Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26900 del 29/11/2013


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 26900 Anno 2013
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

processo ai sensi
della legge n. 89
del 2001

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato
e difeso “ex lege” dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato presso i suoi
uffici, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; – ricorrente —
contro
CARPENTIERI GABRIELLA; VENEZIA MARIA VINCENZA; CARPENTIERI
MADDALENA e CARPENTIERI MAURO CARMELO;

– intimati –

avverso il decreto della Corte d’appello di Napoli relativo al proc. n. 6601/’08 V.G.,
depositato in data 20 settembre 2011 (e non notificato).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 4 ottobre 2013

dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

Ignazio Patrone, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Data pubblicazione: 29/11/2013

Ritenuto in fatto
I sigg. Carpentieri Gabriella, Venezia Maria Vincenza, Carpentieri Maria Maddalena e
Carpentieri Mauro Carmelo chiedevano alla Corte d’appello di Roma, con ricorso
ritualmente depositato, il riconoscimento dell’equa riparazione, ai sensi della legge

dal loro dante causa Carpentieri Armando, con atto di citazione notificato nel
novembre 1988 dinanzi al Tribunale di Benevento, definito con sentenza depositata
nel maggio 2007, invocando la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento
dei danni non patrimoniali subiti per la irragionevole durata del predetto giudizio.
Nella costituzione del resistente Ministero, l’adita Corte di appello, con decreto
depositato il 20 settembre 2011, accertava l’irragionevole ritardo del suddetto
giudizio nella durata di anni quindici (detratto il periodo di sei mesi per ritardo non
addebitabile all’organizzazione giudiziaria) e condannava l’Amministrazione
convenuta al pagamento, “pro quota” per ciascuno dei ricorrenti in base ai loro diritti
ereditari, della somma di euro 15.000,00 (liquidando l’importo di euro 1000,00 per
ciascuno dei 15 anni), oltre interessi dalla notifica originaria del ricorso, con ulteriore
condanna della stessa Amministrazione alla rifusione delle spese giudiziali.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) ha proposto ricorso per cassazione il
Ministero della Giustizia, con atto spedito per la notificazione il 5 novembre 2012,
sulla base di due motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa
sede.

Considerato in diritto
1. Con il primo motivo dedotto il Ministero ricorrente ha denunciato (ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c.) il vizio di omessa od insufficiente motivazione del decreto
impugnato con riferimento alla ricostruzione della durata irragionevole effettiva del

– 2 –

24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di un giudizio risarcitorio instaurato,

giudizio presupposto, sull’assunto che non fossero state adeguatamente considerate
le attività dilatorie o per altre ragioni processuali imputabili alle parti private.
2. Con il secondo motivo il Ministero ricorrente ha dedotto il vizio di insufficiente e
contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia relativo ai criteri di

capitolina, quantificato in modo difforme rispetto ai parametri individuati sia dalla
giurisprudenza della CEDU che da quella della Corte di cassazione.
3. Il primo motivo appare fondato per i motivi che seguono.
E’ risaputo, sul piano generale, che nel giudizio per l’equa riparazione per la
violazione del termine di durata ragionevole del processo, a norma dell’art. 2, comma
secondo, della legge n. 89 del 2001, la parte assolve all’onere di allegazione dei fatti
costitutivi della domanda esponendo gli elementi utili a determinare la durata
complessiva del giudizio presupposto, salvi i poteri della Corte d’appello adita di
accertare, d’ufficio o su sollecitazione dell’Amministrazione convenuta, le cause che
abbiano giustificato in tutto o in parte la durata del procedimento (cfr. Cass. n. 2207
del 2010). E’ anche risaputo che il danno patrimoniale indennizzabile come
conseguenza della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi
della legge 24 marzo 2001, n. 89, è soltanto quello che costituisce “conseguenza
immediata e diretta” del fatto causativo (art. 1223 c.c. richiamato dall’art. 2, comma 3,
legge cit. attraverso il rinvio all’art. 2056 stesso codice), in quanto sia collegabile al
superamento del termine ragionevole e trovi appunto causa nel non ragionevole
ritardo della definizione del processo presupposto. Si è, altresì, puntualizzato che, in
tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del
processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, solo il danno patrimoniale,
diversamente da quello non patrimoniale (per il quale occorre soltanto l’allegazione

3

determinazione dell’indennizzo riconosciuto in favore dei ricorrenti dinanzi alla Corte

quale conseguenza dell’irragionevole durata del processo presupposto), deve essere
oggetto di prova piena e rigorosa, occorrendo che ne siano specificati tutti gli
estremi, fra l’altro variabili da caso a caso, ovvero che ne sia possibile
l’individuazione sulla base del contesto complessivo dell’atto (cfr. Cass. n. 5213 del

Orbene, nella specie, la Corte di appello di Roma, con motivazione del tutto
apodittica, non ha ritenuto di dover ravvisare l’emergenza di condotte dilatorie
addebitabili alle parti private, avendo dato conto soltanto di dover detrarre un periodo
di sei mesi ascrivibile all’intervenuto decesso di una delle parti, senza, però,
evidenziare il complessivo percorso dello sviluppo del giudizio, protrattosi, solo in
primo grado, per quasi 19 anni, avuto riguardo alle singole fasi processuali svoltesi
ed ai comportamenti delle parti private orientati ad ottenere il mero differimento delle
udienze, alla luce delle stesse prospettazioni contenute nel ricorso proposto avanti
alla stessa Corte territoriale (come riprodotte nel ricorso della difesa erariale) e
riproposte puntualmente con l’illustrazione della censura in esame (con la possibile
configurazione di un rilevante periodo di ritardo non addebitabile alle disfunzioni
dell’Amministrazione giudiziaria, bensì alle esigenze difensive delle stesse parti
private).
Alla luce di tale complessiva argomentazione e della carente motivazione addotta
dalla Corte romana, il primo motivo deve essere ritenuto fondato, con la conseguente
relativa cassazione del decreto impugnato, a cui consegue l’assorbimento del
secondo motivo (dipendente dall’esame del precedente, siccome riguardante la
confutazione dei criteri di computo dell’indennizzo, in ordine ai quali la Corte
territoriale si è, peraltro, discostata dai parametri della giurisprudenza di questa Corte
e di quella della CEDU, alla cui stregua la quantificazione del danno non patrimoniale

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2007 e, da ultimo, Cass. n. 14775 del 2013).

deve essere, di regola, non inferiore a euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in
relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a euro
1.000,00 per quelli successivi).
4. In definitiva, sulla scorta delle ragioni esposte, va accolto il primo motivo, con la

secondo motivo, a cui si correla il rinvio della causa alla Corte di appello di Roma, in
diversa composizione, la quale provvederà anche sulle spese della presente fase di
legittimità.

PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbito il secondo; cassa il
decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del
presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma, in diversa
composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte
suprema di Cassazione, in data 4 ottobre 2013.

conseguente cassazione in merito del ricorso ed il derivante assorbimento del

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