Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26949 del 26/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 26/11/2020, (ud. 01/10/2020, dep. 26/11/2020), n.26949

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

O sul ricorso iscritto al n. 10742/2013 R.G. proposto da

F.I., rappresentata e difesa dall’Avv. Bonfiglio Raffaele e

dall’Avv. Fugazzola Francesco, elettivamente domiciliata presso lo

studio del primo, in Roma, Corso Vittorio Emanuele II, giusta

procura speciale a margine del ricorso

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro-tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12 è domiciliata

s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia, sezione distaccata di Brescia, n. 239/63/2012 depositata

il 6 novembre 2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 1 ottobre 2020

dal Consigliere D’Orazio Luigi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. De Matteis Stanislao, che ha concluso chiedendo il

rigetto del ricorso

udito l’Avv. Bonfiglio Raffaele per la ricorrente e l’Avv. Fiandaca

Lucrezia per l’Avvocatura Generale dello Stato

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria provinciale di Bergamo rigettava il ricorso presentato da F.I., quale socia della Cecotex, società a ristretta partecipazione, per l’anno 1991, contro l’avviso di accertamento con cui era stato riconosciuto un maggiore reddito di lire 2.280.434.000, che era stato, poi, distribuito tra i soci indipendentemente dalla approvazione del bilancio.

2. La Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, n. 11/64/2006 del 14-2-2006, accoglieva l’appello della contribuente, in quanto l’Ufficio non aveva ottemperato ad una ordinanza di produzione di copia conforme dell’accertamento nè aveva dimostrato che l’accertamento nei confronti della società era divenuto definitivo.

3. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 9907 del 5-5-2011, accogliendo il ricorso per cassazione della Agenzia delle entrate, cassava la sentenza di appello con rinvio, rilevando che “non risultava contestata in causa nè la ristretta base azionaria” della Cecotex s.r.l., “nè il maggior reddito a carico della società”, mentre “unico oggetto di contestazione era il fatto che fosse stata effettivamente deliberata la distribuzione degli utili”. Aggiungeva che la sentenza non aveva tenuto conto della documentazione depositata dall’Ufficio, decidendo la controversia con l’affermazione della “mancata prova dell’accertamento a carico della società”.

4.11 giudice del rinvio, con sentenza n. 239/63/2012, depositata il 6-11-2012, rigettava l’appello della contribuente, sia perchè era inammissibile la deduzione nuova in ordine alla sua estraneità alla gestione societaria, sia perchè non vi era contestazione nè sulla esistenza della ristretta partecipazione societaria, nè sul maggior reddito accertato in capo alla società, mentre, trattandosi di società con due soli soci, si presumeva la avvenuta distribuzione degli utili extracontabili, senza la necessità di una previa delibera, proprio perchè erano utili che non erano stati dichiarati.

5. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la contribuente.

6. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

7. Il Procuratore Generale deposita memoria contenente le conclusioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di impugnazione la contribuente deduce la “violazione art. 1362 cc., art. 384 c.p.c., art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice di appello è incorso in errore laddove ha ritenuto non contestati sia la ristretta base partecipativa sia il maggior reddito accertato in capo alla società. Da tale affermazione è scaturito che le due circostanze sarebbero state provate in giudizio dalla Agenzia delle entrate. Tale conclusioni non sarebbe corretta ai sensi dell’art. 1362 c.c., in quanto il giudice del rinvio si sarebbe dovuto attenere al principio di diritto. Il giudice del rinvio non avrebbe potuto, a fronte della “non contestazione” di determinati fatti, far conseguire a tale affermazione “il venir meno della necessità di accertare che fosse stata comunque fornita un’idonea prova, da parte dell’AgenZia delle entrate (che ne aveva l’onere) della ristretta base azionaria e dell’accertamento – con provvedimento inoppugnabile – del maggior reddito a carico della società”. Peraltro, il principio di non contestazione non potrebbe essere applicato alla controversia in oggetto in quanto instaurata prima del 30-4-1995. La mera mancata contestazione, affermata dalla Cassazione, non ha quindi esentato il giudice del rinvio dalla valutazione sulla sussistenza della relativa prova sulle suddette circostanze, il cui onere probatorio era a carico della Agenzia delle entrate. Anzi, la Cassazione ha indicato l’esistenza di documentazione presente in atti per risolvere la controversia.

