Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26941 del 23/12/2016

Cassazione civile, sez. I, 23/12/2016, (ud. 21/06/2016, dep.23/12/2016),  n. 26941

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. GIANCOLA Maria C. – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria G.C. – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:

COMUNE DI CAVENAGO D’ADDA elettivamente domiciliato in Roma, via DI

Monte Fiore, n. 22, nello studio dell’avv. Stefano Gattemelata;

rappresentato e difeso dall’avv. Lucio Decio, giusta procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.L.M. elettivamente domiciliato in Roma, via Guido

D’Arezzo, n. 32, nello studio dell’avv. Alberto Cavaliere, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avv. Alessandro Morosini,

giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

nonchè contro

SOCIETA’ REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI;

G.V.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte di appello di Milano, n. 1450,

depositata in data 17 maggio 2010;

sentita la relazione svolta all’udienza pubblica del 21 giugno 2016

dal consigliere Dott. Campanile Pietro;

sentito per il ricorrente l’avv. Alessio Gattamelata, munito di

delega; sentito per il controricorrente l’avv. Alessandro Morosini;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del sostituto

Dott. DE AUGUSTINIS Umberto, il quale ha concluso per

l’inammissibilità, e, in subordine, per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata in data 13 maggio 2006 il Tribunale di Lodi rigettava le domande proposte dal signor P.L.M. nei confronti del Comune di Cavenago d’Adda, il quale aveva chiamato a manleva l’esecutore dei lavori e la Società Reale Mutua di Assicurazioni, aventi ad oggetto la declaratoria di nullità di una convenzione con la quale – in deroga agli strumenti urbanistici – era stata pattuita la facoltà, in favore dell’ente convenuto, a una distanza non inferiore a mt. 1, con conseguente richiesta di disporre l’arretramento dell’edificio adibito a palestra che era stata costruito in violazione delle distanze stabilite dagli strumenti urbanistici, oltre al risarcimento del danno.

Veniva rilevato, a sostegno della statuizione, che la richiesta di arretramento dal confine con la proprietà dell’attore della suddetta palestra non poteva essere accolta sulla base della dedotta nullità della convenzione, stipulata fra il dante causa del P. e il Comune, in quanto la stessa corrispondeva agli interessi di natura collettiva perseguiti dall’ente stesso, senza contrastare, pertanto, con le previsioni del P.R.G..

Quanto alla distanza di un metro prevista nella suddetta convenzione, ed invocata in via subordinata dall’attore, osservava il Tribunale che, avendo il consulente tecnico d’ufficio accertato che la distanza massima della palestra dal muro comune, dal lato del giardino del P., era pari a m. 1,01, la violazione non poteva considerarsi sussistente, posto che, essendo i proprietari contitolari del muro comune in tutta la sua estensione ed ampiezza, il confine non si identifica con la linea mediana del muro medesimo.

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della decisione di primo grado, rigettato, all’esito di una disamina delle previsioni del piano regolatore generale e delle reLative norme tecniche di attuazione, il motivo riguardante la violazione della distanza di metri cinque dal confine, ha ritenuto fondata la domanda proposta in via subordinata dal P., ed ha quindi affermato la violazione della distanza di un metro pattuita dalle parti, ordinando la parziale demolizione della palestra fino all’osservanza della stessa. Ha poi rigettato le domande di manleva riproposte dal Comune.

Per la cassazione di tale decisione l’ente territoriale propone ricorso, affidato a tre motivi, illustrati da memoria, cui il sig. P. resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 873 e 880 c.c., si sostiene che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente valutato il rispetto della distanza dal confine, considerando il lato del muro di confine prospiciente l’immobile costruito, senza considerare che, trattandosi di muro comune, poteva essere utilizzato come parametro il lato esterno dello stesso.

Con il secondo mezzo la violazione delle norme sopra indicate, nonchè dell’art. 905 c.c., viene prospettata rimarcando la differenza fra la distanza dal confine e quella riguardante le vedute. Sotto questo profilo si è osservato che il riferimento alla decisione di legittimità (n. 7146 del 1990) richiamata nella sentenza impugnata, concernente la seconda fattispecie, non sarebbe pertinente.

La terza censura, infine, riguarda il rigetto della domanda di manleva nei confronti del costruttore G.: al rilievo della Corte, secondo cui non sarebbe stata fornita la prova dell’assunzione, da parte dell’appaltatore, dell’obbligo di osservare la distanza stabilita nella convenzione con il P., si contrappone l’osservazione fondata sul richiamo, contenuto nell’art. 2 del contratto di appalto, alle prescrizioni del capitolato, del bando di gara e degli allegati alla Delib. n. 54 del 16 apre 1998, comprensive del progetto che prevedeva la costruzione alla distanza di un metro dal confine con la proprietà del predetto P..

I primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro intima connessione, sono infondati, in quanto confliggenti con uno sepecifico orientamento di questa Corte.

Nel caso di proprietà delimitate da un muro comune, infatti, la linea di confine non si identifica con la linea mediana del muro medesimo, poichè su di esso, nonchè sull’area di relativa incidenza, i proprietari confinanti esercitano la contitolarità del rispettivo diritto per l’intera estensione ed ampiezza (Cass., n. 3393 del 1988; Cass., n. 340 del 1980): conseguentemente le distanze si misurano rispetto alla facciata del muro prospiciente la cosa da tenere a distanza (Cass., 27 aprile 2010, n. 10041, in tema di distanza di una siepe dal confine, che, richiamando Cass., n. 7146/1990, Cass., 2479/1987, Cass., n. 2499/1986, in tema di distanze ai sensi degli artt. 889, 905 e 906 c.c., evidentemente postula una valutazione unitaria della nozione di distanza dal confine e dei criteri per calcolarla.

Quanto alla responsabilità dell’appaltatore, il relativo motivo è inammissibile, in quanto propone una diversa e più favorevole lettura delle risultanze processuali, senza per altro dedurre alcun vizio motivazionale. La censura, formulata in termini generici e senza il rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, consiste nella mera affermazione, non confortata da alcun elemento, che l’amministrazione comunale aveva indicato il rispetto della distanza di un metro dalla palestra al muro ad essa prospiciente, come desumibile dal “progetto definitivo – esecutivo prodotto agli atti”.

Deve tuttavia rilevarsi che nella sentenza impugnata (pag. 10) si dà atto dell’intervenuto esame, fra gli altri, del citato progetto definitivo esecutivo, di tal che la doglianza non investe l’omesso esame del documento, bensì – ed in maniera meramente assertiva – la valutazione del suo contenuto. In proposito deve ribadirsi che la violazione del principio di cui all’art. 116 c.p.c., sulla valutazione delle prove è censurabile in cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonchè, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (Cass., 19 giugno 2014, n. 13960; Cass., 20 dicembre 2007, n. 26965).

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. Il regolamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo, segue la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il Comune ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della prima sezione civile, il 21 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2016

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA