Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2694 del 05/02/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 05/02/2018, (ud. 13/09/2017, dep.05/02/2018),  n. 2694

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Frosinone respingeva le domande proposte da M.M. diretta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli da Banca Intesa San Paolo il 18.9.08, a seguito di procedura ex lege n. 223 del 1991, con annesse statuizioni.

Con sentenza depositata il 7.4.15, la Corte d’appello di Roma confermava sostanzialmente la pronuncia di primo grado, riconoscendo al lavoratore unicamente le retribuzioni maturate dal 1.10.08 al 2.2.09 e cioè dall’epoca del recesso sino al termine del periodo di malattia già in atto al momento del licenziamento.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il M., affidato a sette motivi; resiste la Banca con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve premettersi che il presente ricorso è in contrasto con la copiosa giurisprudenza di questa Corte che ha già deciso controversie aventi lo stesso oggetto in senso favorevole all’azienda (Cass. n. 15861/17; Cass. n. 15859/17; Cass. n. 4177/15; Cass. n. 8971/14; Cass. n. 2516/12; Cass. n. 3721/12; Cass. n. 19712/11; Cass. n. 1949/11; Cass. 15 marzo 2011 n. 6030; Cass. 11 dicembre 2010 n. 24343).

1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3 e art. 5, comma 3.

Lamenta che la corte territoriale ritenne rituale la comunicazione iniziale, del 14.7.08, prevista dal citato art. 4, nonostante essa difettasse della precisa indicazione dei motivi per i quali la Banca prevedesse un taglio di 1397 unità lavorative dai suoi organici. Censura in sostanza la sentenza per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto che gli obblighi di informazione, di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 2 e 3, possano considerarsi assolti con il mero rinvio a pregressi incontri tra l’azienda e le organizzazioni sindacali nell’ambito della procedura di consultazione preventiva prevista dal CCNL del settore del credito, senza considerare che i contenuti di una procedura obbligatoria per legge non sono surrogabili per relationem e soprattutto senza tenere conto dell’insufficienza del contenuto di tali incontri ai fini del rispetto degli obblighi informativi.

Il motivo è infondato, come già osservato da questa Corte nella medesima procedura di riduzione di personale (ex aliis, da ultimo, Cass. n. 15861/17). In tale pronuncia si è osservato che la sentenza impugnata, come nella specie, ha correttamente ritenuto che il contenuto della comunicazione di avvio della procedura dovesse essere valutato alla luce del confronto già avvenuto con le organizzazioni sindacali e degli accordi intercorsi, traendone la conseguenza che era da escludersi la genericità della medesima comunicazione “tanto più che la società, attraverso il richiamo ai documenti “già sostenuti da ampio ed approfondito contraddittorio fra le parti” aveva “indicato le ragioni dell’esubero ed i motivi tecnici ed organizzativi che rendevano necessaria la riduzione del costo del personale” (sul punto cfr. altresì Cass. n. 23526/16).

La Corte ha poi osservato come, in tal modo, fossero stati offerti in comunicazione alle organizzazioni dei lavoratori “tutti gli elementi necessari per svolgere in modo consapevole la funzione di controllo riconosciuta dalla legge” e come la possibilità di effettivo esercizio di tale funzione non potesse “essere esclusa per la velocità della procedura, la quale” – ha osservato ancora la Corte – “si giustifica considerando che il confronto era stato preceduto dal previo esperimento della procedura di consultazione di gruppo”.

Con tali considerazioni questa Corte ha ribadito il consolidato orientamento per il quale “in tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicchè, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione” (cfr., fra le molte, Cass. n. 22543/16, Cass. n. 15861/17, resa in analoga controversia).

E’ altresì consolidato il principio di diritto, per il quale la comunicazione prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, può dirsi “in contrasto con il normativo obbligo di trasparenza, in quanto (e contestualmente): a) i dati comunicati dal datore siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale fra l’indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale” (cfr., fra le altre, Cass. n. 6225/2007).

Nessuna di tali circostanze risulta lamentata e provata dal ricorrente.

