Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26947 del 26/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 26/11/2020, (ud. 01/10/2020, dep. 26/11/2020), n.26947

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 10180/2013 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro-tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12 è domiciliata

s.p.a., s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore

– ricorrente –

contro

L.D. e A.I., rappresentati e difesi dall’Avv.

Senaldi Paolo e dall’Avv. Rufini Alessandro, elettivamente

domiciliati presso lo studio del secondo in Roma, Viale Carso n. 51,

giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente-

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia, n. 23/33/2012 depositata il 7 marzo 2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 1 ottobre 2020

dal Consigliere D’Orazio Luigi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. De Matteis Stanislao, che ha concluso chiedendo il

rigetto del ricorso

udito l’Avv. Fiandaca Lucrezia per l’Avvocatura Generale dello Stato

e l’Avv. Ruffini Alessandro per i ricorrenti.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Varese n. 4/2010, che aveva accolto i ricorsi riuniti presentati dai contribuenti A.I. e L.D. contro gli avvisi di accertamento emessi nei loro confronti per l’anno 2001, per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 37, comma 3, per avere donato, in data 19-10-2000, ai propri figli L.A. e L.R., la metà per ciascuno, di due terreni del valore complessivo di lire 700.000.000, poi da donatari venduti a distanza pochi mesi (le prime due vendite il 12-1-2001, la terza il 13-3-2001), con tre distinti atti a diversi acquirenti, per la somma complessiva di lire 853.000.000 (250 milioni + 202 milioni + 401 milioni). La Commissione regionale, dopo aver premesso l’applicabilità del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, che elencava le operazioni dirette a favorire vantaggi tributari, tra cui non era ricompresa la donazione collegata ad una vendita, riteneva sussistere una condotta volta alla razionalizzazione fiscale del patrimonio dei donanti, con pagamento peraltro delle imposte da parte dei donatari per la plusvalenza di circa Euro 50.000,00 (lire 102.246.000) per ciascuno, quale differenza tra il valore dei beni donati e quello dei beni successivamente venduti a terzi, con una imposta quindi di lire 31.813.000.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resistono con controricorso i contribuenti, depositando memoria scritta.

4. La Procura Generale deposita memoria contenente le conclusioni scritte.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37 e 37-bis in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice di appello ha ritenuto erroneamente che la fattispecie in esame (donazione ai figli di metà di due terreni e successiva vendita degli stessi a terzi diversi dopo pochi mesi per un valore di poco superiore a quello delle donazioni) fosse disciplinata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, ma non rientrasse tra le operazioni elencate da tale norma. In realtà, la norma in concreto applicabile è il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3.

1.1. Tale motivo è fondato.

1.2. Invero, è errata l’affermazione del giudice di appello, nella parte in cui ritiene che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis contenga una elencazione tassativa delle fattispecie abusive, sì da non poterne ricomprendere altre, diverse da quelle indicate. In realtà, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, ora sostituito dalla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, ricomprende tutta una serie di condotte del contribuente anche non specificamente indicate nella norma in esame.

1.3. Invero, per questa Corte (Cass.n. 5155/2016, in motivazione, poi richiamata dalle recenti Cass., sez. 5, 5 dicembre 2019, n. 31772; Cass., sez. 5, 2 marzo 2020, n. 5644; Cass., sez. 5, 23 novembre 2018, n. 30404) integra gli estremi del comportamento abusivo quell’operazione economica che tenuto conto sia della volontà delle parti implicate, sia del contesto fattuale e giuridico – ponga quale elemento predominante e assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale se quelle operazioni possono spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta (Cass., 10 dicembre 2014, n. 25972, in motivazione, paragrafo 9.1.).

Pertanto, per questa Corte, in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo – rinvenibile negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano oltre che nei principi comunitari (Cass., 19 febbraio 2014, n. 3938; Cass., 5155/2016) e rilevabile d’ufficio (Cass., 25 novembre 2015, n. 24024) -che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente (Cass., 5 dicembre 2019, n. 31772; Cass., 6 giugno 2019, n. 15321; Cass., 23 novembre 2018, n. 30404; Cass., 7 novembre 2012, n. 19234).

