Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26909 del 05/10/2021

Cassazione civile sez. trib., 05/10/2021, (ud. 05/07/2021, dep. 05/10/2021), n.26909

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. est. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. R.G. 372/2015, proposto da:

P.M., rappresentato e difeso dall’avv. Sergio Galleano e

dall’avv. Elisa Bonzani, elettivamente domiciliato presso lo studio

dell’avv.to Sergio Galleano, sito in Roma, Via Germanico n. 172,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 2275/14 depositata in data 05 maggio 2014,

della Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione

distaccata di Brescia, (di seguito, CTR), non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 luglio 2021

dal Consigliere Rosita D’Angiolella.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La sentenza impugnata con il ricorso in cassazione in esame è stata emessa a seguito di rinvio disposto da questa Corte, con la sentenza n. 16080 del 22 luglio 2011, che, in accoglimento del ricorso dell’Agenzia dell’entrate, ha cassato, con rinvio, la sentenza n. 139/65/2005 della CTR della Lombardia che aveva a sua volta accolto l’appello del contribuente P.M..

2. Dalla narrativa della sentenza di questa Corte, così come pure dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata e del ricorso, risulta che la Guardia di finanza di Brescia segnalava all’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Gardone Val Trompia di aver riscontrato, attraverso indagini bancarie volte ad accertare la sussistenza di reati di usura, una consistente disponibilità di denaro contante, assegni e altri titoli, affluiti confluita sui vari conti correnti bancari, per un importo pari a Lire 2.183,949.654, riferibili a P.M. e ritenuti sproporzionati rispetto alle possibilità economiche di quest’ultimo, il quale non disponeva di redditi di lavoro o di altra fonte, mentre la moglie disponeva dei modesti redditi di operaia. A seguito di tale verifica, l’Agenzia delle entrate notificava a P.M. avvisi di accertamento per Irpef, contributo al SSN e contributo straordinario di solidarietà, per gli anni 1993 e 1994, ritenendo che le disponibilità finanziarie del P. costituissero proventi illeciti tassabili nella categoria di reddito prevista dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81, lett. l). P.M. propose ricorso avverso tali avvisi deducendo il difetto di motivazione degli avvisi di accertamento, motivati per relationem alla segnalazione della Guardia di finanza, non allegata né conosciuta dal contribuente, nonché, nel merito, l’infondatezza della pretesa fiscale in quanto fondata su una serie di presunzioni a catena, rimaste prive di riscontri probatori oggettivi. In particolare, assumeva l’errore dell’Ufficio per aver considerato che le sue disponibilità finanziarie derivassero dal reato di usura contestato nel procedimento penale (conclusosi con la sua assoluzione), e che costituissero proventi illeciti tassabili nella categoria dei redditi diversi di cui all’art. 81 T.U.I.R., senza considerare che le movimentazioni bancarie erano tutte riconducili alla sua attività di giocatore d’azzardo del ricorrente; contestava, altresì, le modalità di quantificazione del maggior imponibile ripreso a tassazione che comprendeva non solo gli ipotizzati interessi usurari pari a Lire 337.741.400 ma anche l’intero capitale dei prestiti a lui restituiti dai suoi compagni di gioco; deduceva altresì, l’inapplicabilità ai redditi relativi al periodo d’imposta 1993, del regime di tassazione dei proventi da illecito di cui alla L. 24 dicembre 1993, n. 537, trattandosi di fatti verificatisi anteriormente alla data dell’entrata in vigore di quest’ultima normativa.

Con sentenza del 7 giugno-10 luglio 2001, la Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso del contribuente dichiarando la nullità dell’avviso di accertamento per mancata allegazione della segnalazione della Guardia di finanza dalla quale si sarebbe dovuto evincere l’adempimento o meno delle prescrizioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32. L’Ufficio appellava tale pronunzia innanzi alla Commissione tributaria regionale che respingeva l’appello confermando in toto la sentenza di prima sia in ordine alla nullità dell’avviso di accertamento sia, nel merito, per insussistenza della fonte illecita dei proventi essendo stato il P. assolto con formula piena dal reato di usura.

3. Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale l’Amministrazione finanziaria propose ricorso per Cassazione chiedendo la cassazione della sentenza di secondo grado.

