Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26867 del 25/11/2020

Cassazione civile sez. II, 25/11/2020, (ud. 07/10/2020, dep. 25/11/2020), n.26867

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22868/2019 proposto da:

A.K., rappresentato e difeso dall’Avvocato DANILO

COLAVINCENZO, presso il cui studio a Pescara, via Anton Ludovico

Antinori 6, elettivamente domicilia, per procura speciale in calce

al ricorso del 12/7/2019;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il DECRETO n. 1687/2019 del TRIBUNALE DI L’AQUILA, depositato

il 19/6/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 7/10/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di L’Aquila, con il decreto in epigrafe, comunicato in pari data, ha respinto l’impugnazione che A.K., nato in (OMISSIS), aveva proposto avverso il provvedimento con il quale la commissione territoriale aveva, a sua volta, rigettato la domanda di protezione internazionale da lui presentata.

A.K., con ricorso notificato in data 19/7/2019, ha chiesto, per tre motivi, la cassazione del decreto.

Il ministero dell’interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, intitolato “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 6, 7, 8 e art. 14, lett. b) e c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, art. 27, comma 1 bis e art. 35 bis, comma 13, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che la narrazione dei fatti svolta dal richiedente non era credibile e non ha, quindi, provveduto, nonostante la produzione da parte del richiedente di documentazione estratta da fonti ufficiali sulla Nigeria, come il rapporto di Amnesty International 2017-2018 e la scheda sullo stesso Paese pubblicata dal portale del Ministero degli esteri “(OMISSIS)”, al necessario approfondimento istruttorio sull’effettiva capacità delle istituzione statuali, delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario di fornire protezione rispetto alle persecuzioni che ha subito, per motivi religiosi, all’interno della propria famiglia.

1.2. Con il secondo motivo, intitolato “omesso e/o contraddittorio esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale, omettendo di valutare i documenti prodotti dal richiedente sulla generale condizione socio-politica della Nigeria come l’estratto dal sito “(OMISSIS)” ed il rapporto di Amnesty International, quale sufficiente principio di prova idoneo ad esaurire l’onere probatorio in capo al richiedente secondo i criteri previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5, non ha provveduto alla correlazione fra tali allegazioni istruttorie e la vicenda personale di quest’ultimo, per valutare se la sua condizione soggettiva determini un idoneo livello di vulnerabilità tale per cui lo stato di insicurezza e di sospensione dei diritti fondamentali nel suo Paese d’origine costituisca per lo stesso una minaccia grave e individuale ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), così come interpretato dalla Corte di Giustizia Europea, non avendo considerato, anche ai fini della protezione umanitaria, secondo gradualità, le correlazioni esistenti fra condizioni individuali di rischio e condizioni oggettive di violenza generalizzata nel Paese di provenienza che emergono dalle fonti ufficiali.

2.1. Il primo ed il secondo motivo, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

2.2. In effetti, in tema di protezione internazionale, l’accertamento del giudice del merito deve avere, anzitutto, ad oggetto la credibilità soggettiva del richiedente il quale, infatti, ha l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (cfr. Cass. n. 27503 del 2018).

Il richiedente, invero, è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, ed, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora lo stesso, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 8367 del 2020, in motiv.; Cass. n. 15794 del 2019; conf., Cass. n. 19197 del 2015).

La valutazione d’inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente – che deve, però, avere riguardo non già ad elementi isolati e secondari o addirittura insussistenti ma piuttosto al profilo decisivo e centrale del racconto (cfr. Cass. n. 10908 del 2020) – costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. n. 27503 del 2018) che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze, dedotte in giudizio, la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una differente ricostruzione dei fatti idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata.

2.3. Nel caso di specie, il tribunale ha ritenuto che il racconto del ricorrente non fosse credibile.

Ora, a fronte di tale apprezzamento, del quale il tribunale ha esposto le ragioni in modo nient’affatto apparente o contraddittorio, il ricorrente non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, pur se dedotti in giudizio, sia stato del tutto omesso dal giudice di merito, nè, infine, la loro decisività ai fini di una diversa pronuncia a lui favorevole, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio.

2.4. Ed è, peraltro, noto che l’inattendibilità del racconto del richiedente, così come (oramai incontestabilmente) accertata dai giudici di merito, costituisce motivo sufficiente per negare tanto il riconoscimento dello status di rifugiato, quanto la concessione della protezione sussidiaria dallo stesso invocata ai sensi del cit. D.Lgs. n. 251, art. 14, lett. a) e b).

