Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26874 del 22/10/2019

Cassazione civile sez. II, 22/10/2019, (ud. 03/07/2019, dep. 22/10/2019), n.26874

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. BELLINI Ugo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Gianluca – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21853-2015 proposto da:

M.N., e N.R., rappresentati e difesi

dall’Avvocato ELISABETTA RAMPELLI, ed elettivamente domiciliati

presso lo studio della medesima in ROMA, VIA CICERONE 28;

– ricorrente –

contro

ME.CA.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1023/2015 della CORTE d’APPELLO di ROMA

depositata il 13/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

3/07/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avv. ELISABETTA RAMPELLI per i ricorrenti, che ha concluso

come in atti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con citazione notificata il 22.12.2005, ME.CA. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma M.N. e N.R., entrambi, anche quali eredi di N.A., per sentire accertare il suo diritto ex artt. 1299 e 1203 c.c. di ripetere quanto versato in virtù di cartella esattoriale n. 097 2003 10419367 22, emessa per il pagamento del credito d’imposta di registrazione, con condanna dei convenuti, ciascuno per la propria quota ovvero in via solidale, al pagamento della complessiva somma di Euro 6.129,24, oltre rivalutazione monetaria e interessi.

A sostegno della domanda l’attore spiegava che in data 6.3.1982 N.A. e M.N. avevano acquistato la proprietà di un terreno di cui era comproprietario; che gli acquirenti si erano obbligati al pagamento delle spese dell’atto di vendita, successive e conseguenti, mentre restava a carico dei venditori l’eventuale imposta INVIM; che, successivamente, a seguito di contestazione del valore dichiarato nella vendita e di successivi giudizi, la Commissione Tributaria di secondo grado, in data 24.6.1987, stabiliva il valore del terreno in Lire 26.000.000 anzichè in Lire 8.000.000, somma indicata nell’atto di acquisto; che l’attore aveva pagato le differenze INVIM dovute e che anche l’imposta di registro era stata adeguata al valore accertato del terreno; che all’uopo era stata emessa cartella esattoriale n. (OMISSIS) per Euro 10.422,20, e che, a seguito di transazione, con il pagamento di Euro 6.031,44, in data 2.3.2004, aveva ottenuto lo sgravio della cartella.

I convenuti spiegavano che N.A., nel frattempo deceduto, aveva pagato tutto ciò che era dovuto in forza del contratto di compravendita e che della vicenda relativa all’accertamento sul valore del terreno non erano mai stati messi a conoscenza, nè avevano potuto partecipare al relativo giudizio. In via preliminare, eccepivano la prescrizione del diritto azionato; nel merito chiedevano il rigetto della domanda.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 7842/2009 del 19.3.2009, rigettava la domanda spiegando che l’attore aveva chiesto la restituzione dell’intera somma corrisposta a titolo di tassa di registro azionando il diritto, scaturente dal contratto, di essere tenuto indenne dagli acquirenti dalle spese inerenti l’atto, fatta esclusione per l’INVIM. Il Giudice di primo grado riteneva che il diritto fosse prescritto.

Avverso la decisione proponeva gravame Me.Ca., contestando l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione, senza considerare la disciplina delle obbligazioni solidali e le problematiche connesse all’applicabilità della prescrizione nell’ipotesi in esame, in cui si realizzava un vincolo solidale nel rapporto con l’Amministrazione e un obbligo esclusivo di adempimento dell’acquirente nei confronti dell’alienante.

Si costituivano M.N., in proprio e nella qualità di erede di N.A., e N.R., nella qualità, eccependo che, in caso di accoglimento dell’appello, doveva evidenziarsi che si era formato il giudicato interno sull’eventuale somma dovuta dagli appellati.

Con sentenza n. 1023/2015, depositata in data 13.2.2015, la Corte d’Appello di Roma accoglieva l’appello dichiarando M.N. e N.R., tenuti a restituire all’appellante la somma di Euro 6.129,24, oltre interessi e, per l’effetto, condannava M.N. in proprio al pagamento della metà di detta somma ed entrambi gli appellati al pagamento dell’altra metà in ragione delle rispettive quote ereditarie.

Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione M.N. e N.R. sulla base di sei motivi, illustrati da memoria; l’intimato Me.Ca. non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano ex “Art. 360 c.p.c., n. 3 (la) Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1299 c.c. e dell’art. 1203 c.c. con riferimento all’art. 1309 c.c.”, osservando di avere tempestivamente eccepito di essere stati tenuti all’oscuro dell’intera vicenda fino al ricevimento della raccomandata del 4.2.2005, non avendo mai ricevuto dal Me. alcuna richiesta o comunicazione circa la contestazione sollevata dall’Amministrazione o la successiva liquidazione e richiesta di pagamento, nè circa l’esistenza di una controversia di natura fiscale o della transazione intervenuta. Viceversa il Giudice d’Appello avrebbe erroneamente ritenuto i ricorrenti tenuti al pagamento dell’intera somma pagata dall’appellante senza che potesse prospettarsi un concorso di colpa del venditore, così violando e/o applicando falsamente gli artt. 1299 e 1203 c.c., là dove la Corte di merito non ha tenuto conto che il Me. ricevuto l’avviso solo a lui indirizzato, quale obbligato solidale con l’acquirente per l’imposta di registro – aveva ritenuto di instaurare un contenzioso presso la Commissione Tributaria di I e II grado e, dopo anni, una trattativa con l’Amministrazione, alla quale i ricorrenti non avevano avuto modo di partecipare, ragione per cui l’esito dello stesso (ovvero la transazione a seguito della quale il Me. aveva pagato Euro 6.031,44 a fronte dei richiesti Euro 10.422,20) non vincolava gli acquirenti che ne erano rimasti estranei.

1.2. – Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano, ex “Art. 360 c.p.c., n. 3 (la) Violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 634 del 1972, art. 55, comma 1 nel testo modificato e vigente ratione temporis dal D.P.R. n. 131 del 1986, dell’art. 1299 c.c. e dell’art. 2935 c.c. con riferimento all’art. 1475 c.c.”, in quanto per la Corte di merito l’imposta di registro grava solidalmente su entrambe le parti mentre nei rapporti interni la stessa grava sull’acquirente, per cui il termine di decorrenza della prescrizione del diritto di regresso coincide con quello in cui il debitore solidale ha adempiuto l’intera obbligazione; con ciò confondendo l’interruzione della prescrizione del diritto del Fisco nei confronti dei debitori solidali con l’interruzione della prescrizione del presunto diritto del resistente di rivalersi in virtù del contratto si compravendita, laddove avrebbe dovuto essere fatto valere in data anteriore al 24.6.1987, quando la Commissione Tributaria di 2^ grado stabiliva il nuovo valore e il nuovo importo della tassa di registro imponendone solo al Me. il pagamento.

1.3. – Con il quinto motivo, i ricorrenti deducono ex “Art. 360 c.p.c., n. 3 (la) Violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c. (e la) Prescrizione del diritto”, là dove la Corte di merito ha ritenuto che il termine di prescrizione dovesse decorrere dal momento in cui Me. aveva corrisposto le somme.

1.4. – Con l’ultimo motivo, i ricorrenti contestano ex “Art. 360 c.p.c., n. 3 (la) Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2028 c.c. (e la) Omessa applicazione dell’art. 2043 c.c.”, in quanto, rispetto al rapporto interno, la Corte d’Appello ha configurava in capo al Me. il diritto di gestire affari altrui, mentre il resistente non aveva mai ricevuto l’incarico di occuparsi della vicenda.

1.5. – In considerazione della loro connessione logico-giuridica, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

1.6. – Essi non sono fondati.