1.4. Incombe, dunque, sulla amministrazione l’onere di dimostrare sia l’esistenza del disegno elusivo, sia le modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire ad un determinato risultato fiscale (Cass., sez. 5, 26 fe,bbraio 2014, n. 4603; Cass., n. 1465/2009).

1.5. Grava, invece, sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in tal modo strutturate (Cass., 5 dicembre 2019, n. 31772, cit.; Cass., 5090/2017; Cass. 3938/2014; Cass., 19234/2012; Cass., 20029/2010).

In tal senso, si è affermato che, al fine di escludere il contestato carattere elusivo di un’operazione, il contribuente deve dimostrare che la stessa è giustificata da “valide ragioni economiche”, aventi carattere non meramente marginale o teorico, sebbene dette ragioni non debbano assumere una rilevanza predominante per il compimento dell’operazione nè dovendosi, per altro verso, provare che l’obiettivo non sarebbe stato altrimenti perseguibile, ma soltanto che la strada prescelta è più conveniente rispetto ad altre soluzioni (Cass., sez. 5, 30 gennaio 2018, n. 2240).

1.6.Non è, poi, configurabile l’abuso del diritto se non sia stato provato dall’ufficio il vantaggio fiscale che sarebbe derivato al contribuente accertato dalla manipolazione degli schemi contrattuali classici (Cass., n. 20029/2010).

Il carattere abusivo, ai fini fiscali, di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (Cass., sez. un., 30055/08 e 30057/2008; Corte giustizia, nei casi 3M Italia, Halifax, Part. Service), presuppone quantomeno l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dei contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito (Cass., n. 21390/2012 in motivazione) e si deve indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (Cass., n. 26 febbraio 2014, n. 4604).

1.7. La Raccomandazione UE 2012/772 prevede che gli Stati membri debbano intervenire ogniqualvolta vi sia ” una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale” (montages articiels; artificial arrengement; mecanismo artificial nella varie versioni linguistiche). A tal fine precisa che ” una costruzione una serie di costruzioni e artificiosa se manca di sostanza commerciale” (p.4.4), o più esattamente di “sostanza economica” (p.4.2), e ” consiste nell’eludere l’imposizione quando, a prescindere da eventuali intenzioni personali, contrasta con l’obiettivo, lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali”, mentre “una data finalità deve essere considerata fondamentale se qualsiasi altra finalità che è o potrebbe essere attribuita alla costruzione o alla serie di costruzioni sembri per lo più irrilevante alla luce di tutte le circostanze del caso” (Cass., n. 438/2015; Cass., n. 439/2015, p. 8.3; Cass., n. 5155/2016, paragrafi 7, 8, 9 e 10).

1.8. il legislatore nazionale, con la L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 5, ha raccolto la citata Raccomandazione dell’Ue, delegando al Governo l’attuazione della “revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, in applicazione dei seguenti principi e criteri direttivi, coordinandoli con quelli contenuti nella raccomandazione della Commissione Europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012:

a) definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio di imposta, ancorchè tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione;

b) garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale e, a tal fine:

1. considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva;

2. escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extra fiscali non marginali; stabilire che costituiscono ragioni extra fiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente;

c) prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici di cui alla lett. a) all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il relativo risparmio di imposta;

d) disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonchè la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extra fiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti;

e) prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso;

f) prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario”.

1.9. Si è anche osservato che le disposizioni di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, pur non applicandosi ratione temporis (D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 1, comma 5) rilevano in chiave interpretativa nel definire una linea evolutiva già indiscutibilmente tracciata nell’ordinamento tributaria dalla giurisprudenza e dalle fonti nazionali e comunitarie (Cass., n. 30404 del 23 novembre 2018, in motivazione).

