Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2694 del 04/02/2021

Cassazione civile sez. III, 04/02/2021, (ud. 22/09/2020, dep. 04/02/2021), n.2694

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33990-2018 proposto da:

G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EMILIO FAA’

DI BRUNO 15, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MATTEUZZI,

rappresentato e difeso dall’avvocato COSIMO LIPPOLIS;

– ricorrente –

contro

M.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OTRANTO,

18, presso lo studio dell’avvocato ROSSELLA RAGO, rappresentato e

difeso dall’avvocato RAFFAELE MARIA SASSANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 558/2018 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 10/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/09/2020 dal Consigliere Dott. GIAIME GUIZZI STEFANO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. G.A. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 558/2018, del 10 settembre 2018, della Corte di Appello di Potenza, che – accogliendo il gravame esperito da M.V. avverso la sentenza non definitiva n. 945/2008, del 3 dicembre 2008, del Tribunale di Potenza – ha dichiarato estinto, per intervenuta prescrizione, il diritto al risarcimento dei danni azionato dall’odierno ricorrente e, per l’effetto, ha annullato la sentenza n. 347/2016, del 29 febbraio 2016, del Tribunale di Potenza, che aveva accolto la domanda risarcitoria.

2. In punto di fatto, riferisce di aver notificato, in data 26 novembre 2002, atto di citazione nei confronti del M. per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa della violenta aggressione dallo stesso perpetrata a suo carico il giorno 3 settembre 1995, avendo subito un “trauma cranico fratturativo con affondamento osseo occipitale mediano e prognosi di quaranta giorni”, per essere stato colpito alla testa con un martello. In relazione a tali fatti, il G. presentava querela contro il M., il quale veniva sottoposto a procedimento penale per i reati di cui agli artt. 582 e 585 c.p., procedimento definito con sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., divenuta irrevocabile il 25 giugno 2001. Radicato in sede civile il giudizio risarcitorio, il M. si costituiva, eccependo, in via preliminare, la prescrizione ex art. 2947 c.c., comma 1, della pretesa risarcitoria azionata nei suoi confronti, essendo decorsi cinque anni dalla commissione del fatto e non essendo stati compiuti idonei atti interruttivi. Nel merito, il convenuto contestava in fatto e in diritto la fondatezza della domanda avversaria.

Con sentenza non definitiva n. 945/2008, resa il 3 dicembre 2008, immediatamente appellata, il Tribunale di Potenza rigettava l’eccezione di prescrizione sul rilievo che, siccome il fatto costituiva reato, il termine quinquennale di prescrizione dovesse decorrere dalla data in cui era divenuta irrevocabile la sentenza penale, trovando applicazione l’art. 2947 c.c., commi 1 e 3, seconda parte.

Con separata ordinanza veniva disposta la prosecuzione del giudizio, che si concludeva con sentenza n. 347/2016, dell’accoglimento della domanda risarcitoria e conseguente condanna del M. al pagamento della somma di Euro 40.369,00, oltre interessi, nonchè al pagamento delle spese processuali e di quelle occorse per l’espletamento della CTU.

Interposto gravame anche avverso tale ultima decisione, la Corte di Appello di Potenza, riunite le due cause, accoglieva l’appello proposto dal M. avverso la sentenza non definitiva n. 945/2008, dichiarando l’intervenuta prescrizione della pretesa risarcitoria azionata dal G. sul rilievo che l’art. 2947 c.c., comma 3, è destinato a trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato per il quale operi un termine di prescrizione superiore a cinque anni; viceversa, nei casi in cui per il reato sia previsto un termine di prescrizione pari o inferiore a cinque anni, la pretesa risarcitoria si prescrive nell’ordinario termine quinquennale (o in quello biennale, se il danno deriva dalla circolazione di veicoli), decorrenti dal giorno in cui il fatto si è verificato, ex art. 2947 c.c., comma 1.

3. Ha resistito il M., con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

4. Ha presentato memoria il ricorrente, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2947 c.c., commi 1 e 3, oltre che dell’art. 157 c.p..