1.1. Tale motivo è inammissibile.

1.2. Invero, deve premettersi che costituisce principio consolidato (Cass., n. 9156 del 2019; Cass., n. 5137 del 2019) che la riassunzione della causa dinanzi al giudice di rinvio instauri un processo “chiuso”, nel quale è preclusa alle parti ogni possibilità di proporre nuove domande, eccezioni, nonchè conclusioni diverse, salvo che queste, intese nell’ampio senso di qualsiasi attività assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della Cassazione (Cass., n. 25244 del 2013).

Conseguentemente, nel giudizio di rinvio non possono essere proposti dalle parti, nè presi in esame dal giudice, motivi di impugnazione diversi da quelli che erano stati formulati nel giudizio di appello conclusosi con la sentenza cassata e che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello stesso gravame, e dall’altro, la formazione del giudicato interno (Cass., n. 13719 del 2006; Cass., n. 13006 del 2003).

Invero, la riassunzione davanti al giudice di rinvio si configura, dunque, non come un atto di impugnazione, ma come attività di impulso processuale volta alla prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata (Cass., n. 25244 del 1013; Cass. n. 4018 del 2006).

1.3. Per questa Corte (Cass., sez. 3, 14 gennaio 2020, n. 448; Cass., sez. L 24 ottobre 2019, n. 27337), poi, i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri -fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas iudicandi”, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonchè la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità.

Si è affermato che il vincolo che la sentenza di cassazione determina per il giudice di rinvio consegue al fatto che la legge ha ritenuto conchiusa una fase del processo e immutabilmente fissato il punto di diritto deciso, con effetto limitato alla causa (Corte Cost., 2 aprile 1970, n. 50; Corte Cost., 17 novembre 2000, n. 501).,

1.4. Deve aggiungersi che il giudice di rinvio, al fine di individuare il principio di diritto al quale deve uniformarsi, deve ricorrere ai criteri interpretativi codicistici, pur dovendo tali criteri essere calibrati in ragione della natura dell’atto da interpretare. Ne consegue che il ricorrente che denunzi una errata interpretazione del principio di diritto pronunziato dalla sentenza di cassazione non può genericamente richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e seg. c.p.c., ma deve specificare i “singoli canoni ermeneutici” in concreto violati in riferimento alle parti della motivazione, che della sentenza impugnata sono state censurate, nonchè indicare le forme in cui si è manifestata la violazione denunziata, altrimenti risolvendosi la censura nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella fatta propria dal giudice di rinvio. In ogni caso, il ricorrente deve, a dimostrazione della fondatezza della sua domanda, riportare in ricorso il principio di diritto e le parti motivazionali volte ad integrarne e chiarirne la portata, stante la regola della autosufficienza del ricorso in cassazione, che impone alla parte che denunzia la mancata (o non corretta) valutazione di un dato processuale l’assolvimento dell’onere di indicare, mediante l’integrale trascrizione, ove occorre, del suddetto dato che asserisce, appunto, come non valutato (Cass., sez L., 25 marzo 2005, n. 6462; Cass., 25 maggio 2005 n. 10979; Cass., sez. 1, 19 febbraio 2018, n. 3955).

1.5. Nella specie, la ricorrente si è limitata a richiamare il principio generale di cui all’art. 1362 c.c., senza però indicare i singoli parametri di ermeneutica contrattuale che sarebbero stati in concreto violati dal giudice del rinvio nella interpretazione del precedente dictum di questa Corte.