1.6.1. – La Corte distrettuale, in accoglimento dell’appello, basa la decisione impugnata sulla affermata insussistenza della eccepita prescrizione del diritto di regresso azionato dal controricorrente. Osserva infatti che – chiarito che per il pagamento dell’imposta di registro, il D.P.R. n. 634 del 1972, art. 55, comma 1 applicabile ratione temporis (con principio ribadito anche dal D.P.R. n. 131 del 1986) prevede l’obbligo di pagamento solidale nei confronti dell’Amministrazione finanziaria (anche a prescindere dallo specifico regolamento negoziale previsto dalle parti ed espresso nell’art. 8 del contratto di compravendita del 9.3.1982), l’art. 1475 c.c. dispone che, salva diversa pattuizione, le spese necessarie alla conclusione del contratto gravano sul compratore, ivi comprese le spese accessorie quali i costi fiscali e quindi l’imposta di registro. E poichè, dunque, “in sostanza l’imposta di registro grava solidalmente su entrambe le parti mentre nei rapporti interni la stessa incombe sul compratore (…) ne consegue che il termine di decorrenza della prescrizione del diritto di regresso azionato coincide con quello in cui il debitore solidale ha adempiuto l’intera obbligazione”; così, nel caso di specie, la Corte ritiene che (essendo pacifico che il pagamento è avvenuto il 2.3.2004 e che il primo atto di messa in mora risale al 4.5.2005) “deve escludersi che il diritto si (fosse) prescritto” (sentenza impugnata, pagina 6).

La ratio decidendi della pronuncia del giudice di secondo grado (in accoglimento del gravame proposto dall’appellante che aveva dedotto l’erroneità della dell’accoglimento della eccezione di prescrizione: v. sentenza impugnata, pagina 5) si basa dunque, in via del tutto assorbente, sulla esclusione della eccepita prescrizione del diritto di regresso da parte del venditore, posta a fondamento della sentenza di primo grado.

I ricorrenti viceversa lamentano pregiudizialmente la violazione di legge sotto il diverso profilo secondo cui l’azione di regresso non spetta al coobbligato solidale quando costui abbia assunto in proprio l’obbligo di pagare una somma (a seguito di “concordato fiscale concluso con l’Amministrazione”) senza coinvolgere nel contenzioso prima e nella transazione e sgravio poi, gli altri coobbligati (Cass. n. 9859 del 2014).

Tuttavia, nella medesima decisione, questa Corte contestualmente afferma che, al contrario, l’azione di regresso spetta al coobbligato solidale che ha pagato, nella misura determinata dai rapporti interni, e quindi, in questo caso, per l’intero (senza con ciò assumersi esclusivamente in proprio l’obbligo) qualora egli abbia sostenuto il pagamento di somme certe il cui obbligo di pagamento (come nella specie evidenziato nella sentenza impugnata) gravava su tutti, in relazione alle quali il creditore (l’amministrazione finanziaria) abbia liberamente scelto di rivolgersi all’uno invece che all’altro obbligato solidale (e con questo abbia trattato e concordato, decorrendo dalla conclusione dell’accordo, e dalla certa quantificazione del dovuto, il termine di prescrizione dell’azione di regresso rispetto agli altri coobbligati in solido).

1.6.2. – Di conseguenza e coerentemente, la Corte di merito – senza con ciò avere configurato in capo all’appellante il diritto di gestire gli affari dei coobbligati (essendo la configurazione di una negotiorum gestio completamente estranea al thema decidendum) – ha altresì individuato il momento di decorrenza della prescrizione del diritto di rivalsa, non già nel momento in cui era sorto il diritto del Fisco nei confronti dei debitori solidali, bensì nel momento in cui era appunto sorto il diritto di rivalsa per l’intero del venditore sugli acquirenti, in ragione dell’effettuato pagamento di quanto accertato come dovuto alla amministrazione finanziaria, in relazione alla stipulazione del contratto de quo.

2. – Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono ex “Art. 360 c.p.c., n. 3 (la) Violazione o falsa applicazione dell’art. 1475 c.c.”, là dove la Corte territoriale avrebbe erroneamente deciso per l’integrale restituzione al Me. dell’importo da questi versato al Fisco, ivi comprese penalità, interessi e spese di procedimento. Ciò in quanto l’esborso sostenuto dal resistente era stato determinato da una trattativa liberamente conclusa dal medesimo all’esito di un lungo contenzioso, senza che gli acquirenti fossero coinvolti. Invero, quelle che vengono ricomprese nelle “spese accessorie”, che spetterebbero all’acquirente, sono in realtà somme che il venditore aveva versato a causa della propria condotta negligente e omissiva, giacchè, ove gli odierni ricorrenti fossero stati informati dell’esistenza dell’accertamento, i medesimi avrebbero potuto decidere di adeguarsi e pagare, senza incorrere in sanzioni e interessi.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – La Corte di merito, con esplicito richiamo all’art. 1475 c.c. (reiterato nel contratto intercorso fra le parti), ha del tutto coerentemente affermato che gli appellati (acquirenti) “sono tenuti al pagamento della intera somma pagata dall’appellante ivi comprese eventuali soprattasse e le penalità inerenti alla imposta di registro senza che possa prospettarsi un concorso di colpa del venditore”. Ciò in applicazione del principio di diritto secondo cui l’obbligo del compratore di pagare l’imposta di registro, quale spesa inerente alla vendita, fissato dall’art. 1475 c.c. nel rapporto con l’alienante (ferma restando la solidarietà di entrambi i contraenti nel diverso rapporto con l’Amministrazione finanziaria), si estende alla sopratassa o penalità dovuta in caso di ritardata registrazione, senza che possa configurarsi un concorso di colpa dell’alienante (nemmeno quando sia stato questi a provvedere a tale registrazione tardiva), vertendosi in tema di ulteriori effetti dell’inadempimento contrattuale del compratore medesimo (Cass. n. 9354 del 1991; nello stesso senso, Cass. n. 195 del 1995, per la quale l’obbligo del compratore di pagare l’imposta di registro quale spesa inerente alla vendita, fissato dall’art. 1475 c.c. nel rapporto con l’alienante, si estende alla sopratassa ed alla penalità dovute in caso di mancata registrazione nei termini, per l’inscindibilità, nel rapporto interno, degli effetti propri dell’inadempimento contrattuale e di quello fiscale, mentre la solidarietà fra i contraenti sancita dalla legge di registro vale solo nei rapporti con l’amministrazione finanziaria; conf. Cass. n. 5871 del 2001; Cass. n. 5106 del 1998).

3. – Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano ex “Art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 (la) Violazione o omessa applicazione degli artt. 1225 e 1227 c.c., nonchè dei principi di buona fede e correttezza, anche con riferimento al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 76 comma 1-bis, art. 52, comma 4 e art. 79: eccepibilità al condebitore che agisce in regresso (e l‘)Omesso esame di un punto decisivo della controversia oggetto di discussione”. I ricorrenti osservano che la Corte di merito non si era pronunciata su ulteriori eccezioni proposte nel giudizio di appello, riguardanti la notifica dell’avviso di rettifica e di liquidazione della maggiore imposta, e la preclusione all’Amministrazione Finanziaria della individuazione del valore effettivo dell’immobile; nè la Corte territoriale si era pronunciata sull’eccezione relativa alla condotta delle parti (ed in particolare al concorso del fatto colposo del creditore, per il silenzio serbato che avrebbe aggravato l’obbligazione posta a carico degli acquirenti.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – Da un lato, in tema di ricorso per cassazione, va rilevato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

3.3. – Dall’altro lato, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 13 febbraio 2015) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, i ricorrenti avrebbero dovuto, dunque, specificamente e contestualmente indicare il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Viceversa, nel motivo in questione della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (che sono sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’è in atti idonea indicazione. Laddove in disparte il rilievo della genericità delle deduzioni rese, non meglio specificate (nè riprodotte nel ricorso in ossequio al principio di autosufficienza), che renderebbero comunque l’asserita omissione, di per sè, priva del necessario connotato di decisività – le censure riguradano, non già l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, bensì la mera richiesta di rivalutazione di deduzioni difensive, non riferibili all’ambito di applicazione del riformato paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. sez. un. 8053 del 2014; cfr. Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).

3.4. – Sicchè (così come articolate) le censure portate dal motivo si risolvono, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando i ricorrenti di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Ma, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

4. – Il ricorso va, pertanto, rigettato. Nulla per le spese, in ragione del mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2019

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