Si censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che l’art. 2947 c.c., comma 3, seconda parte, trovi applicazione nelle sole ipotesi in cui il fatto illecito configuri gli estremi di un reato per il quale la legge preveda un termine prescrizionale superiore a cinque anni. Ad avviso del ricorrente, invece, la suddetta disposizione detterebbe una disciplina generale per tutti i casi in cui il reato si sia estinto per causa diversa dalla prescrizione o sia intervenuta una sentenza penale irrevocabile e non solo per quei casi in cui, “ceteris paribus”, per il reato sia previsto un termine di prescrizione più lungo. Pertanto, qualora il fatto illecito sia considerato dalla legge come reato, che si sia estinto per causa diversa dalla prescrizione o in relazione al quale sia intervenuta sentenza penale irrevocabile, il termine di prescrizione comincerebbe a decorrere non già dal giorno in cui si è verificato il fatto (come disposto dall’art. 2947 c.c., comma 1), bensì da quando il reato si è estinto o da quando la sentenza è divenuta irrevocabile, e ciò indipendentemente dalla durata del termine di prescrizione applicabile.

Inoltre, la Corte territoriale avrebbe errato laddove ha applicato la disciplina della prescrizione vigente al momento della commissione del fatto in luogo di quella introdotta con la L. 5 dicembre 2005, n. 251, che ha previsto un tempo minimo, per la prescrizione del reato, pari a sei anni per i delitti e quattro anni per le contravvenzioni. Infine, questo ultimo termine andrebbe comunque aumentato di un quarto per l’operatività di cause di interruzione e sospensione della prescrizione.

5.1. Il motivo non è fondato.

5.1.1. Esso può essere scomposto in due diverse censure: l’una attinente alla corretta individuazione dell’ambito di operatività dell’art. 2947 c.c., comma 3; l’altro, di diritto intertemporale, relativo alla disciplina applicabile nel caso in cui il tempo necessario a prescrivere il reato al momento della decisione sia stato dal legislatore modificato rispetto a quello previsto al tempo della consumazione del fatto di reato.

Quanto a questo secondo aspetto, logicamente antecedente rispetto al primo, si osserva che la Corte territoriale – come evidenziato anche dal controricorrente – ha correttamente applicato il termine quinquennale di prescrizione, risultante dal combinato disposto degli artt. 582 e 585 c.p. e, del previgente, art. 157 c.p., comma 1, n. 4), non trovando nella specie applicazione il più lungo termine prescrizionale di anni sei previsto dall’art. 157 c.p., come modificato dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6.

Invero, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, l’art. 2947 c.c., comma 3, prima parte, individua il termine di prescrizione “con la tecnica del rinvio recettizio, ma rimane operativo il principio dell’irretroattività della norma (art. 11 prel.), per cui – ai fini della determinazione di tale termine – occorre aver riguardo al momento in cui il fatto illecito si è esaurito e non al momento della decisione, poichè è in quel primo momento che si cristallizza il termine prescrizionale. Nè, agli effetti civilistici è possibile aver riguardo al principio della norma più favorevole (art. 2 c.p.), che attiene solo agli effetti penali (e quindi all’imputato) e non agli effetti civili (e quindi alla posizione del responsabile civile del danno, anche se i due soggetti spesso coincidono)” (Cass. Sez. 3, sent. 27 luglio 2012, n. 13407, Rv. 623635-01; in senso conforme Cass. Sez. 6-3, ord. 14 marzo 2018, n. 6333, Rv. 648406-01).

Ne consegue, dunque – per passare, così, anche all’esame della prima censura di cui si è detto – che venendo in rilievo, nel caso di specie, il termine di prescrizione del reato di cui agli artt. 582 e 585 c.p. fissato in base al regime previgente alla L. n. 251 del 2005 e, quindi, pari a quello stabilito per il diritto al risarcimento dei danni, il giudice di appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui “l’art. 2947 c.c., comma 3, seconda parte (il quale, in ipotesi di fatto dannoso considerato dalla legge come reato, stabilisce che se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione ovvero è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento si prescrive nei termini indicati dai primi due commi cinque anni e due anni -, con decorso dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza e divenuta irrevocabile) si riferisce, alla stregua della formulazione letterale e collocazione nel complessivo contesto di detto comma 3, nonchè della finalità perseguita di tutelare l’affidamento del danneggiato circa la conservazione dell’azione civile negli stessi termini utili per l’esercizio della pretesa punitiva dello Stato, alla sola ipotesi in cui per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella del diritto al risarcimento. A tale stregua, ove la prescrizione del reato sia viceversa uguale o più breve di quella fissata per il diritto al risarcimento, la norma in argomento resta invero inoperante, ed il diritto medesimo è soggetto alla prescrizione fissata dall’art. 2947 c.c., primi due commi, con decorrenza dal giorno del fatto (v., “ex multis”, Cass. Sez. 3, sent. 15 maggio 2013, n. 11775, Rv. 626762-01; Cass. Sez. 3, sent. 9 ottobre 2012, n. 17142, Rv. 623985-01; Cass. Sez. 3, sent. 8 febbraio 2005, n. 2508, Rv. 580035-01; Cass. Sez. 3, sent. 18 aprile 2001, n. 5695, Rv. 54601801; Cass. Sez. 3, sent. 18 aprile 2001, n. 5693, Rv. 546018-01; Cass. Sez. 3, sent. 24 marzo 1980, n. 1960, Rv. 405590-01).