La ricorrente ha fondato la sua doglianza soprattutto sull’errore in cui sarebbe incorsa la Corte di cassazione nell’applicare il principio di non contestazione ad un procedimento anteriore all’entrata in vigore della riforma di cui alla L. n. 353 del 1990 quindi prima del 30 aprile 1995, mentre il ricorso della contribuente era stato presentato in data 18.10.1994.

1.6. Peraltro, il motivo è anche infondato nel merito.

Invero, scorrendo la motivazione della sentenza della Cassazione “rescindente” (Cass., 5 maggio 2011, n. 9907) si nota che il motivo di ricorso per cassazione dell’Ufficio era stato proposto sia per violazione di legge che per vizio di motivazione, in relazione alla decisione del giudice di appello che aveva ritenuto che l’Agenzia era stata inottemperante all’ordine giudiziale di deposito dei documenti, e segnatamente dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società e della “dichiarazione di definitività” dello stesso.

La Cassazione “rescindente” in motivazione, poi, chiarisce in modo definitivo che era del tutto pacifico tra le parti che si era in presenza di una società a ristretta base partecipativa, composta peraltro da soli due soci, e che era stato accertato un maggiore reddito nei confronti della società (“come emerge dalla sentenza impugnata, non risultava contestata in causa nè la ristretta base azionaria, nè il maggiore reddito accertato a carico della società”). Inoltre, a chiarimento della decisione, si è aggiunto che “unico oggetto di contestazione era il fatto che fosse stata effettivamente deliberata la distribuzione degli utili”. 1.7.In base alla chiara enunciazione dell’argomentare della Corte, si rileva che l’unica questione ancora controversa atteneva alla eventuale avvenuta deliberazione della distribuzione degli utili in favore della socia.

1.8. L’ultima parte della motivazione non aggiunge nulla a quanto affermato in precedenza, ma rappresenta solo la sottolineatura dell’errore commesso dal giudice di appello, che non si era premurato di esaminare i documenti in atti, che già chiarivano le circostanze relative alla sussistenza della compagine ristretta e della definitività dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società (“Di tanto la sentenza non tiene conto, come non tiene conto della documentazione che pur afferma essere stata depositata dall’Ufficio, risolvendo la decisione nell’apodittica affermazione della mancata prova dell’accertamento a carico della società”).

1.8. Deve aggiungersi che per questa Corte, in ipotesi di annullamento con rinvio per violazione di norme di diritto, la pronuncia della Corte di cassazione vincola al principio affermato e ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla “regola” giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza, in contrasto col principio di intangibilità (Cass., sez. 3, 22 agosto 2918, n. 20887; Cass., sez. 5, 24 luglio 2018, n. 19594; Cass., 16 ottobre 2015, n. 20981; Cass., 23 luglio 2010, n. 17353).

Non v’è dubbio che la Cassazione “rescindente”, prima di segnalare la necessità dell’unico esame volto a verificare la necessità e la sussistenza o meno della delibera di distribuzione degli utili “extracontabili” alla socia, ha deciso che si era in presenza di una società a ristretta base partecipativa e che risultava dagli atti non solo la presenza dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società, ma anche la definitività dello stesso. Pertanto, su entrambe le questioni si è formato il “giudicato implicito interno”.

1.9. Nè vale evidenziare l’errore in cui sarebbe incorsa la Cassazione “rescindente” laddove ha applicato il principio di non contestazione ad un procedimento che era iniziato prima del 30 aprile 2005, quindi prima dell’entrata in vigore della riforma di cui alla L. n. 353 del 1990, essendo stato depositato il ricorso il 18-10-1994.

2. In realtà, non v’è stato alcun errore della Cassazione sul punto e neppure del giudice di appello, in quanto il principio di non contestazione è di matrice giurisprudenziale ed è stato oggetto di rimodulazioni nel corso degli anni, che ne hanno precisato il perimetro.

