Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2693 del 05/02/2018


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Cassazione civile, sez. VI, 05/02/2018, (ud. 16/01/2018, dep.05/02/2018),  n. 2693

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L.M., già conduttrice di due fondi siti in Maddaloni (CE), e riportati in Catasto al foglio (OMISSIS), particelle (OMISSIS), ha convenuto in giudizio l’Interporto Sud Europa S.p.a., per sentirla condannare al pagamento dell’indennità di cui alla L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 17.

A sostegno della domanda, ha esposto che i due fondi, già di proprietà della madre S.M., sono stati da quest’ultima volontariamente ceduti alla convenuta, nell’ambito delle procedure espropriative finalizzate alla realizzazione delle strutture interportuali Maddaloni – Marcianise.

1.1. Con sentenza del 22 maggio 2017, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha dichiarato la propria incompetenza, affermando che, ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 19, la domanda di liquidazione dell’indennità dovuta al colono è attribuita alla competenza della corte d’appello in unico grado, anche nel caso in cui l’immobile da espropriare abbia formato oggetto di cessione volontaria, in quanto quest’ultima rappresenta una modalità di definizione del procedimento espropriativo, sostitutiva del decreto di esproprio, nell’ambito della quale il corrispettivo che il privato riceve per la perdita del bene costituisce soltanto una diversa liquidazione dell’indennità, alla quale deve necessariamente rapportarsi.

2. Avverso la predetta sentenza la Lombardi ha proposto istanza di regolamento di competenza, illustrata anche con memoria, alla quale l’Inter-porto Sud Europa S.p.a. ha resistito con memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Premesso di aver chiesto, in qualità di coltivatrice diretta dei fondi espropriati, il riconoscimento dell’indennità prevista dalla L. n. 865 del 1971, art. 17, comma 2, (abrogato con decorrenza dal 30 giugno 2003, ma applicabile alla procedura espropriativa in esame, promossa in epoca anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327), la ricorrente sostiene che l’avvenuto trasferimento dei fondi per cessione volontaria ha determinato l’interruzione della procedura espropriativa, con la conseguenza che la liquidazione del predetto indennizzo resta sottratta alla speciale competenza della corte d’appello.

1.1. L’istanza è infondata.

In tema di espropriazione per pubblica utilità, questa Corte ha infatti affermato da tempo che la speciale competenza della corte d’appello in unico grado, prevista dalla L. n. 865 del 1971, art. 19, per l’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, si estende anche alla domanda avente ad oggetto il riconoscimento dell’indennità aggiuntiva prevista dall’art. 17, comma 2, della medesima legge in favore del fittavolo, colono, mezzadro o compartecipante (cfr. Cass., Sez. 1^, 8/09/2011, n. 18450; 2/ 02/2007, n. 2238; 20/05/2005, n. 10685).

Nell’ambito del predetto orientamento, costituente ormai jus receptum, alcune risalenti pronunce hanno tuttavia ritenuto che la domanda in questione resti devoluta al tribunale, secondo le regole ordinarie di competenza, ogni qualvolta, come nella specie, a seguito dell’accettazione dell’indennità offerta dall’espropriante, il procedimento ablatorio non si sia concluso con l’emissione del decreto di esproprio, ma con la cessione volontaria del fondo da parte dell’espropriato: premesso infatti che l’accordo raggiunto con quest’ultimo per il trasferimento della proprietà comporta l’interruzione del procedimento espropriativo, si è rilevato che, a differenza di quella prevista dall’art. 17, comma 1, l’indennità aggiuntiva di cui al secondo comma non costituisce un tutt’uno con quella dovuta al proprietario, ma ha carattere autonomo, ed è comunque ragguagliata all’importo corrisposto al proprietario, con la conseguenza che la relativa domanda resta sottratta alla competenza della corte d’appello, la quale postula che l’indennità sia stata determinata mediante il procedimento previsto dalla L. n. 865 del 1971 (cfr. Cass., Sez. 1^,, 5/12/1998, n. 123(OMISSIS); 23/03/1994, n. 2765; 14/10/ 1981, n. 5390).