La L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, comma 1, prevede che “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”. Inoltre, ai sensi del comma 2, lett. a) “si considerano: a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”. Si aggiunge che “sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”.

Ai sensi del comma 2 lett. b) “si considerano vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”. Si chiarisce che, “ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale” (comma 4), “non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono alla finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente” (comma 3).

1.10. E’ evidente alla luce della giurisprudenza richiamata, anche unionale, che non può essere condivisa l’affermazione del giudice di appello, per cui il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis costituirebbe una fattispecie “chiusa”, con indicazione tassativa delle condotte cui potrebbe essere applicato il divieto dell’abuso del diritto. Al contrario, anche la L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, pur non applicabile ratione temporis, svolge una fondamentale opera di interpretazione del disposto della vecchia norma (art. 37-bis cit.), che ha un perimetro che va ben al di là delle condotte ivi indicate, costituendo una sorta di principio generale che avvolge in sè tutte le condotte abusive, ove vengano riscontrata la sussistenza dei precisi parametri normativi.

La L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, nuovo, dunque, è intervenuto a mettere ordine in quel vasto mondo dell’abuso “atipico” di derivazione costituzionale e comunitaria.

1.11. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, si pone, allora, come una fattispecie (l’interposizione) distinta dall’abuso “atipico” che in precedenza si è enunciato. Tale disposizione è stata conservata dopo la riforma, proprio quale indice rivelatore della illiceità fiscale delle variegate ipotesi di schermo elusivo. 1.12. Non sono condivisibili, allora, quelle pronunce di questa Corte, in cui si è affermato che l’abuso del diritto di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, all’epoca vigente (L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, ora, inserito dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1, comma 1), si incentra sulla “tipizzazione” delle condotte elusive, sicchè potrebbe configurarsi un abuso del diritto solo qualora ricorra una delle operazioni ivi indicate (Cass., sez. 5., 15756/2020; Cass.,sez. 5, 25 ottobre 2018, n. 27886). Neppure va condivisa l’altra affermazione per cui il legislatore ha voluto tipizzare la figura dell’abuso del diritto convogliandola su specifici elementi caratterizzanti e determinate operazioni negoziali, in assenza dei quali non sono configurabili altre ipotesi (atipiche) di pratiche abusive. La ratio legis, dunque, consisterebbe nell’esigenza di limitare il rischio di una indiscriminata applicazione della figura dell’abuso del diritto a qualsiasi fattispecie negoziale e di evitare l’insorgenza di controversie tributarie su accertamenti fiscali dall’esito aleatorio per l’Erario e, ancora, di impedire che i contribuenti siano sottoposti a inutili e complessi accertamenti fiscali, a discapito di altre attività di verifica e controllo.

Come detto, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, poi sostituito dalla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, rappresenta una norma “aperta” volta a ricomprendere tutte quelle fattispecie di abuso del diritto “atipico” di derivazione costituzionale ed unionale. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, invece, è stata conservata, con un ambito di applicazione limitato alla interposizione.

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, trova applicazione, allora, alla fattispecie in esame, come prospettato dall’Agenzia delle entrate nel motivo di ricorso.

2. Con il secondo motivo di impugnazione l’Agenzia si duole della “motivazione insufficiente su fatto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”, in quanto il giudice di appello non ha tenuto conto dei seguenti elementi: le donazioni sono state effettuate dai coniugi L.- A. in favore dei loro figli; tra le donazioni e le vendite sono decorsi meno di cinque mesi; il valore dichiarato nelle compravendite non è dissimile a quello delle due donazioni; a seguito delle donazioni i terreni hanno riacquistato la loro unitarietà in capo al singolo acquirente; vi è stato un risparmio di imposta, in quanto se i donanti avessero inteso vendere i beni direttamente agli acquirenti, avrebbero pagato a titolo di imposta, quale plusvalenza, la somma di lire 172.997.000 (plusvalenza di lire 532.260.784) il L. e di lire 45.426.000 la A. (plusvalenza di lire 166.088.457), a fronte di una imposta effettivamente pagata pari a lire 31.913.000. La motivazione del giudice di appello non avrebbe tenuto conto, quindi, degli elementi rilevanti sopra indicati.

