pervenendo alla medesima qualificazione giuridica del reato di cui si discute in causa operata prima dal P.M., con la richiesta di rinvio a giudizio, e poi dal G.U.P. nella sentenza ex art. 444 c.p.c., ha però operato un’autonoma valutazione delle predette risultanze processuali, osservandosi pure che l’applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., è stata effettuata sulla base dell’ipotesi di reato di corruzione e che la richiesta di patteggiamento dell’imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato (Cass., sez. un., 31/07/2006, n. 17289). Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, la sentenza penale di applicazione della pena ai sensi degli artt. 444 e 445 c.p.p. – pur non implicando un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile – contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo senza adeguatamente motivare (Cass. 18/04/2013, n. 9456; Cass., ord., 6/12/2011, n. 26263; Cass. 19/11/2007, n. 23906; Cass., sez. un, 31/07/2006, n. 17289; v. anche di recente, Cass. 29/02/2016, n. 3980, secondo cui la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque una ammissione di colpevolezza, sicchè esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione).

A tanto va aggiunto che effettuare dazioni di denaro per “essere agevolati” nei pagamenti e nella stessa esecuzione delle opere affidate non significa certo, come sembra ritenere il ricorrente, effettuare tali dazioni “per far sì che i funzionari volgessero le attività del loro ufficio” (v ricorso p. 14), atteso che dette attività quanto meno venivano poste in essere, nel caso di specie, in violazione dei principi di imparzialità e correttezza cui deve conformarsi l’attività dei funzionari pubblici.

Pertinente risulta poi, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, il richiamo della Corte territoriale al principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di distinzione tra i reati di corruzione e concussione, non è ravvisabile l’ipotesi della concussione cosiddetta “ambientale” qualora il privato si inserisca in un sistema nel quale il mercanteggiamento dei pubblici poteri e la pratica della “tangente” sia costante, atteso che in tale situazione viene a mancare completamente lo stato di soggezione del privato, che tende ad assicurarsi vantaggi illeciti, approfittando dei meccanismi criminosi e divenendo anch’egli protagonista del sistema (Cass. pen., 12/04/2011, dep. 26/04/2011, n. 16335; principio ribadito da Cass. pen. 11/01/2011 dep. 28/06/2011, n. 25694).

Come evidenziato dalla Corte di merito, peraltro, il P. ha seguito uno schema di comportamento ormai radicato da più generazioni nell’impresa da lui gestita, avendo il medesimo fatto riferimento a “una consuetudine”, ad “una situazione ereditata” dal padre e dal nonno ed affermato che “il pagamento al fine di ingraziarsi i funzionari comunali e ottenere una serie di utilità… data da moltissimo tempo”, il che (denota la sussistenza di un rapporto paritetico e non vessatorio tra i dipendenti comunali e l’imprenditore ora ricorrente.

3. Con il terzo motivo si lamenta “violazione art. 360, n. 3 in relazione agli artt. 10, 2043 e 2059 c.c., (danno all’immagine)”.

Deduce il ricorrente che la Corte di appello lo avrebbe condannato “per il profilo dell’esistenza e l’entità del danno all’immagine subito dal Comune” nella misura di Euro 85.000,00. Tale sentenza, ad avviso del P., non sarebbe corretta in quanto non sarebbe liquidabile un danno all’immagine nei confronti di soggetto che non sia un dipendente dell’ente, in quanto il soggetto privato compirebbe un reato che provoca un danno all’immagine di sè stesso e non dell’ente di cui sarebbero responsabili solo i suoi funzionari.

3.1. Il motivo è infondato.

Correttamente la Corte di merito ha condannato il ricorrente al risarcimento del danno all’immagine in favore dell’ente pubblico, evidenziandosi che non può condividersi la tesi del ricorrente che esclude la possibilità di una tale condanna a carico di soggetto privo della qualifica di pubblico dipendente e circoscrive tale voce di danno ai soli casi di responsabilità contrattuale (v. in motivazione anche Cass. 16 febbraio 2010, n. 3672).

4. Con il quarto motivo si lamenta “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1227/1 e 2056 cc con riferimento all’art. 41 c.p.”.

Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata dovrebbe essere comunque annullata per violazione delle richiamate norme e, conseguentemente, il Comune dovrebbe essere considerato corresponsabile del danno da esso subito in quanto l’art. 1227 c.c. si applica anche alla Pubblica Amministrazione. Alla luce di quanto emerso dall’intera istruttoria penale emergerebbe, secondo il ricorrente, che i funzionari avrebbero preteso il pagamento di somme di denaro con le modalità e per le ragioni illustrate in ricorso per contestare la qualificazione giuridica del reato individuata dalla Corte territoriale. Ad avviso del P., attivando i controlli interni previsti dalla normativa, l’Amministrazione avrebbe potuto avvedersi del comportamento dei propri funzionari ed evitare o comunque ridurre il danno di cui dovrebbe essere chiamata a rispondere e, pertanto, anche il Comune sarebbe responsabile ex art. 1227 c.c..

4.1. Il motivo è infondato.

Non è configurabile nella specie l’ipotesi del concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, atteso che, dagli stessi estratti dei verbali riportati in ricorso, non vi è prova della consapevolezza del Comune degli accordi corruttivi tra il convenuto e i dipendenti comunali sicchè non può al predetto ente imputarsi un omesso controllo con riferimento ai fatti di cui si discute in causa, tenuto conto anche delle modalità degli stessi.

5. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

6. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza, tra le parti costituite, mentre non vi è luogo a provvedere per dette spese nei confronti degli intimati, non avendo essi svolto attività difensiva in questa sede.

7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori, come per legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 5 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2017

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