Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26885 del 14/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 14/12/2011, (ud. 23/11/2011, dep. 14/12/2011), n.26885

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Presidente –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.N., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA RAGUSA 47,

presso lo studio dell’avvocato TURCO SALVATORE, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MONTAPERTO ANTONINO, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SPECIALE SILVO PASTORALE DI NICOSIA, in persona del legale

rappresentante pro tempore,elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

DEL VIGNOLA 11, presso lo studio dell’avvocato MANFREDI FEDELE DI

CATRANO, rappresentata e difesa dall’avvocato NASELLI DOMENICO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 611/2008 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 07/05/2008 R.G.N. 2078/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/11/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato TURCO SALVATORE per delega MONTAPERTO ANTONINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Palermo, a seguito di rinvio da parte di questa Corte, confermava la sentenza di primo grado con la quale era stata respinta la domanda di T.N., proposta nei confronti dell’Azienda speciale Silvio Pastorale, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimatogli dalla predetta Azienda con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e condanna di controparte al risarcimento del danno.

La Corte del merito poneva a base del decisum il rilievo fondante secondo il quale, a fronte del nomen iuris utilizzato dalla parti che evidenziava la volontà delle stesse di instaurare un rapporto di lavoro autonomo, il T. non aveva fornito la prova univoca che il rapporto nel suo concreto atteggiarsi si era svolto con le caratteristiche proprie della subordinazione. Nè, sottolineava la predetta Corte, si potevano dedurre elementi decisivi dalle dichiarazioni testimoniali atteso che la messa a disposizione di un ufficio non era dirimente e l’orario di lavoro riferito dai testi non era risultato obbligatorio.

Avverso questa sentenza il T. ricorre in cassazione sulla base di tre censure, illustrate da memoria.

Resiste con controricorso la parte intimata che, tra l’altro, deduce l’inammissibilità dell’impugnazione per violazione dell’art. 366 bis c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il T., deducendo violazione degli artt. 2094, 2222, 1362 e segg. c.c. e dell’art. 112 c.p.c., nullità della sentenza, nonchè motivazione insufficiente e contraddittoria, pone il seguente quesito: “se ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato oppure autonomo, in caso di contrasto tra i dati formali d’individuazione e qualificazione del medesimo rapporto (tra i quali il nomen iuris) e quelli fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione, sia a questi ultimi che deve darsi la prevalenza o meno”.

Con la seconda censura il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 2094, 2222 e 1362 e segg. c.c. nonchè nullità della sentenza e contraddittorietà della stessa, articola il seguente quesito: “se nel caso in cui il giudice si trova a dovere dirimere questione in ordine ad un rapporto di lavoro, dubbio in ordine alla sua reale natura (subordinata o meno) non debba tenere presenti nella sua valutazione compartiva tutte le fonti di prove, documentali e/o orali,attenendosi alla regola della puntuale motivazione sulle stesse. Ovvero possa limitarsi a valutarne solo alcune senza argomentare dell’esclusione delle altre dalla sua analisi valutativa.

O se ciò non costituisca carenza di motivazione o meno. E se nell’esame del complesso probatorio ci si debba attenere o meno alla coerenza argomentativa con le prove avanti di accedere a quelle personali valutazioni interpretative senza compiutamente argomentare sul punto”.

Con l’ultima critica il T., allegando carente ed omessa motivazione su profili qualificanti della domanda (illegittimità del licenziamento e relativa reintegra nonchè diritto al risarcimento richiesto) violazione di norme di diritto – nullità della sentenza – motivazione insufficiente (artt. 360 c.p.c., nn. 3, 4, 5 in relazione agli artt. 112-276-277 c.p.c.), pone il seguente quesito: “se, ove il giudicante ritenga di rigettare la domanda principale possa astenersi o meno dal motivare, sia pure sinteticamente, il rigetto delle altre domande conseguenti e dipendenti dalla principale”.

I motivi sono inammissibili per violazione dell’art. 366 bis c.p.c..

La giurisprudenza di questa Corte, infatti, ha chiarito che il quesito di diritto, previsto dalla richiamata norma di rito, ha lo scopo precipuo di porre in condizione la Cassazione, sulla base della lettura del solo quesito, di valutare immediatamente il fondamento della dedotta violazione (Cass. 8 marzo 2007 n. 5353) ed a tal fine è imposto al ricorrente di indicare, nel quesito, anche l’errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie ( Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759), in modo tale che dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in maniera univoca l’accoglimento od il rigetto del ricorso (Cass. S.U. 28 settembre 2007 n. 20360).

In tale prospettiva questa Corte ha affermato che, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420); ovvero quando, essendo la formulazione generica e limitata alla riproduzione del contenuto del precetto di legge, è inidoneo ad assumere qualsiasi rilevanza ai fini della decisione del corrispondente motivo, mentre la norma impone al ricorrente di indicare nel quesito l’errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759 cit.).

Pertanto questo giudice di legittimità ha rimarcato che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. deve comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo con la conseguenza che la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile (Cass. SU 30 settembre 2008 n. 24339 e Cass. 19 febbraio 2009 n. 4044).

Nella specie rileva la Corte che, relativamente alle dedotte violazioni di legge, la formulazione dei relativi quesito di diritto o del principio di cui si chiede l’applicazione, prescinde del tutto dall’indicazione, come si desume dalla su riportata trascrizione degli stessi, della diversa regola iuris posta a base della sentenza impugnata sicchè non è consentito di valutare, sulla base del solo quesito, se dall’accoglimento del motivo possa o meno derivare l’annullamento della sentenza impugnata.

L’affermazione di un principio di diritto, del resto, non è fine a sè stessa, ma è necessariamente strumentale, pur nella funzione nomofilattica, alla idoneità o meno del principio da asserire a determinare la cassazione della sentenza impugnata.

Relativamente al denunciato vizio di motivazione, poi, difetta la indicazione del fatto controverso, intesa quale sintesi riassuntiva, simile al quesito di diritto, delle ragioni che rendono, in caso d’insufficienza, inidonea la motivazione a giustificare la decisione, in caso di omissione, decisivo il difetto di motivazione e in caso di contraddittorietà, non coerente la motivazione (cfr. Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556, Cass. S.U. 18 giugno 2008 n. 16528 e Cass. S.U. 1 ottobre 2007 n. 2063).

In conclusione il ricorso va rigettato per inammissibilità dei motivi.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 50,00 per esborsi oltre Euro 3000,00 per onorario ed oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2011

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