2.5. Il giudizio d’inattendibilità svolto dal tribunale si sottrae, del resto, alle censure svolte dal ricorrente sotto il profilo dell’omesso esame, quale fatto asseritamente decisivo, della dedotta corrispondenza tra l’allegato rischio per la vita o l’incolumità fisica del richiedente e la situazione socio-politica in cui, come attestato da fonti ufficiali, versa il Paese di provenienza.

E’, in effetti, senz’altro vero che, in tema di protezione internazionale e umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui all’art. 5, comma 3, lett. c, del D.Lgs. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento, sicchè è compito dell’autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale (cfr. Cass. n. 26921 del 2017).

Tale principio, tuttavia, non esclude affatto che, con particolare riguardo alla vicenda personale del richiedente, posta a fondamento della domanda di protezione, il giudice debba vagliare la credibilità delle dichiarazioni del ricorrente, ove non suffragate da prove, anche sul piano della loro tenuta logica.

Ed invero, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, al comma 5, stabilisce che “qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che:… c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone;… e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.

Alla stregua del chiaro dato normativo, dunque, le dichiarazioni del richiedente ben possono essere suffragate da prove. Se così non è, viceversa, tali dichiarazioni sono sottoposte ad una verifica di credibilità (“… essi sono considerati veritieri…”).

Tale verifica comporta, oltre che un duplice controllo di coerenza (la coerenza intrinseca del racconto e quella estrinseca concernente le informazioni generali e specifiche di cui si dispone), anche un equiordinato controllo di plausibilità, sicchè il racconto deve essere per l’appunto accettabile, sul piano razionale, sia quanto a coerenza, sia quanto a plausibilità, e deve essere cioè attendibile e convincente, come dimostrato dall’uso della congiunzione “e” (“…coerenti e plausibili e non sono in contraddizione…”).

Tale giudizio di plausibilità, direttamente riferito alle dichiarazioni, si risolve, infine, nel complessivo scrutinio di attendibilità del richiedente previsto alla lett. e) della disposizione, da compiersi a mezzo dei “riscontri effettuati”, espressione da intendersi riferita non soltanto ad eventuali riscontri esterni, ove disponibili, ma anche alla verifica di logicità del racconto, per cui i riscontri non attengono soltanto al dato estrinseco delle “informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso”, ma anche all’intrinseca credibilità razionale della narrazione.

Il menzionato controllo di logicità, lungi dal presentarsi quale appesantimento della posizione del richiedente, è viceversa espressione del favore che l’ordinamento riserva alla domanda di protezione internazionale, la quale, come emerge dal principio poc’anzi richiamato, non è rigidamente governata dal principio dell’onere della prova, giacchè non soltanto il giudice, in determinati frangenti, ha il dovere di acquisire d’ufficio il necessario materiale probatorio, in particolare quello che concerne la situazione del paese di provenienza (si veda il comma 3 della richiamata disposizione), ma gli è consentito addirittura di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto: e tuttavia, proprio perchè si tratta di ritenere provati fatti che non lo sono, occorre almeno che essi reggano ad un giudizio di controllo di logicità, senza di che non resterebbe al giudice, una volta operata la verifica di coerenza intrinseca ed estrinseca, che prendere supinamente atto della domanda proposta, accogliendola in ogni caso, per quanto strampalata possa apparire, per l’ovvia considerazione che il tribunale, se è in condizione di stabilire quale sia la situazione complessiva in cui versa il Paese di provenienza non ha la benchè minima possibilità di accertare in concreto se la narrazione dei fatti riferita dal richiedente sia vera o inventata di sana pianta.

