Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2691 del 05/02/2010

Cassazione civile sez. I, 05/02/2010, (ud. 04/11/2009, dep. 05/02/2010), n.2691

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. FIORETTI Francesco Maria – Consigliere –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. SALVATO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Recit s.p.a., in persona del legale rappresentante elettivamente

domiciliato in ROMA, via P. Leonardi Cattolica, 3, nello studio del

dr. Alessandro Ciufolini, rappresentato e difeso dall’avv. Inzillo

Raffaele, in virtù di procura per notaio Dominici di Ronciglione, in

data 14 febbraio 2005;

– ricorrente –

contro

Fallimento della RE.C.I.T. s.p.a., in persona del Curatore –

elettivamente domiciliato in ROMA, via Leopoldo Nobili, 11, presso lo

studio dell’avv. Mario Macchia, rappresentato e difeso dall’avv. FAVA

Roberto, in virtù di procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

nonchè

I.N.P.S.;

Fallimento della I.L.P. Polverini s.a.s. di Leandro Polverini &

C. in

persona del Curatore, già I.L.P. di Amilcare e Andrea Polverini

&

C.;

A.P.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma del 16 febbraio

2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 4

novembre 2009 dal Consigliere dott. Luigi Salvato;

udito per il controricorrente Fallimento della RE.C.I.T. s.p.a.

l’avv. Roberto Fava, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 16 febbraio 2004, rigettava l’appello della Recit s.p.a. (di seguito, Società) avverso la sentenza del Tribunale di Viterbo del 31.5.2001, di rigetto dell’opposizione proposta da detta società, nei confronti del Fallimento di detta società, in persona del Curatore (di seguito, Fallimento), nonchè degli intimati sopra indicati, avverso la sentenza che ne aveva dichiarato il fallimento.

Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso la Recit s.p.a., affidato a tre motivi; ha resistito con controricorso il Fallimento, illustrato con memoria; non hanno svolto attività difensiva gli altri intimati.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- La ricorrente, con il primo motivo, denuncia violazione dell’art. 276 c.p.c., comma 1, art. 158 c.p.c. e art. 161 c.p.c., comma 2 (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4), deducendo che la sentenza sarebbe nulla, in quanto nell’intestazione è indicato quale giudice che avrebbe concorso a decidere la causa il dr. P.E., che non faceva parte del Collegio innanzi al quale erano state precisate le conclusioni, in luogo del dr. L.S., non indicato in detta epigrafe.

1.1.- Il motivo è infondato.

La questione degli effetti sulla sentenza, nella cui intestazione risulti il nominativo di un magistrato, non tenuto alla sottoscrizione, diverso da quello indicato nel verbale dell’udienza collegiale di discussione, o non risulti affatto tale nominativo, ha costituito di recente oggetto di completa ricostruzione da parte di questa Corte, che ha dato continuità all’orientamento assolutamente prevalente, secondo il quale in detta ipotesi la sentenza deve presumersi affetta da errore materiale – che, quindi, non incide sulla validità della medesima – come tale emendabile con la procedura di correzione di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c..

L’intestazione è, infatti, priva di autonoma efficacia probatoria, esaurendosi nella riproduzione dei dati del verbale d’udienza, e, in difetto di elementi contrari, si devono ritenere coincidenti i magistrati indicati in tale verbale come componenti del collegio giudicante con quelli che in concreto hanno partecipato alla deliberazione della sentenza medesima (Cass. n. 22497 del 2006, alla quale si rinvia anche per la compiuta e completa indicazione dei precedenti).

Siffatto principio va ribadito, condividendo questo Collegio gli argomenti che lo fondano, non avendo la ricorrente svolto deduzioni che possano indurre a rimeditarlo e neppure considerato i precedenti sopra richiamati, evocando quelli, non pertinenti, concernenti non l’erronea indicazione dei nomi nell’intestazione, bensì quelli aventi ad oggetto la accertata difformità di composizione del collegio.