Il motivo risulta infondato anche con riferimento alle ulteriori censure. Si richiama, al riguardo, oltre a Cass. n. 2516/2012 ed a Cass. n. 11661/2012, già riportate nella decisione impugnata ed entrambe rese in fattispecie sovrapponibili alla presente, Cass. n. 4186/2013, che ha precisato che “in materia di licenziamenti collettivi, tra imprenditore e sindacati può intercorrere, secondo quanto indicato dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 5, un accordo inteso a disciplinare l’esercizio del potere di collocare in mobilità i lavoratori in esubero, stabilendo criteri di scelta anche difformi da quelli legali, purchè rispondenti a requisiti di obiettività e razionalità; in tale ottica, deve ritenersi razionalmente giustificato il ricorso al criterio della maturazione dei requisiti per essere collocato in pensione, trattandosi di un criterio oggettivo che permette di scegliere, a parità di condizioni, il lavoratore che subisce il danno minore dal licenziamento, potendo sostituire il reddito da lavoro con il reddito da pensione”.

2.- Con secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’art. 420 c.p.c., lamentando che la sentenza impugnata non avesse considerato che l’accordo del 22.7.08 prevedesse una illegittima riserva di scegliere diverse unità lavorative da trattenere in servizio nonostante il possesso dei requisiti per il pensionamento.

Il motivo presenta un evidente profilo di inammissibilità laddove censura di nullità la sentenza per la mancata valutazione di prove documentali che non produce o riproduce in ricorso, in contrasto con gli artt. 366 e 369 c.p.c..

Per il resto è comunque infondato posto che, come già osservato da questa Corte (Cass. n. 20063/16), deve evidenziarsi che il M. non ha adeguatamente dedotto nè documentato, onere su di lui incombente, che l’azienda abbia proceduto a licenziare dipendenti in possesso del requisito pensionistico con criteri arbitrari (e cioè, ad esempio, dopo il perfezionamento del requisito pensionistico a discapito di altri); in particolare, poi, che egli sarebbe stato illegittimamente prescelto a vantaggio di colleghi nelle medesime condizioni.

Per altro verso occorre osservare che il criterio adottato con l’accordo è sufficientemente chiaro nel prevedere il licenziamento di quei lavoratori che avessero maturato, entro una data certa, il requisito pensionistico. Quel che rileva, in sostanza, è che l’azienda abbia provveduto a licenziare i lavoratori che abbiano raggiunto il requisito pensionistico entro tale data, non risultando, all’opposto, che essa abbia provveduto a licenziare successivamente lavoratori in possesso del detto requisito, rispetto a lavoratori che lo avessero maturato in epoca precedente.

Deve inoltre osservarsi che il criterio previsto dall’accordo sindacale ben avrebbe potuto prevedere, L. n. 223 del 1991, ex art. 24, comma 1, in un’ottica di corretta (rispondendo i requisiti adottati a criteri obiettivi e razionali, Cass. n. 4186/03) programmazione aziendale e di minor impatto sociale (essendosi previsto non il licenziamento contestuale di tutti i dipendenti in esubero, ma, nel tempo predeterminato del detto triennio, di quelli che avessero man mano raggiunto il requisito pensionistico, valorizzando il ruolo del sindacato nella ricerca di criteri che minimizzino il costo sociale della riorganizzazione produttiva in linea con la volontà del legislatore sovranazionale, espressa nelle direttive comunitarie recepite dalla L. n. 223 del 1991 e codificata nell’art. 27 della Carta di Nizza, cfr. Cass. n. 19453/15), ed al fine di evitare il rinnovo dell’intera procedura per licenziamenti già programmati ed oggetto di procedura conclusasi con accordo sindacale, il licenziamento dei dipendenti che avessero maturato il requisito pensionistico, scaglionando dunque nel tempo i licenziamenti, apparendo illogico imporre, per una riduzione di personale già oggetto di procedura ed accordo in sede sindacale, successive e plurime procedure per i lavoratori che man mano raggiungessero il requisito pensionistico entro l’arco temporale concordato.

3.- Con terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 24, per aver considerato legittime le comunicazioni di riduzione del personale non a tutte le competenti DPL ma unicamente al Ministero del Lavoro.