2.1. Tale motivo è infondato.

2.2. Va premesso, anzitutto, che l’accoglimento del primo motivo non esime dall’esame del secondo, in quanto è ben possibile una riqualificazione dei fatti ad opera di questa Corte ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3. Deve, allora, valutarsi se la motivazione del giudice d’appello, una volta corretta con riferimento alla applicabilità del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, sia comunque corretta, in relazione agli elementi di fatto da essa accertati.

2.3. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, prevede che “in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”.

2.4. L’assunto della Agenzia delle entrate è che, attraverso il collegamento tra la donazione e la successiva vendita a terzi, i donanti, in realtà, non abbiano versato quanto da essi dovuto se avessero proceduto alla vendita dei terreni direttamente nei confronti dei terzi. Infatti, notevole era la differenza tra il valore dei terreni al costo di acquisto e quello al momento della vendita, con una plusvalenza per il L. di lire 532.266.784 e per la A. di lire 166.089.457, con imposte in astratto dovute rispettivamente per lire 172.897.000 e per lire 45.126.000. Utilizzando lo schema negoziale delle donazioni con vendite successive da parte dei donatari, la plusvalenza, ossia la differenza tra il valore dei beni ricevuti in donazione ed il valore degli stessi beni venduti a terzi era di lire 102.246.000, con una imposta pagata dai donatari di lire 31.813.000. Per l’Agenzia, quindi, la operazione complessiva aveva il fine esclusivo di evitare che i donanti dovessero dichiarare la plusvalenza che avrebbero realizzato vendendo direttamente i terreni.

2.5. Questa Corte ha già avuto modo di affermare, in pronunce relative a fattispecie analoghe a quella oggetto di esame la possibilità di dichiarare inopponibili all’amministrazione finanziaria, in applicazione di un principio generale antielusivo desumibile dall’art. 53 Cost., ma anche dai principi comunitari, i benefici fiscali derivanti dalla combinazione di operazioni a ciò volte (Cass., 5408/2017; Cass., 14 dicembre 2018, n. 32421).

Si precisa che per questa Corte il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3 trova applicazione anche quando manca la prova della simulazione della donazione, quando vengono utilizzati strumenti giuridici idonei ad ottenere una agevolazione o un risparmio di imposta, in assenza di ragioni economicamente apprezzabili poste a base dell’operazione.

Si è, infatti, ritenuto che, in tema di accertamento di imposte sui redditi, la disciplina dell’interposizione, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale costituente il presupposto d’imposta. Ne deriva che il fenomeno della simulazione relativa, nell’ambito della quale può ricomprendersi l’interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali (Cass., sez. 5, 21 dicembre 2018, n. 33221; Cass., 5408/2017; Cass. Civ., 10 gennaio 2013, n. 449;).

Il carattere reale, e non simulato della operazione di vendita e l’effettiva percezione del prezzo da parte dei venditori-donatari, non sono sufficienti ad escludere lo scopo elusivo dell’intera operazione negoziale posta in essere, nella sequenza donazione-vendita (Cass., 5408/2017).

2.6. Si è precisato che, sebbene il fenomeno della simulazione relativa non esaurisca il campo di applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo dell’intera operazione negoziale posta in essere nella sequenza donazione-vendita, tuttavia, trattandosi di rapporti patrimoniali tra padre e figli, deve tenersi conto della libertà di pianificazione della successione da parte del genitore e del carattere genuino della donazione ai figli (Cass. Civ., 26 ottobre 2016, n. 21572; da ultimo anche Cass. 17 maggio 2017, n. 12316). Inoltre, nulla impone al contribuente di optare, nell’esercizio della propria attività negoziale, per la soluzione più onerosa sul piano fiscale (Cass. Civ., 25 marzo 2015, n. 5937).