Va, pertanto, ribadito che ai fini dell’applicazione dell’eccezione al riguardo posta all’art. 2947 c.c., comma 3 è necessaria la ricorrenza di entrambi i requisiti ivi previsti, e cioè: a) che si tratti di reato e b) che la prescrizione del reato sia più lunga di quella prevista per l’azione civile. Laddove la prescrizione prevista per il reato sia invece, come nella specie, uguale (o anche inferiore) a quella prevista per il diritto al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 1, si applica la prescrizione di cinque anni dal fatto, e non già (come erroneamente preteso dal ricorrente e come affermato dal primo giudice) dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile.

Di qui, dunque, l’ulteriore – parimenti corretta inferenza da parte del giudice di appello, in ordine alla prescrizione dell’azione civile esercitata dal G. con atto di citazione del novembre 2002, essendo ampiamente maturato il relativo termine quinquennale, decorrente dal giorno del fatto lesivo, commesso nel settembre 1995.

Infine, anche l’ultima doglianza in cui si sostanzia il primo motivo di ricorso appare infondata alla luce del principio secondo cui “la prescrizione del diritto al risarcimento del danno cagionato dal reato, sebbene raccordata, sotto il circoscritto profilo del periodo di durata, alla disciplina della prescrizione dettata per il reato, si inserisce nel quadro generale dell’istituto della prescrizione civile, senza comprometterne la sostanziale autonomia rispetto all’analogo istituto regolato nel sistema penale. Se si eccettua tale collegamento, ciascuno dei due istituti costituisce un complesso normativo in sè chiuso e perfetto, con la conseguenza che, ai fini del diritto al risarcimento, operano esclusivamente le cause di interruzione previste nella disciplina civilistica, senza possibilità di mutua integrazione o di interferenze fra le due discipline” (Cass., Sez. Un., sent. 18 febbraio 1997, n. 1479, in motivazione). Pertanto, le eventuali cause di interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato non rilevano ai fini della decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno.

6. Con il secondo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – si deduce il vizio di motivazione per omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti.

La Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere la costituzione di parte civile, datata 12 luglio 2000, inidonea a interrompere il corso della prescrizione.

Inoltre, alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità il “dies a quo” del termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione risarcitoria deve coincidere con il momento in cui il soggetto danneggiato acquisisce piena contezza del danno patito e, in particolare, della sua entità; momento che, nel caso di specie, si identificherebbe con il deposito della CTU medico-legale in cancelleria, avvenuto in data 16 gennaio 2016.

6.1. Il motivo è inammissibile.

6.1.1. In disparte, infatti, il rilievo – già sopra svolto – che ai fini del diritto al risarcimento del danno da reato, in sede civile, operano esclusivamente le cause di interruzione previste nella disciplina civilistica, senza possibilità di mutua integrazione o di interferenze fra le due discipline, ciò che esclude la rilevanza dell’avvenuta costituzione di parte civile, deve rilevarsi che tale circostanza è stata espressamente esaminata dalla sentenza impugnata, ciò che per definizione esclude che il vizio denunciato possa rientrare nel novero della previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), che contempla l’ipotesi dell’omesso esame di un fatto.

Quanto, invece, al rilievo che solo con l’espletata CTU medico-legale l’odierno ricorrente avrebbe acquisito piena contezza del danno subito, al netto di ogni altra considerazione pure possibile (soprattutto in relazione all’impossibilità di trasporre, con riferimento alla presente fattispecie, i principi enunciati da questa Corte in merito ai danni cd. “lungolatenti”), dirimente è la constatazione che di tale questione non vi è traccia nella sentenza impugnata.

Va, pertanto, dato seguito al principio secondo cui, “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (Cass. Sez. 2, ord. 24 gennaio 2019, n. 2038, Rv. 652251-02), adempimento, questo, nella specie, non soddisfatto.

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

8. A carico del ricorrente sussiste l’obbligo di versare, se dovuto, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a pagare, in favore di S.R.M. e R.R., difensori del controricorrente dichiaratisi distrattari, le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.500,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2021

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