Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2689 del 04/02/2011

Cassazione civile sez. trib., 04/02/2011, (ud. 21/09/2010, dep. 04/02/2011), n.2689

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

IDEAL STANDARD ITALIA s.r.l., elettivamente dom.ta in Roma, via

Bertoloni 29, presso lo studio dell’avvocato Pettinato Salvo, dal

quale è rappresentata e difesa, unitamente all’avvocato Giorgio, per

procura speciale in calce al ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle Entrate,

rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui sono domiciliati in Roma, via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 59/44/04 della Commissione tributaria

regionale di Milano, emessa il 15 novembre 2004, depositata il 29

novembre 2004, R.G. 2466/03;

udita la relazione della causa svolta all’udienza del 21 settembre

2010 dal Consigliere Dott. Giacinto Bisogni;

udito l’Avvocato Iacobone per la ricorrente;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La controversia ha per oggetto l’impugnazione, da parte della società contribuente Ideal Standard Italia s.r.l. (del silenzio rifiuto opposto dalla Amministrazione finanziaria alla richiesta di rimborso delle ritenute di imposta subite nell’attribuzione di dividendi e crediti di imposta da parte della società American Standard U.K. negli anni 1997 e 1998. La società contribuente riteneva tale richiesta fondata sul disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 15, relativo alla possibilità di detrazione dei crediti d’imposta per le imposte pagate all’estero. Nello specifico la Ideal Standard chiedeva il rimborso dell’intera detrazione di imposta subita e pari al 5% delle somme di L. 83.396.868.000 e di L. 58.587.631.544, percepite come dividendi, rispettivamente, nel 1997 e nel 1998, mentre l’Amministrazione finanziaria italiana riteneva che il rimborso fosse dovuto nella misura del 5% dei dividendi soggetti a tassazione in Italia (e cioè nella misura del 5% in base alla previsione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 96 bis).

La C.T.P. di Milano accoglieva il ricorso mentre la C.T.R. ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate ritenendo che l’art. 15, in combinato disposto con il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 96 e 96 bis e con l’art. 10, comma 3, della convenzione italo-inglese contro le doppie imposizioni, consente, nella specie, alla società contribuente di portare in detrazione di imposta solo la ritenuta di imposta afferente al 5% dei dividendi percepiti all’estero.

Ricorre per cassazione la s.r.l. Ideal Standard Italia affidandosi a due motivi di impugnazione.

Si difendono con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 15, 96 e 96 bis e dell’art. 10, comma 3, lett. c) della Convenzione Italia – Regno Unito contro le doppie imposizioni ratificata con la L. 5 novembre 1990, n. 329, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

La ricorrente ritiene erronea l’interpretazione della C.T.R. secondo cui la lettura, in combinato disposto, dell’art. 15 e del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 96 e 96 bis debba portare necessariamente alla limitazione della detrazione nella misura del 5% del credito d’imposta, corrispondente alla percentuale in cui i dividendi possono concorrere alla formazione del reddito imponibile.

Ritiene infatti la ricorrente che l’art. 15 abbia la funzione di evitare doppie imposizioni nazionali sulla stessa fonte di reddito e che a tal fine preveda il meccanismo consistente nel commisurare il credito d’imposta nella minor somma fra l’ammontare delle imposte pagate all’estero a titolo definitivo e la quota di imposta italiana corrispondente al rapporto tra i redditi esteri assoggettati a tassazione in Italia e il reddito complessivo. Tale meccanismo, secondo la ricorrente, non può essere messo in forse nè da una interpretazione sistematica, che ponga in relazione l’art. 15 con le disposizioni di cui agli artt. 96 e 96 bis, nè, e tantomeno, da una interpretazione letterale dell’art. 15. Si tratterebbe sotto il primo profilo di una operazione arbitraria che comporterebbe la sovrapposizione di rationes normative tutt’affatto differenti e volte, rispettivamente, a prevenire la doppia imposizione economica sullo stesso elemento di reddito in capo a soggetti diversi (società produttrice di reddito e socio percettore di dividendi) e la doppia imposizione giuridica del medesimo reddito in capo allo stesso soggetto operata da ordinamenti nazionali diversi. Sotto il secondo profilo a giudizio della ricorrente verrebbe chiaramente violato il dato testuale costituito dall’assenza, nell’art. 15, di un ulteriore limite allo scomputo delle ritenute subite rispetto al quoziente da instaurare fra redditi esteri imponibili e totale dell’imponibile soggetto a tassazione in Italia.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in ordine all’applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 15, 96 e 96 bis e dell’art. 10, comma 3, lett. c) della Convenzione Italia – Regno Unito contro le doppie imposizioni ratificata con la L. 5 novembre 1990, n. 329, in relazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Secondo la ricorrente la motivazione della C.T.R. è basata sulla valorizzazione di una circostanza irrilevante (qual’è il concorso alla formazione del reddito imponibile in Italia da parte di una percentuale pari al solo 5% dei dividendi percepiti all’estero) per interpretare l’applicazione dell’art. 15 al caso in esame con il risultato di una conclusione che non consegue affatto alle premesse e che ha portato a un risultato inaccettabile in termini di limiti alla detrazione del credito d’imposta.

I due motivi possono essere esaminati congiuntamente stante la loro evidente connessione logica e giuridica.

E’ in primo luogo rilevante la considerazione per cui la controversia si riferisce alle ritenute di imposta operate sui dividendi (che sono tassabili in Italia nella misura del 5%) mentre per i crediti di imposta maturati all’estero che hanno scontato per intero l’imposizione in Italia non esiste controversia fra le parti in quanto l’Amministrazione finanziaria italiana riconosce rispetto ad essi la detrazione dell’intera imposta detratta alla fonte dalla società controllata inglese. Questa constatazione rende peraltro manifesta l’infondatezza della tesi interpretativa della ricorrente in quanto la pretesa di portare in detrazione l’intera imposta detratta dalla società inglese sui dividendi percepiti costituirebbe una chiara violazione proprio del disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 15, che subordina la detrazione dell’imposta estera all’effettiva concorrenza dei redditi esteri alla formazione del reddito complessivo imponibile in Italia. Applicando invece la tesi della ricorrente oltre a una chiara violazione del tenore testuale dell’art. 15 si perverrebbe, nel caso in esame all’aberrante risultato di ammettere in pari proporzione la detrazione su redditi soggetti a tassazione solo per una quota pari al 5% dell’intero (e cioè i dividendi) e redditi soggetti a tassazione per l’intero (crediti d’imposta). Nè ha alcun senso sostenere che tale sperequazione va considerata non illogica in quanto i dividendi sono soggetti a tassazione nella misura del 5% del totale perchè questa limitazione compensa l’effetto della doppia imposizione economica su redditi afferenti a soggetti diversi (quali la società che produce gli utili e i soci che li percepiscono sotto forma di dividendi). Non si vede perchè tale incontestabile constatazione della ricorrente debba sovrapporsi al meccanismo previsto dall’art. 15 inteso a riequilibrare gli effetti delle doppie imposizioni giuridiche operate da ordinamenti nazionali diversi sullo stesso reddito afferente al medesimo soggetto (nella specie la società controllante odierna ricorrente) alterando il presupposto della concorrenza dei redditi esteri alla formazione dell’imponibile tassabile in Italia.

Il ricorso va pertanto respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 10.200,00 di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 settembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2011

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