In applicazione di detto principio, il mezzo è manifestamente infondato, poichè l’indicazione nell’intestazione della sentenza del nome di un magistrato diverso da quello facente parte del Collegio che ha riservato la decisione (dr. P.E., in luogo del dr. L.S.), quale risulta dal verbale dell’udienza collegiale dell’11.7.2003 (che può essere esaminato da questa Corte, in considerazione della natura dell’errore denunciato), in difetto di ogni elemento – non prospettato dal ricorrente – che possa indurre a far ritenere superata la presunzione della coincidenza tra i giudici che hanno preso parte alle due fasi processuali (il Presidente ed il relatore che hanno sottoscritto la pronuncia coincidono con i magistrati del Collegio indicati nel verbale dell’udienza collegiale, che ha riservato la decisione) va ascritta ad un mero errore materiale, consistente nella erronea indicazione nell’intestazione del nome del terzo magistrato che ha preso parte alla deliberazione della sentenza.

2.- Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e L. Fall., art. 18 (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa ed insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), in quanto la Corte d’appello si sarebbe limitata a recepire la motivazione della sentenza di primo grado.

La Recit s.p.a. lamenta che la sentenza non avrebbe tenuto conto delle seguenti censure, concernenti: il mancato accertamento da parte del Tribunale dello stato dei contratti che la società aveva in corso alla data del fallimento; la mancata ricostruzione della consistenza del patrimonio mobiliare ed immobiliare; la mancata prova da parte dei creditori dell’esistenza di protesti di titoli di credito e di perdite di bilancio; l’esistenza di contratti con enti pubblici.

Infine, a suo avviso, la Corte territoriale “avrebbe dovuto valutare le risultanze del fascicolo della procedura fallimentare, richiamate o meno nei motivi di gravame”.

Il terzo motivo denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto dell’accertamento della consistenza del patrimonio della società e dell’esistenza di contratti con la P.A. (art. 360 c.p.c., n. 5) e violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), lamentando che la sentenza non avrebbe deciso la censura concernente la mancata valutazione del patrimonio mobiliare, trascurando che dal bilancio inserito nel fascicolo fallimentare risultava un patrimonio immobiliare di L. 6.926.585.427.

Inoltre, la Corte d’appello avrebbe disatteso la censura relativa all’esistenza di contratti con la P.A. e ritenuto che la c.t.u. non aveva costituito oggetto di specifiche censure, mentre queste erano state formulate ed allegate al verbale d’udienza del 17.3.1999 ed erano dirette a dimostrare il credito della società (nel ricorso sono trascritte, in parte, le deduzioni alle conclusioni del c.t.u.).

2.1.- I due motivi, da esaminare congiuntamente, in quanto giuridicamente e logicamente connessi, sono in parte infondati, in parte inammissibili.

In linea preliminare, va ribadito che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta disciplinata da una norma di legge; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma di legge ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è proponibile, in questa sede, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo la seconda è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. S.U. n. 10313 del 2006; Cass. n. 10127 del 2006; n. 15499 del 2004).

Pertanto, risulta chiaro che, benchè la Società abbia formalmente denunciato con i mezzi in esame entrambi i vizi, le censure si risolvono nella deduzione del vizio di motivazione, poichè la ricorrente, in buona sostanza, lamenta un’erronea valutazione delle risultanze processuali. Al riguardo, va quindi ribadito che il vizio dell’art. 360 c.p.c., n. 5, denunciabile con ricorso per cassazione si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate.

Siffatto vizio non può, invece, consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, diversamente risolvendosi il relativo motivo in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito, al quale neppure può imputarsi d’avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi (Cass. n. 18819 del 2008; n. 15489 del 2007), Resta escluso che, mediante la denuncia di detto vizio, la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice del merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi rispetto alle aspettative ed alle deduzioni della parte (per tutte, Cass. n. 6694 del 2009; n. 6264 e n. 3881 del 2006).