2.1. Invero, con l’applicazione del principio di “non contestazione dei fatti”, attore e convenuto possono semplificare l’iter procedimentale per giungere con speditezza alla decisione della controversia, riducendo in modo sensibile l’ambito del thema probandum. Si è ritenuto, proprio in ambito tributario, che il corollario del principio di non contestazione è dato dalla non necessità di prova dei fatti non contestati, in quanto imposti al giudice come fatti pacifici (Cass., sez. 5, 6 febbraio 2015, n. 2196).

L’esonero dall’onere della prova è il riflesso del principio dispositivo, sicchè il giudice deve attenersi al fatto incontroverso senza potere disporre iniziative istruttorie ufficiose.

2.2. Una rilevante novità è stata introdotta dalla L. n. 69 del 2009 in ordine al principio di non contestazione nel processo ordinario di cognizione attraverso la modifica dell’art. 115 c.p.c., che ha in qualche misura recepito l’orientamento del giudice di legittimità.

Infatti, in base al principio della non contestazione, introdotto dalla giurisprudenza per consentire una trattazione più snella ed accelerata del procedimento, la parte che ha l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda, ove la controparte si limiti ad una generica impugnativa, senza prendere posizione su ogni singolo fatto allegato dall’attore, è liberata dall’onere probatorio sulla sussistenza di tali fatti che si presumono pacifici.

2.3. Inizialmente (Cass., 20 ottobre 2000, n. 13904), si riteneva che i fatti allegati potevano essere considerati come pacifici, esonerando la parte dalla necessità di fornire la prova soltanto quando l’altra parte li aveva “esplicitamente ammessi”, o aveva impostato la propria difesa su “argomenti logicamente incompatibili” con il disconoscimento dei medesimi.

2.4. Dopo varie oscillazioni sul tema, questa Corte, a sezioni unite (Cass., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761), ha stabilito che l’art. 167 c.p.c., comma 1 e art. 416 c.p.c., comma 3, imponendo al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti costitutivi posti dall’attore a fondamento della domanda, fanno della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell’esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti

2.5. L’irreversibilità della non contestazione è stata ancorata da questa Corte, nel processo ordinario, alle attività di cui all’art. 183 c.p.c. (Cass., sez 6-2, 2 dicembre 2019, n. 31402).

2.6. Questa Corte, poi, ha esportato l’istituto della non contestazione in materia tributaria. Si è detto, infatti, che l’onere della tempestiva contestazione può riguardare, non solo il convenuto, ma anche l’attore, ed avere a fondamento, non solo i fatti su cui la domanda è fondata, ma anche fatti rilevanti per il processo, così emancipando tale principio dalla specificità del rito del lavoro, dalla posizione del convenuto e, soprattutto, dalla previsione degli artt. 416 e 417 c.p.c. (Cass. Civ., 24 gennaio 2007, n. 1540; Cass., sez. 5, 6 febbraio 2015, n. 2196). Il principio di non contestazione impone, allora, che ogni volta che sia posto ad una delle parti l’onere di allegazione (e prova), l’altra parte ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio, senza che rilevi la natura del fatto. Il principio di non contestazione, divenuto principio generale che informa il sistema processuale civile, trova fondamento, allora, non più soltanto sul tenore degli artt. 167 e 416 c.p.c., ma sul carattere dispositivo del processo – comportante una dialettica a catena -, sulla generale organizzazione per preclusioni successive – che in misura minore o maggiore caratterizza ogni sistema processuale -, sul dovere di lealtà e probità posto a carico delle parti dall’art. 88 c.p.c. – che impone ad entrambe le parti di collaborare fin dalle prime battute processuali a circoscrivere la materia realmente controversa, senza atteggiamenti volutamente defatiganti, ostruzionistici o anche solo negligenti – ed infine, soprattutto, sul generale principio di economia che deve sempre informare il processo anche ai sensi dell’art. 111 Cost.. L’art. 111 Cost. rappresenta un principio cardine del sistema processuale, ossia quello della ragionevole durata del processo ed impone una lettura costituzionalmente orientata delle norme processuali valevoli per ogni tipo di processo e di giudizio. Le parti, coadiuvate dalla difesa tecnica, devono, quindi, collaborare a circoscrivere la materia del contendere ai fatti effettivamente contestati. Inoltre, le norma del procedimento tributario fanno espresso rinvio, per quanto in esse non previsto, alle norme del codice di procedura civile in quanto compatibili.