Tale affermazione, pur non essendo mai stata espressamente smentita, deve tuttavia ritenersi ormai superata, alla luce dell’opinione successivamente prevalsa in riferimento al fenomeno della cessione volontaria: la giurisprudenza più recente, correttamente richiamata dalla sentenza impugnata, pur confermandone la natura di negozio traslativo della proprietà, come tale soggetto alla disciplina stabilita dal codice civile per i contratti in generale e per la vendita in particolare, ha infatti precisato che si tratta di un contratto ad oggetto pubblico, stipulato nell’esercizio di potestà pubblicistiche, che si inserisce necessariamente nell’ambito della procedura espropriativa, avendo l’espropriato il diritto di convenirla a seguito del subprocedi-mento disciplinato dalla L. n. 865 del 1971, art. 12, ad un prezzo pur esso determinato in base a criteri inderogabili stabiliti dalla legge, che l’espropriato può solo accettare o rifiutare e che ha anche l’effetto di porre termine al procedimento, eliminando la necessità dell’emanazione del decreto di espropriazione e dello svolgimento del subprocedimento di determinazione dell’indennità definitiva (cfr. Cass., Sez. 1^, 27/04/2011, n. 9390; 21/ 11/2003, n. 17709; Cass., Sez. 2^, 22/05/2009, n. 11955). L’interruzione del procedimento ablatorio, causata dal volontario trasferimento della proprietà che fa seguito all’accettazione dell’indennità offerta dall’espropriante, pur impedendo di attribuire natura autoritativa alla vicenda traslativa, non è pertanto sufficiente a renderla del tutto avulsa dall’esercizio di potestà pubblicistiche, nè ad escludere la riconducibilità del corrispettivo ai criteri di liquidazione previsti dalla legge, legittimando quindi la convinzione, espressa da un precedente giurisprudenziale specificamente richiamato nella sentenza impugnata, che la cessione volontaria costituisca in realtà “una modalità di definizione del procedimento, sostitutiva del decreto di esproprio, in cui il corrispettivo che il privato riceve per la perdita del cespite rappresenta una diversa liquidazione dell’indennità, alla quale deve, necessariamente, rapportarsi” (cfr. Cass., Sez. 1^, 8/09/2015, n. 17786). E’ in questa prospettiva che la giurisprudenza di legittimità, dopo aver escluso che la dichiarazione d’illegittimità costituzionale della L. 29 settembre 1980, n. 385, art. 1, nella parte in cui prorogava di fatto l’efficacia dei criteri indennitari previsti dalla L. n. 865 del 1971, art. 16, a loro volta dichiarati incostituzionali nella parte riguardante le aree edificabili, comportasse la nullità, per sopravvenuta indeterminatezza dell’oggetto, delle cessioni volontarie stipulate sotto la vigenza della predetta disposizione, e recanti la pattuizione del corrispettivo “salvo conguaglio”, ha ritenuto che la liquidazione del conguaglio, da effettuarsi pur sempre sulla base dei criteri indicati dalla legge, spettasse alla corte d’appello in unico grado, anzichè al tribunale competente in via ordinaria (cfr. Cass., Sez. Un., 6/12/2010, n. 24687; Cass., Sez. 1^, 8/09/2015, n. 17786; 19/04/2005, n. 8191).

Nella medesima ottica, deve ritenersi che sia proprio la necessaria correlazione con l’importo dovuto al proprietario, da determinarsi sulla base dei criteri inderogabilmente stabiliti dalla legge, a giustificare l’attribuzione alla corte d’appello della competenza anche in ordine alla domanda di liquidazione dell’indennità aggiuntiva di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 17, comma 2, indipendentemente dalle modalità di trasferimento della proprietà del fondo, la cui perdita, comunque riconducibile alla vicenda ablatoria, comportando il venir meno delle possibilità di sfruttamento del suolo da parte dei soggetti che traggono i propri mezzi di sussistenza dalla coltivazione dello stesso, costituisce la ratio del riconoscimento della predetta indennità, anche in caso di cessione volontaria dell’immobile.

2. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso e dichiara la competenza della Corte d’appello di Napoli. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi della D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2018

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