Il motivo è infondato, avendo la corte di merito correttamente evidenziato che dell’art. 24, comma 15, stabiliva che “Nei casi in cui l’eccedenza riguardi unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni la competenza a promuovere l’accordo di cui al comma 7 spetta rispettivamente al direttore dell’Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione ovvero al Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Agli stessi vanno inviate le comunicazioni previste dal comma 4″.

La comunicazione, nel caso di riduzione del personale riguardante più unità produttive su tutto il territorio nazionale, al solo Ministero del Lavoro, è confermata dallo stesso Ministero con circolare n. 64/2000, risultando razionale l’attivazione di una sola procedura di mobilità riguardante la stessa impresa a livello nazionale, piuttosto che la frammentazione delle procedure a livello regionale.

4.- Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, per non avere la sentenza impugnata considerato che la comunicazione di avvio 14.7.08 della procedura non ricomprendeva le unità di personale reintegrate dopo la conclusione della procedura oggetto del presente giudizio e licenziate nuovamente in base alla stessa.

Il motivo, coinvolgente apprezzamenti di fatto compiuti dalla sentenza impugnata, presenta profili di inammissibilità in base al novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, oltre che in base all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non risultando prodotta la comunicazione in parola.

In ogni caso, oltre a quanto si osserverà con riferimento al quinto motivo, in tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti ai controllo giurisdizionale, cosicchè, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione. Peraltro, il rilievo del preteso mancato riferimento alla sezione nell’ambito dell’intero contesto aziendale è superabile in ragione della coerenza della scelta con le ragioni tecnico-organizzative a monte della programmata riduzione del personale, ma anche con l’ampia fungibilità delle mansioni e con l’elevata mobilità verticale e territoriale che caratterizzano il lavoro bancario, cfr. da ultimo Cass. n. 8971/14, Cass. n. 1949/11.

5.-Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3 e art. 9, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamenta che la sentenza impugnata non considerò adeguatamente la mancata inclusione, nella comunicazione ex art. 4, comma 3, di lavoratori già licenziati ma poi reintegrati nel loro posto di lavoro.

Il motivo è infondato, posto che tali lavoratori, non più dipendenti all’atto della comunicazione ex art. 4 non potevano essere inclusi in detta comunicazione, mentre il ricorrente non offre alcun elemento per ritenere che essi, una volta reintegrati, non siano stati oggetto di valutazione in base all’oggettivo criterio della maturazione del requisito pensionistico, così come accertato dalla corte di merito.

6.- Con il sesto motivo il ricorrente denuncia la violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Lamenta che i criteri di scelta previsti dall’accordo sindacale ed applicati dalla Banca erano discriminatori in ragione dell’età dei lavoratori, prescindendo da qualsiasi legame con situazioni di effettiva sovrabbondanza del personale.

Il motivo è infondato in base alle considerazioni svolte sub 4.

In ogni caso deve evidenziarsi che la L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9 (circa la puntuale indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta) può dirsi viziata solo qualora non abbia consentito al sindacato di esercitare il suo potere di controllo, laddove, in caso di adozione di un unico criterio (il possesso dei requisiti per il conseguimento della pensione), non è necessaria una graduatoria comprendente anche i lavoratori rimasti in servizio.

Deve infatti ribadirsi che nelle ipotesi in cui, come nella specie, il criterio adottato per individuare i lavoratori licenziandi nell’ambito dell’intero complesso aziendale sia unico e riguardi il possesso dei requisiti per il pensionamento, non sussistono dubbi circa la sua legittimità, non consentendo la sua applicazione alcun margine di discrezionalità all’azienda (giurisprudenza pacifica).

Quanto al rilievo della asserita discriminazione (o violazione della L. n. 300 del 1970, art. 15 e del D.Lgs. n. 216 del 2003), deve osservarsi che in materia di licenziamenti collettivi – come sottolineato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 268 del 1994 – la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in un accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che la rappresentano, senza la necessità dell’approvazione dell’unanimità), poichè adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dalla L. n. 300 del 1970, art. 15, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità e devono essere coerenti col fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori. La prova di una avvenuta discriminazione nel senso esposto, grava evidentemente sul lavoratore. Ne consegue che laddove tali criteri obiettivi siano stati rispettati non vi è spazio per lamentare alcuna discriminazione (v. Cass. n. 4177/15, Cass. n. 4186/13).

