Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26949 del 15/12/2011

Cassazione civile sez. VI, 15/12/2011, (ud. 11/11/2011, dep. 15/12/2011), n.26949

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE SPA, in persona del Presidente del Consiglio di

Amministrazione e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio

dell’avvocato FIORILLO Luigi, che la rappresenta e difende giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.A.R. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE CARSO 23, presso lo studio dell’avvocato DAMIZIA MARIA

ROSARIA, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 267/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA del 15/

01/09, depositata il 15/10/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’11/11/2011 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato Maria Rosaria Damizia difensore della

controricorrente che si riporta agli scritti insistendo per il

rigetto del ricorso;

è presente il P.G. in persona del Dott. IGNAZIO PATRONE che nulla

osserva.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

La causa è stata chiamata alla adunanza in camera di consiglio del 7 aprile 2011 ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base di una relazione redatta a norma dell’art. 380 c.p.c., così riassunta:

Con ricorso notificato in data 13-14 ottobre 2010, la s.p.a. Poste Italiane ha chiesto, con due motivi, la cassazione della sentenza depositata il 15 ottobre 2009, con la quale la Corte d’appello di Roma, riformando la decisione di primo grado, aveva dichiarato nullo il termine apposto al contratto di lavoro tra A.A.R. e la società, decorrente dal 16 ottobre 1997 al 31 gennaio 1998 e motivato, alla stregua di quanto previsto dall’art. 8 del C.C.N.L. del 1994, come integrato dall’accordo nazionale del 25 settembre 1997, per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

In proposito, la Corte territoriale aveva ritenuto che anche la causale indicata fosse generica, dovendo specificare in concreto quali esigenze di carattere eccezionale giustificassero l’assunzione della A. in quella determinata posizione di lavoro e per quel limitato periodo, circostanze di fatto che poi la società avrebbe dovuto provare in giudizio.

I due motivi di ricorso attengono alla violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1374, 2697, 1427, 1431 c.c. e art. 100 c.p.c., per non avere la Corte territoriale rilevato che il rapporto di lavoro tra le parti doveva considerarsi risolto tacitamente per mutuo consenso; e alla violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 per avere la Corte territoriale accolto la domanda in quanto avrebbe ritenuto che la causale indicata nel contratto di lavoro e prevista dai contraenti collettivi alla stregua della L. n. 56 del 1987, art. 23 aveva una efficacia limitata nel tempo, poteva cioè essere utilizzata solo per un periodo limitato, che nel caso di specie sarebbe stato ormai superato.

Resiste alle domande la lavoratrice con rituale controricorso.

Il procedimento è regolato dall’art. 360 c.p.c. e segg. con le modifiche e integrazioni successive, in particolare quelle apportate dalla L. 18 giugno 2009, n. 69.

Il ricorso è stato ritenuto dal relatore manifestamente infondato nel primo motivo e manifestamente fondato nel secondo.

Quanto al primo motivo, va infatti ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio aderisce, è suscettibile di essere sussunto nella fattispecie legale di cui all’art. 1372 c.c., comma 1, il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto lavorativo a termine in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano oggettivo del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volontà psicologica dei contraenti, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico; e ciò con particolare riferimento alla materia lavoristica ove operano, nell’anzidetta prospettiva, principi di settore che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione (cfr., ades., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526).

In proposito, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di voler porre fine al rapporto grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione dello stesso per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403).

E’ poi consolidato l’orientamento secondo cui il relativo giudizio, sulla configurabilità o meno, in concreto, di un tale accordo per facta concludentia, viene devoluto al giudice di merito, la cui valutazione, se congruamente motivata, si sottrae a censure in sede di controllo di legittimità della decisione (cfr., diffusamente, tra le altre, le sentenze citate).

Ciò posto in via di principio, si rileva che la Corte territoriale, dichiarando che la mera inerzia della lavoratrice non poteva essere interpretata da sola come fatto estintivo del rapporto, ha fatto corretta applicazione di tali principi al caso in esame, facendo riferimento proprio a valutazioni di tipicità sociale con riguardo alla semplice inerzia della A. nella situazione descritta, in cui il datore di lavoro non aveva dedotto alcuna circostanza significativa dell’assunto (e tenuto evidentemente conto delle circostanze notorie rappresentate dal tempo necessario a valutare l’eventuale illegittimità del termine e quindi rivolgersi al sindacato e/o all’avvocato, dalla necessità per quest’ultimo di impostare la causa e provvedere al tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. nonchè della altrettanto notoria circostanza relativa all’affidamento che il lavoratore “precario” normalmente fa sulla prospettiva di futuri contratti a termine – soprattutto nei riguardi di una società, come le Poste, che di tale tipologia contrattuale faceva al tempo ampio uso – e al timore di pregiudicare tale esito con l’iniziativa giudiziaria).

Una tale valutazione, proprio perchè ragionevolmente ancorata a parametri di tipicità sociale, non appare censurabile in questa sede di legittimità.

Con riferimento al secondo motivo di ricorso, il relatore lo ha ritenuto manifestamente fondato sulla base di quanto esposto nel ricorso e a fronte di una certa confusione, tra lo stesso, la sentenza e i precedenti atti difensivi, in ordine alla data precisa del contratto individuale e alla sua durata, che poteva indurre in errore relativamente alla reale materia del contendere.

Dopo le rituali comunicazione e notifica della suddetta relazione e in sede di adunanza in camera di consiglio, il collegio ha viceversa rilevato, anche alla luce della difesa della A., che mentre la sentenza impugnata aveva accolto la domanda sulla considerazione della genericità della causale utilizzata nel contratto a termine, come sopra riferito, il secondo motivo di ricorso rivolge le proprie censure ad argomenti posti a fondamento dell’accoglimento della domanda diversi da quelli reali, vale a dire all’assunto che la causale utilizzata nel caso di specie e individuata in sede di contrattazione collettiva a norma della L. n. 56 del 1987, art. 23 avesse, per legge (ciò che non è) e/o per volontà dei contraenti, una efficacia limitata nel tempo e che questa efficacia fosse ormai esaurita.

A tale rilievo consegue l’inammissibilità del secondo motivo di ricorso, in quanto rivolto ad un contenuto della sentenza impugnata diverso da quello reale.

Concludendo, il ricorso va pertanto respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 30,00 per esborsi ed Euro 2.000,00, oltre accessori, per onorari.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2011

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