4. Con la sentenza n. 16080 del 2011, questa Corte ha accolto il primo motivo di ricorso (con il quale l’Amministrazione censurava la sentenza di secondo grado per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, del D.Lgs. n. 230 del 2002, art. 1, degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., e dell’art. 11 preleggi, nonché carenza e contraddittorietà della motivazione), affermando, tra l’altro, la validità dell’avviso per essere stato compiutamente motivato con riferimento al “fatto che dalle indagini bancarie era emerso che sui conti correnti bancari del contribuente risultavano versamenti per Lire 2.183.949.654 per i quali appariva non esservi alcuna giustificazione e che quindi apparivano configurabili come proventi illeciti tassabili ai sensi della L. n. 537 del 1993, art. 14, nella categoria di reddito prevista dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81”, nonché ritenendo che “La sentenza impugnata, peraltro, non ha commisurato a tali specificazioni la propria statuizione limitandosi ad espressioni generali e generiche prive di specifico riferimento al caso concreto. In tal modo essa appare aver fatto propria una concezione della motivazione dell’avviso di accertamento, quale quella enunciata dalla Commissione tributaria provinciale, che non ha invece legittimità nel nostro ordinamento, posto che l’atto impositivo deve enunciare il presupposto di fatto dell’imposizione ma non anche le prove circa la sussistenza di tale presupposto di fatto e tanto meno deve dar conto delle procedure di indagine seguite dagli organi di polizia tributaria e delle modalità con cui tali indagini si sono svolte.”. Ha accolto, altresì, il secondo motivo di ricorso dell’Agenzia delle entrate (con il quale si denunziava la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e dell’art. 81 t.u.i.r., nonché carenza e contraddittorietà della motivazione) affermando che: “La sentenza di assoluzione in sede penale per mancanza di uno degli elementi costitutivi (all’epoca) del resto di usura contestato al P. può determinare l’esclusione della qualificazione dei versamenti come proventi da illecito ma non esclude la configurabilità di essi come redditi imponibili – eventualmente come redditi “diversi” ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81 – suscettibili di essere posti a base delle rettifiche ove il contribuente non abbia dimostrato che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine”. Nel cassare la sentenza della CTR, ha specificato che: “La cassazione travolge anche la pronunzia della Commissione tributaria provinciale in materia di spese del giudizio. La mancata proposizione di una specifica censura al riguardo da parte dell’Agenzia delle entrate riguarda solo il profilo della liquidazione ma non anche quello dell’an, che è ovviamente e automaticamente dipendente dall’accoglimento o dalla reiezione della richiesta di cassazione”, rinviando al giudice di merito anche per le spese.

5. Il contribuente, ha riassunto il giudizio innanzi alla CTR chiedendo (come si legge a pag. 2 della sentenza impugnata): “in via principale la conferma della sentenza di primo grado, l’annullamento degli avvisi di accertamento; in via subordinata nel merito, nelle denegata ipotesi di rigetto della domanda principale, la riduzione ad equità ed a congruità dei maggiori redditi accertati o, comunque, a quanto era stato accertato in sede penale”, oltre al rimborso delle spese di tutti i gradi di giudizio, compreso quello penale. Dal canto suo, l’Agenzia delle entrate, costituitasi innanzi al giudice del rinvio, ha chiesto la riforma della sentenza n. 139/65/2005 della CTR con il rispetto di quanto statuito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 16080 del 2011.

6. La CTR della Lombardia, con la decisione qui impugnata, ha così provveduto: “in riforma della decisione impugnata rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. Spese compensate”. Nel percorso motivazionale la CTR, dopo aver evidenziato che il contribuente aveva “sostanzialmente reiterato le censure già esposte nei precedenti gradi di giudizio”, ha ritenuto, quanto al difetto di motivazione degli avvisi di accertamento per mancata allegazione della segnalazione della Guardia di Finanza, che alcun diritto di difesa era stato violato, avendo l’Ufficio riportato dettagliatamente, nell’avviso di accertamento, gli elementi essenziali della pretesa tributaria; quanto alla tassabilità, come redditi diversi, si è conformata ai principi di diritto affermati dalla sentenza di rinvio, ribadendo che l’atto impositivo deve enunciare il presupposto di fatto dell’imposizione ma non anche le prove circa la sussistenza di tale presupposto di fatto e che, in ogni caso, la sentenza penale di assoluzione era irrilevante ai fini della tassabilità dei proventi ex art. 81 t.u.i.r., così come il contribuente non aveva fornito prova idonea a contrastare le risultanze l’accertamento dell’Ufficio (“carenza di documentazione probante alla corretta azione accertatrice”).

7. P.M. propone ricorso per cassazione affidato ad otto motivi.

8. L’Agenzia delle entrate è rimasta intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il ricorso è infondato.

1.1. Con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 394 c.p.c., per aver i secondi giudici, a dire del ricorrente, esaminato “le statuizioni dei giudici di secondo grado” senza pronunciarsi sulla sentenza di primo grado avverso la quale era stato proposto l’appello del contribuente.

1.2. La censura è destituita di fondamento non solo perché la statuizione dei secondi giudici è chiaramente volta alla riforma integrale della sentenza di primo grado (“PQM: in riforma della decisione impugnata, rigetta ricorso introduttivo del contribuente. Spese compensate”), ma anche perché i giudici di rinvio, nel rispetto del perimetro che caratterizza il giudizio di rinvio di cui all’art. 394 c.p.c., nell’esaminare nuovamente la controversia, si sono uniformati ai principi di diritto enunciati da questa Corte con la sentenza n. 16080 del 2011.

1.3. Circa i limiti dei poteri di controllo del giudice di rinvio, questa Corte, con orientamento mai contrastato e che qui si fa proprio, afferma che i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni, in quanto nella prima ipotesi (come accaduto nella controversia in esame ove è stato accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate su due motivi di ricorso entrambi afferenti alla violazione e falsa applicazione di legge), il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas iudicandi”, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (così, Cass., 07/08/2014, n. 17790; Cass., 10/12/2015, n. 24976; Sez. 6-5, 18/04/2017, n. 9768; Sez. 5, 31/10/2018, n. 27823).

2. Il secondo e terzo mezzo, poiché riguardano connessioni di censure, vengono esaminati congiuntamente. Con essi, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, l’omessa pronuncia circa il rispetto del requisito della motivazione degli atti impugnati, in violazione dell’art. 112 c.p.c. (secondo mezzo) e la violazione delle norme che prevedono l’obbligo di motivazione degli atti impositivi, e, quindi, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, e della L. n. 241 del 1990, art. 3 (terzo mezzo).

2.1. Contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, i giudici di rinvio non hanno affatto omesso di pronunciarsi sulla questione proposta (v, sentenza pag. 3, terzo capoverso: “(…) il contenuto di detta segnalazione è stato trasfuso negli avvisi di accertamento, quindi l’Ufficio non si è limitato a rinviare per relationem alla segnalazione della gdf, ma ha riportato dettagliatamente ed in modo autonomo gli elementi di fatto essenziali sui quali ha ritenuto fondata la pretesa tributaria (…) non vi è stata alcuna violazione del diritto di difesa (…) è risultato dalle indagini che (…)”, né, nel farlo, hanno violato il principio di diritto affermato nella decisione rescindente (“…l’atto impositivo deve enunciare il presupposto di fatto dell’imposizione ma non anche le prove circa la sussistenza di tale presupposto di fatto e tanto meno deve dar conto delle procedure di indagine seguite dagli organi di polizia tributarla e delle modalità con cui tali indagini si sono svolte”), in quanto la CTR ha verificato, con un accertamento in fatto, insindacabile in questa sede, che la motivazione dell’avviso di accertamento conteneva tutti gli elementi idonei a mettere in condizione il contribuente di esercitare il proprio diritto di difesa.

2.2. A tal fine appare utile ribadire che è ampiamente sufficiente a giustificare la motivazione per relationem il rinvio che l’avviso di accertamento faccia ai verbali di verifica, nonostante la mancata allegazione, essendo stato riprodotto nell’atto (v. sentenza impugnata) il contenuto essenziale, così mettendo il contribuente in condizioni di individuare gli elementi essenziali dell’atto richiamato e, conseguentemente, di esercitare il proprio diritto di difesa senza alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. 5, 23/02/2018, n. 4396; cfr. Sez. 6-5, 04/06/2018, n. 14275).

3. Col quarto motivo di ricorso il ricorrente deduce la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla mancanza di attivazione del contraddittorio preventivo, nell’ambito delle indagini finanziarie, in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

3.1. Tale mezzo è inammissibile perché non supera lo scrutinio di ammissibilità, ex 360-bis, n. 1) c.p.c., alla stregua dei principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 7155 del 21/03/2017 (“In tema di ricorso per cassazione, lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c., e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti””).