In ogni caso, per la verifica della corretta applicazione del suddetto criterio è sufficiente il riscontro della sussistenza, in capo al lavoratore interessato, del requisito del diritto alla pensione di anzianità o di vecchiaia, requisito desumibile dall’elenco allegato alle comunicazioni di cui alla procedura de qua. E’pertanto erronea la tesi del ricorrente basata su un elemento formale costituito dalla comunicazione dell’elenco nominativo dei soli lavoratori prescelti senza valutare, in conformità alla ratio legis della disposizione in esame, la comunicazione nel suo complesso e senza, in particolare, considerare che; per le ragioni prima indicate, in relazione al criterio di scelta adottato, indicato specificamente nella comunicazione stessa, la compilazione e trasmissione dell’elenco dei soli destinatari del provvedimento espulsivo, era pienamente idonea a soddisfare quell’esigenza di tutela, sopra individuata, posta alla base della norma prima citata” (Cass. n. 2516/2012; cfr. anche Cass. n. 6030/2011; Cass. n. 8061/2011).

Con riferimento, poi, alla doglianza secondo cui la sentenza impugnata non avrebbe considerato che, con l’aggiunta degli altri lavoratori licenziati ma poi reintegrati, sarebbe stato superato il numero dei licenziandi (1397 unità), si osserva che il motivo in esame si risolve inammissibilmente in una diversa valutazione delle circostanze di fatto compiuta dalla sentenza impugnata che ha osservato che anche qualora tali dipendenti fossero stati ricompresi nella platea dei lavoratori in possesso del requisito (diritto di accesso alla pensione di anzianità o di vecchiaia), non sarebbe stato superato l’esubero complessivo (di 1397 dipendenti) con la conseguenza chi comunque l’appellante sarebbe stato inserito fra i dipendenti da espellere, senza necessità di alcuna ulteriore comparazione.

Il ricorrente, in ogni caso e solo per completezza espositiva, non offre alcun elemento per ritenere che la somma dei lavoratori licenziati sia stato nella specie superiore ai licenziamenti programmati.

7.- Con il settimo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 102 c.p.c., posto che, pur riconoscendogli il diritto al trattamento di malattia in corso al momento del licenziamento, non gli riconobbe il diritto al versamento dei relativi contributi previdenziali, non essendo stato convenuto in giudizio l’INPS.

Il motivo è infondato posto che, seppure il lavoratore ben potrà agire separatamente per la condanna della datrice di lavoro al pagamento di detti contributi, nei limiti della prescrizione (spettandogli diversamente la costituzione della rendita L. n. 1338 del 1962, ex art. 13), ovvero al risarcimento del danno, resta per converso esclusa per ragioni processuali la possibilità per il lavoratore di agire per ottenere una condanna specifica del datore al pagamento dei contributi nei confronti dell’INPS che non sia stato chiamato in causa, stante la generale esclusione dei provvedimenti nei confronti di terzo ed il carattere eccezionale della condanna c.d. a favore di terzo. Infatti, di regola il processo deve svolgersi tra tutti coloro che sono parti del rapporto sostanziale dedotto, i quali hanno diritto ad interloquire sulle questioni che li riguardano (art. 24 Cost.), e il provvedimento che definisce il processo fa stato solo nei confronti delle parti e loro aventi causa, mentre solo in alcuni casi eccezionali (ne sono un esempio, nella materia del lavoro, le due condanne in favore di terzo previste dall’art. 18 stat. lav. in materia di licenziamenti illegittimi) è ammessa una pronuncia in favore di terzo. Può dunque affermarsi che, in caso di omissione contributiva, il lavoratore può chiedere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali in favore dell’ente previdenziale solo se quest’ultimo sia parte nel medesimo giudizio, restando esclusa in difetto l’ammissibilità di tale pronuncia (che sarebbe una condanna nei confronti di terzo, non ammessa nel nostro ordinamento in difetto di espressa previsione), Cass. n. 19398/14, Cass. n. 5858/15.

8.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2018

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