In definitiva, una volta che il giudice di merito abbia doverosamente effettuato il controllo di logicità del racconto del richiedente, la valutazione compiuta sul punto non è sindacabile in sede di legittimità sul piano della violazione di legge, ma solo nei limiti del sindacato motivazionale consentito dall’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, trovando applicazione il principio per cui, in materia di protezione internazionale, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, obbliga il giudice a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche – com’è accaduto nel caso di specie – ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, che è sottratta al controllo di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 21142 del 2019, in motiv.; così anche Cass. n. 11925 del 2020, per cui, in materia di protezione internazionale, la valutazione di affidabilità del richiedente è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici, indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, oltre che di quelli generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare circa la veridicità delle dichiarazioni rese, per cui il giudice è tenuto a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, i cui esiti in termini di inattendibilità costituiscono apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

Il tribunale, infatti, ha ritenuto la narrazione dei fatti svolta dal richiedente, “di fronte a… clamorose e chiare incongruenze logiche e fattuali”, non fosse credibile ed ha, quindi, correttamente escluso, in mancanza di tale necessario riscontro, ogni rilievo alla situazione socio-politica del suo Paese di provenienza: la cui mancata valutazione, pertanto, non si configura come omesso esame circa un fatto decisivo.

Del resto, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato politico sono la condizione socio-politica e normativa del Paese di provenienza e la correlazione di questa con la specifica posizione del richiedente, senza che possa ricavarsi sillogisticamente la seconda dalla prima, rilevando, invece, la situazione persecutoria di chi (per l’appartenenza ad etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze o stili di vita) rischi verosimilmente specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità fisica o libertà personale (Cass. n. 26822 del 2007).

2.6. Il tribunale, inoltre, ha ritenuto che, pur sussistendo sia nello Stato di Lagos che a Benin City il rischio di attentati, non risulta documentata, in quelle zone della Nigeria, una situazione di violenza indiscriminata d’intensità tale da rappresentare un rischio derivante dalla semplice residenza in quelle zone.

Si tratta, com’è evidente, di un apprezzamento fattuale, non censurato dal ricorrente, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa uno o più fatti storici decisivi specificamente indicati, a fronte del quale la decisione conseguentemente assunta dal giudice di merito, certamente non illogica e contraddittoria rispetto ai dati accertati, si sottrae alle censure svolte in ricorso.

In effetti, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale sussiste (in conformità della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE: sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12) solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati ovvero tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve avere, pertanto, raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019).

2.7. Quanto al resto, la Corte non può che ribadire il principio per cui, in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, il ricorrente ha il dovere – che, però, nel caso di specie è rimasto inadempiuto di indicare in modo specifico gli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, con il preciso richiamo, anche testuale, alle fonti di prova proposte, alternative o successive rispetto a quelle utilizzate dal giudice di merito, in modo da consentire alla Suprema Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (cfr. Cass. n. 26728 del 2019).

3. Con il terzo motivo, intitolato “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha negato la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria senza valutare la sua fede religiosa cristiana e la condizione di vulnerabilità in cui lo stesso, in ragione della sua integrazione, verrebbe a trovarsi se facesse rientro nel suo Paese d’origine.

4.1. Il motivo è infondato. La protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 5358 del 2019; Cass. n. 23604 del 2017). I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, prima dell’intervento attuato con il D.L. n. 113 del 2018, erano accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018).

4.2. Nel caso di specie, il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal ricorrente rilevando l’insussistenza tanto di una situazione di personale vulnerabilità del richiedente quanto di un serio percorso d’integrazione da parte dello stesso.

Si tratta di un apprezzamento in fatto che, come detto, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze decisive che, però, il ricorrente, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non ha specificamente indicato: non può, in effetti, a tal fine rilevare il fatto costituito dalla fede religiosa del richiedente che, a suo dire, il tribunale avrebbe del tutto trascurato di considerare se non altro perchè, ad onta di quanto affermato al riguardo dalle Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), il ricorrente non ha adempiuto all’onere, previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di indicare specificamente in quale atto processuale il richiedente, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, aveva dedotto in giudizio il fatto storico, come sopra descritto, che il tribunale, benchè decisivo ed oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, avrebbe del tutto omesso di esaminare.

4.3. D’altra parte, come di recente evidenziato da Cass. n. 8367 del 2020, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (applicabile ratione temporis: cfr. Cass. SU n. 29459 del 2019), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su un’effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018). Tale comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che il tribunale, con apprezzamento in fatto rimasto incensurato, ha, tuttavia, escluso.

5. I motivi articolati in ricorso si rivelano, quindi, del tutto infondati. Peraltro, poichè il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis n. 1 c.p.c., è manifestamente inammissibile.

6. Nulla per le spese di lite, in difetto di controricorso da parte del ministero.

7. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 7 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2020

 

 

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