Nè assumono alcun rilievo, in contrario, le peculiarità del processo tributario, quali il carattere eminentemente documentale dell’istruttoria e l’inapplicabilità della disciplina dell’equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo (Cass.Civ., sez. 5, 24 gennaio 2007, n. 1540; Cass., sez. 5, 1 ottobre 2018, n. 23710; più recentemente Cass.Civ., sez. 5, 18 maggio 2018, n. 12287, che lo limita,, attesa (‘indisponibilità dei diritti controversi, esclusivamente ai profili probatori del fatto non contestato e sempre che il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l’esistenza; in tali termini anche Cass., sez. 5, 6 febbraio 2015, n. 2196).

Si è anche affermato che nel processo tributario, nell’ipotesi di ricorso contro l’avviso di accertamento, il principio di non contestazione non implica a carico dell’Amministrazione finanziaria, a fronte dei motivi di impugnazione proposti dal contribuente, un onere di allegazione ulteriore rispetto a quanto contestato mediante l’atto impositivo, in quanto detto atto costituisce nel suo complesso, nei limiti delle censure del ricorrente, l’oggetto del giudizio (Cass., sez. 5, 23 luglio 2019, n. 19806; Cass., sez. 5, 13 marzo 2019, n. 7127).

3. Questa Corte, poi, ha affermato che il principio di non contestazione non è applicabile ai giudizi iniziati in primo grado anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 353 del 1990, applicandosi invece la precedente disciplina (Cass., 16 maggio 2007, n. 11301; Cass., 30 ottobre 2007, n. 22859; Cass. 8 febbraio 2008 n~ 3127), con la precisazione, però, che il fatto che la controparte espressamente consideri la circostanza come verificata oppure imposti una linea difensiva incompatibile con la relativa insussistenza, può essere dal giudice utilizzato come argomento di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c..

3.1. Tuttavia la giurisprudenza di questa Corte più recente è dell’avviso che il principio di non contestazione, pur essendo stato codificato con la modifica dell’art. 115 c.p.vc., introdotta dalla L. n. 69 del 2009, è applicabile anche ai giudizi anteriori alla novella, avendo questa recepito il previgente principio giurisprudenziale in forza del quale la non contestazione determina effetti vincolanti per il giudice, che deve ritenere sussistenti i fatti non contestati, astenendosi da qualsivoglia controllo probatorio in merito agli stessi (Cass., sez. 3, 27 febbraio 2020, n. 5429).

La sentenza della Cassazione citata dalla ricorrente a pagina 6 del ricorso (Cass., 16 giugno 2006, n. 13958), è stata superata da successive pronunce di questa Corte (Cass., sez. 3, 25 maggio 2007, n. 12231; Cass., sez. 2, 20 novembre 2008, n. 27596).

3.2. Peraltro, per questa Corte i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione, la quale non può essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio, neppure in caso di violazione di norme di diritto sostanziale o processuale o per errore del principio di diritto affermato, la cui giuridica correttezza non è sindacabile dal giudice del rinvio neanche alla stregua di arresti giurisprudenziali successivi della corte di legittimità (Cass., sez. 2, 29 ottobre 2018, n. 27343).

Va, tra l’altro, aggiunto che, trattandosi di società con due soli soci, era lampante che si trattasse di società a ristretta base partecipativa, anche in assenza di rapporti di parentela.

La definitività dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società, poi, si ricavava dalla documentazione in atti, a prescindere dall’utilizzo del principio di non contestazione.

4. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “nullità della sentenza e del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4”, in quanto il giudice di rinvio ha erroneamente applicato il decisum della sentenza n. 9907/2011 di questa Corte. Invero, secondo la ricorrente il giudice del rinvio avrebbe dovuto accertare in concreto (“effettivamente”) se la distribuzione degli utili extracontabili fosse stata o meno deliberata e se fosse avvenuta l’effettiva percezione di utili da parte della contribuente. Il giudice di rinvio, invece, non ha accertato la sussistenza di tale delibera, ma si è limitato a ritenere operante la ulteriore presunzione che conseguirebbe automaticamente dall’esiguità del numero dei soci.

4.1. Tale motivo è infondato.

Invero, la sentenza della Cassazione n. 9907 del 2011 ha soltanto affermato che “unico oggetto di contestazione era il fatto che fosse stata effettivamente deliberata la distribuzione degli utili”; ciò però non vuol dire che la Corte di Cassazione abbia ritenuto doveroso per il giudice di rinvio accertare se vi fosse stata o meno la delibera di distribuzione degli utili “extracontabili”, ma soltanto che, a fronte di fatti ritenuti pacifici (la sussistenza della società a ristretta partecipazione e la definitività dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società), occorreva ancora deliberare se la soci avesse o meno percepito gli utili extracontabili.

Il giudice del rinvio, dinanzi a questo dictum della Cassazione ha condivisibilmente affermato che, trattandosi di utili extracontabili, e quindi non dichiarati, non può certo essere deliberata la distribuzione degli stessi tra i soci (cfr. sentenza del giudice del rinvio “nel caso di specie, si è in presenza di due soli soci, è presunzione fondata quella di distribuzione degli utili, senza necessità di previa delibera”).

Infatti, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, è ammessa la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extracontabili, che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria (Cass., 1947/2019).

Nella specie, la prova contraria non è stata in alcun modo fornita dalla socia, a fronte della definitività dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società per il recupero di ricavi non contabilizzati

Del resto, la pronuncia della Cassazione per error in iudicando, con enunciazione del principio di diritto cui il giudice di rinvio deve uniformarsi, non vincola però tale giudice in ordine alle circostanze che siano meramente ipotizzate in via narrativa da detta enunciazione, atteso che una preclusione al riesame si verifica solo con riguardo ai fatti che quel principio presupponga come pacifici o già accertati in sede di merito (Cass., sez. un., 1779/2013).

Nella specie la con contestazione è stata accertata solo in relazione alla sussistenza di una società a ristretta base partecipativa ed alla definitività dell’avviso di accertamento nei confronti della società, mentre quanto alla distribuzione degli utili extracontabili la questione, pure accennata in motivazione, è stata demandata al giudice di rinvio, che ha adempiuto alla nuova verifica dei fatti ed all’applicazione delle norme di diritto che li governavano.

5. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “nullità della sentenza e del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4”, in quanto il giudice del rinvio ritenendo presunta la distribuzione degli utili extracontabili non si è uniformato al dictum della Cassazione, che aveva invece richiesto l’esame della “documentazione…depositata dall’ufficio”. Il giudice del rinvio non ha esaminato tale documentazione, ma ha applicato semplicemente la presunzione di avvenuta distribuzione degli utili extracontabili tra i soci di società a ristretta base partecipativa.

5.1. Tale motivo è infondato.

Invero, la Cassazione “rescindente”, nella parte finale della motivazione, ha soltanto evidenziato che il giudice di appello, nell’accogliere il gravame proposto dalla contribuente, non aveva tenuto conto della documentazione in atti “risolvendo la decisione nell’apodittica affermazione della mancata prova dell’accertamento a carico della società”. Questa parte di motivazione non attiene in alcun modo alla distribuzione degli utili extracontabili della società ai soci.

6. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, per il principio di soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro10.200,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 1, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 1 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2020

 

 

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