Infine, ancora in linea preliminare, va data continuità all’indirizzo di questa Corte, consolidato nell’affermare che la motivazione della sentenza di secondo grado può ritenersi mancante qualora consista in un mero rinvio alla sentenza di primo grado, non allorchè il giudice d’appello, nonostante detto rinvio, sia pure con la “concisione” peraltro stabilita dall’art. 118 disp. att. c.p.c., comma 2 abbia avuto cura di confutare le censure proposte dall’impugnante, sviluppando un iter argomentativo desumibile dall’integrazione della parte motiva delle due sentenze (Cass. n. 6694 del 2009; n. 7713 e n. 3066 del 2002; n. 9497 e n. 985 del 2000;

n. 985 del 2000). In particolare, le Sezioni Unite civili, nel puntualizzare il contenuto dell’onere motivazionale del giudice di appello, hanno distinto tra il caso di accoglimento e quello di rigetto del gravame, rimarcando che “non può contestarsi che la sentenza di secondo grado deve fondarsi pur sempre su una motivazione che renda chiaro il percorso argomentativo seguito per pervenire all’annullamento della pronuncia impugnata, e non può limitarsi a riferimenti generici alle risultanze istruttorie, poichè questi, se possono ritenersi sufficienti quando l’impugnazione venga rigettata con la conferma della pronuncia impugnata, non possono giustificare di per sè soli una decisione di accoglimento” (Cass. S.U., n. 10892 del 2001).

L’adeguatezza della motivazione non comporta peraltro l’onere del giudice di occuparsi di tutte le allegazioni della parte e neppure occorre che nella sentenza siano prese in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da essa svolte.

E’, infatti, sufficiente che il giudice esponga, anche in maniera concisa, gli elementi posti a fondamento della decisione e le ragioni del suo convincimento, dovendo in questo caso ritenersi implicitamente rigettate tutte le argomentazioni con queste incompatibili e disattesi, per implicito, i rilievi e le tesi che, benchè non espressamente esaminati, siano parimenti incompatibili con la conclusione affermata e con l’iter argomentativo svolto (Cass. n. 407 del 2006; n. 520 del 2005).

Posti tali principi, va osservato che la Corte d’appello, nel confermare la sentenza di primo grado, ha analiticamente confutato il motivo d’appello concernente la valorizzabilità della relazione del curatore e di una consulenza, dando poi atto della univocità e congruità degli elementi considerati per dedurre l’esistenza dello stato d’insolvenza, sottolineando che nessuna specifica deduzione era stata svolta per contrastare la correttezza del giudizio del Tribunale, confortato anche dalla “estrema esiguità dell’attivo rispetto al passivo”.

A fronte di detta motivazione, sintetica, ma sufficiente, i motivi non prospettano un vizio di motivazione rilevante in questa sede, poichè consistono nell’inammissibile prospettazione di un diverso apprezzamento delle risultanze processuali, ovvero in una inammissibile reiterazione delle censure svolte in secondo grado.

Inoltre, la ricorrente, per denunciare il vizio motivazionale, nella parte non risolventesi in una assertiva deduzione di erroneità della sentenza, si è limitata ad evocare l’esistenza di contratti pubblici ulteriori rispetto a quelli valutati dalla perizia, ma, in violazione del principio di autosufficienza, neppure li ha indicati, trascrivendoli, così come si è limitata ad indicare genericamente l’esistenza di un consistente patrimonio immobiliare, non dandosi carico dell’affermazione contenuta nella sentenza in ordine alla “estrema esiguità dell’attivo rispetto al passivo” (ciò si rileva, senza peraltro considerare che i cespiti vanno apprezzati anche in rapporto all’attitudine ad essere adoperati per estinguere tempestivamente i debiti, senza compromissione – di regola – dell’operatività dell’impresa, Cass. n. 5215 del 2008, elemento questo sul quale è mancata ogni deduzione).

Analogamente, la Società ha indicato le deduzioni svolte avverso la c.t.u., senza neppure indicare quali fossero le parti di riferimento di questa che erano state contestate (trascrivendole), non svolgendo neppure gli argomenti che potrebbero confortare l’eventuale decisività delle deduzioni concernenti i due contratti oggetto delle deduzioni riportate nel ricorso a pg. 10.

In definitiva, il ricorso va rigettato; le spese della presente fase seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese della presente fase, che liquida in complessivi Euro 4.000,00, di cui Euro 200,00, per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 4 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2010

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