2.7. In molteplici pronunce di questa Corte si è ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento in presenza solo di alcuni elementi presuntivi. In particolare, si è recentemente affermato che non vi è la prova della interposizione nel caso in cui i beni donati siano stati venduti persino lo stesso giorno della vendita a terze e per il medesimo valore indicato nella donazione (Cass., sez. 5, 4 giugno 2020, n. 10561; Cass., sez. 5, 23 luglio 2020, n. 15746; contra però Cass., 7 marzo 2018, n. 5420, ma in presenza anche di un preliminare di vendita del terreno da parte del donante al soggetto che successivamente lo aveva acquistato dalle figlie donatarie).

L’avviso è stato ritenuto legittimo anche nel caso in cui il terreno era stato venduto dal figlio-donatario dopo tre mesi, per un corrispettivo pari al valore dichiarato nell’atto di donazione, ed una limitata somma era stata percepita dal donante al fine del pagamento dell’imposta di donazione (Cass., 3 agosto 2016, n, 16158).

2.8. La motivazione del giudice di appello si rivela congrua e sufficiente, in quanto, alla stregua dei principi stabiliti da questa Corte in materia, nell’ambito di una fattispecie in cui i genitori hanno donato i beni ai figli, che poi, dopo qualche mese hanno ceduto a società terze, ha, da un lato, indicato come finalità della operazione una pianificazione familiare (“razionalizzazione fiscale del loro patrimonio”), e dall’altro, valorizzato quale elemento di fatto decisivo la plusvalenza comunque realizzatasi con la successiva vendita. Infatti, i figli-donatari non hanno ceduto i terreni per un corrispettivo identico al valore delle donazioni ricevute, ma ad un prezzo maggiorato. I terreni sono stati donati per il valore di lire 350.000.000 ciascuno (lire 700.000.000 complessivi) e sono stati venduti a tre società diverse per la somma complessiva di lire 853.000.000 (250 milioni + 202 milioni + 401 milioni), con una plusvalenza di lire 102.246.000, in regione della detrazione delle spese di acquisto, su cui è stata pagata l’Irpef per lire 31.813.000.

La Commissione regionale, sul punto, ha osservato che “i donatari non sono stati esentati dalla tassazione, perchè hanno assoggettato a tassazione la differenza tra il valore della donazione e i corrispettivi percepiti dalla vendita degli immobili”, aggiungendo che “i donatari hanno dichiarato e pagato una plusvalenza di Euro 50.000”, sicchè non vi poteva essere da parte dei donanti “conoscenza del prezzo che sarebbe stato realizzato con la vendita dopo la donazione”.

Tra l’altro, nel controricorso si evidenzia che negli acini 2000 e 2001 sono state effettuate dai coniugi L. anche quatto vendite, a dimostrazione della esigenza di sistemazione del patrimonio immobiliare familiare.

Nè sono stati individuati altri indizi idonei a dimostrare l’imputazione del reddito, derivante dalla plusvalenza per la cessione dei terreni, in capo ai genitori donanti, quali il versamento di acconti al donante o la partecipazione di questi alle trattative per la vendita (Cass. Civ., 6276/2018; Cass. Civ., 17128/2018, dove si afferma che pure le trattative condotte da soggetti diversi dai donatari o dallo stesso donante costituiscono elemento perfettamente compatibile con il negozio di donazione).

3. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della Agenzia delle entrate e si liquidano come da dispositivo.

4. Non opera a carico dell’Agenzia ricorrente il raddoppio del contributo unificato (Cass., 890/2017; Cass., 5955/2014).

P.Q M.

Rigetta il ricorso.

Condanna l’Agenzia delle entrate a rimborsare in favore dei contribuenti le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 10.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre Iva e Cpa, e rimborso spese generali nella misura forfettaria del 12,5 %.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 1 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2020

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