3.2. Ed invero, oltre alla considerazione che il vizio di omessa pronuncia non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto (implicito) o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 29191 del 06/12/2017; Cass., 26/07/2019, n. 17066), in tema di contraddittorio preventivo è principio consolidato che la convocazione del contribuente in sede amministrativa, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32, attribuisce all’Ufficio una mera facoltà, il cui mancato esercizio non determina l’illegittimità della verifica operata sulla base dei medesimi accertamenti; ciò in quanto, atteso il tenore letterale della disposizione richiamata (“per l’adempimento dei loro compiti gli Uffici possono invitare i contribuenti…”) e la discrezionalità espressamente prevista, non può ritenersi obbligatoria la convocazione del contribuente in sede amministrativa prima dell’accertamento; né tale discrezionalità viola il diritto di difesa, potendo l’Ufficio procedere al ritiro eventuale del provvedimento, nell’esercizio del potere di autotutela, in caso di osservazioni e/o giustificazioni proposte dall’interessato (così, Sez. 5, 15/05/2013, n. 11624; id., Sez. 6-5, 27/02/2019, n. 5777 e Sez. 5, 20/12/2019, n. 34209).

4. Con i motivi quinto e sesto il ricorrente reitera la questione, sollevata in tutti i gradi di merito ed affrontata anche dalla sentenza n. 16080/11 di questa Corte, riguardante la provenienza della somme rinvenute sui conti correnti bancari, censurando la sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione di legge (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 917 del 1986, art. 81), là dove pur ammettendo che la sentenza penale di assoluzione aveva escluso la qualificazione di illiceità dei proventi, ha poi ritenuto che i medesimi proventi fossero comunque imponibili come redditi diversi D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 81, contravvenendo il principio di non modificabilità degli atti impositivi (quinto motivo), nonché quello di tassatività dei cd. redditi diversi (sesto motivo).

4.1. Anche in tal caso, i due motivi – che si esaminano congiuntamente per connessione di censure – sono inammissibili non superando lo scrutinio di ammissibilità ex 360-bis c.p.c., n. 1) (cfr., Sezioni Unite n. 7155 del 21/03/2017).

4.2. Del tutto eccentriche risultano le censure proposte rispetto ai principi consolidati di questa Corte circa il potere di controllo del giudice tributario sull’atto impugnato, che, in quanto afferente ad un giudizio cd. di “impugnazione-merito”, non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio. Ne consegue che il giudice tributario, nell’esercizio di tale potere, per pronunciarsi sulla legittimità dell’avviso è tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria per poi ricondurla, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (v. Sez. 5, 19/09/2014, n. 19750; id. Sez. 5, 30/10/2018, n. 27560). Vieppiù, trattandosi di apprezzamento di fatto, il giudice di merito è libero di trarre il proprio convincimento dagli elementi posti al suo esame ed il suo giudizio è insindacabile in questa sede (cfr. Sez. U., 12/11/2020, n. 25573, secondo cui “la deduzione del vizio di violazione di legge non determina, per ciò stesso, lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, occorrendo che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente”).

6. Col settimo motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso del giudizio costituito dalla circostanza che nel corso del procedimento penale è stata accertata la sussistenza del nesso eziologico tra le somme versate sui conti correnti ed il gioco di azzardo. Con l’ottavo, denunciando la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver i secondi giudici tratto argomenti di prova dagli elementi acquisiti nel processo penale.

6.1. Anche tali mezzi sono inammissibili, richiedendosi con essi una revisione delle valutazioni e delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito, insindacabili in questa sede.

Va ribadito che spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di valutare le fonti del suo convincimento, di controllare la concludenza delle prove e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute idonee a dimostrare – secondo il suo libero apprezzamento – la veridicità dei fatti sottesi, dando prevalenza all’una o all’altra a seconda della maggiore o minore evidenza probatoria. Peraltro il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (settimo motivo) è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ma non già quando, come nella specie, vi sia difformità rispetto alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, trattandosi, altrimenti, di un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni del giudice di merito estranea alla natura del giudizio di cassazione (cfr. Cass., Sez. U., 25/10/2013, n. 24148).

7. In conclusione, il ricorso deve essere interamente rigettato.

8. Nulla si provvede in ordine alle spese del presente giudizio, in quanto l’Amministrazione erariale, vittoriosa, è rimasta intimata.

PQM

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della V Sezione Civile, il 5 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2021

 

 

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