Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26808 del 21/10/2019

Cassazione civile sez. II, 21/10/2019, (ud. 20/06/2019, dep. 21/10/2019), n.26808

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20817/2015 proposto da:

R. COSTRUZIONI s.p.a., in persona dell’Amministratore e legale

rappresentante R.V., rappresentata e difesa

dall’Avvocato GIUSEPPE PASQUINO, ed elettivamente domiciliata presso

lo studio dell’Avv. Antonio Pititto, in ROMA, VIA PELLEGRINO

MATTEUCCI 41;

– ricorrente –

contro

ENEL DISRIBUZIONE s.p.a., in persona del sue procuratore

M.M., rappresentata e difesa dall’Avvocato ANTONIO de NOTARISTEFANI

di VASTOGIRARDI ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in

ROMA, LUNGOTEVERE dei MELLINI 44;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3139/2014 della CORTE d’APPELLO di NAPOLI,

depositata l’8.07.2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/06/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 29.8.1996, l’ENEL s.p.a. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Napoli l’IMPRESA EDILE R.A. chiedendo la risoluzione per inadempimento del contratto di appalto del 24.6.1987 per la costruzione della sede della Zona Enel di (OMISSIS) e la condanna della convenuta al risarcimento dei danni per la maggiorazione degli oneri di oltre un miliardo di lire e dei danni da ritardo nel completamento della sede. L’attrice deduceva che: in data 25.6.1987 era stata effettuata la consegna all’Impresa R., che avrebbe dovuto procedere al completamento entro il 24.8.1989, termine prorogato più volte fino al 14.10.1990 per difficoltà tecniche addotte dall’Impresa; che, stante l’inattività dell’impresa, l’Enel comunicava la propria volontà di risoluzione contrattuale e chiedeva la riconsegna del cantiere; che in data 29.3.1990 l’Impresa R. presentava ricorso ex art. 700 c.p.c., al Pretore di Palmi per ottenere l’inibitoria alla riconsegna, ma poi all’udienza del 7.6.1990 dichiarava la sua disponibilità alla riconsegna, che avveniva in data 25.6.1990 e il Pretore pronunciava ordinanza di cessazione della materia del

contendere; che l’Enel aveva dovuto affidare il completamento delle opere ad altra impresa, sopportando oneri aggiuntivi per oltre un miliardo di lire, e aveva dovuto subire oltre 14 mesi di inattività per responsabilità dell’impresa.

Si costituiva in giudizio R.A., titolare dell’impresa convenuta, che chiedeva il rigetto delle domande, deducendo che il contratto di appalto si era risolto per comune volontà delle parti, come da verbale di constatazione e di riconsegna del 26.6.1990, sicchè nessun ritardo poteva essere imputato alla convenuta; che le proroghe del termine iniziale erano state convenute con l’Enel; che questa aveva corrisposto i vari SAL comunicando la volontà di ottenere la riconsegna del cantiere solo alla richiesta di pagamento dei SAL 13 e 14. Pertanto, spiegava domanda riconvenzionale per il pagamento della somma di Lire 195.341.397, quale saldo dei lavori effettuati e non pagati.

Per tale somma il Tribunale di Napoli emetteva ordinanza di pagamento ex art. 186 bis c.p.c., in corso di causa.

Con sentenza n. 1277/2000, depositata in data 28.1.2000, il Tribunale di Napoli rigettava la domanda principale di risoluzione contrattuale avanzata dall’Enel e accoglieva la domanda riconvenzionale avanzata dalla convenuta condannando l’Enel al pagamento della suddetta somma, oltre interessi dalla domanda al saldo e compensando le spese di lite.

Contro la sentenza proponeva appello l’ENEL DISTRIBUZIONE s.p.a., succeduta all’Enel s.p.a., ma l’impugnazione era dichiarata inammissibile dalla Corte d’Appello di Napoli con sentenza n. 1165/2002 del 10.4.2002, sul rilievo che non fosse stata prodotta la procura rilasciata al dichiarato legale rappresentante della direzione Calabria dell’Enel Distribuzione e che la procura alle liti risultava conferita da soggetto diverso da quelli aventi per legge la rappresentanza legale della società.

Avverso la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’Enel e resisteva in giudizio l’Impresa Edile R.A..

Con sentenza n. 13669/2006 del 13.6.2006 la Corte di Cassazione riteneva: a) che, ai sensi dell’art. 75 c.p.c., comma 3, la rappresentanza legale delle persone giuridiche pubbliche e private può essere effettuata a norma di legge o di statuto ed è sufficiente indicare negli atti la qualità rivestita dalla persona fisica che rappresenta la società e che tale adempimento, accompagnato dalla pubblicità legale prevista nelle ipotesi di preposizione institoria ex art. 2206 c.c. (come nella fattispecie), era idoneo a fornire le suddette garanzie, diventando onere della parte che contestava la regolarità della costituzione del rapporto processuale fornire la prova negativa; b) che l’Enel risultava rappresentata validamente da un procuratore, cui era stato conferito il relativo potere dall’amministratore delegato ai sensi dell’art. 25 dello Statuto della società, e che l’Impresa non solo non aveva tempestivamente impugnato la costituzione del rapporto processuale, ma neppure aveva fornito la prova contraria alla presunzione di validità della rappresentanza processuale. La Suprema Corte cassava la sentenza rinviando ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli per l’esame del merito dell’appello.

Enel Distribuzione s.p.a. provvedeva alla riassunzione sia nei confronti dell’Impresa R.A. che della R. COSTRUZIONI s.p.a., come da atto costitutivo della società dell’8.10.2001. L’Enel riproponeva il contenuto del primo atto di appello, deducendo l’errata ricostruzione e valutazione delle vicende contrattuali da parte del Tribunale, che aveva ritenuto intervenuta tra le parti una risoluzione contrattuale malgrado l’espresso richiamo, sia nella corrispondenza che nel verbale di immissione in possesso, all’art. 6.0 del contratto di appalto relativo alla risoluzione per inadempimento dell’appaltatore.

Restava contumace l’Impresa R.A., mentre si costituiva in giudizio la R. Costruzioni s.p.a., che deduceva l’inammissibilità della domanda avanzata nei suoi confronti quale cessionaria di azienda della ditta individuale, non risultando nei libri contabili obbligatori della cedente alcuna partita debitoria in favore di Enel e, pertanto, che non si potesse configurare alcuna responsabilità dell’acquirente in relazione ai debiti dell’azienda ceduta; e deduceva l’infondatezza nel merito dei motivi.

Con sentenza non definitiva n. 3139/2014, depositata l’8.7.2014, la Corte d’Appello di Napoli dichiarava la risoluzione del contratto di appalto del 24.6.1987 per inadempimento dell’appaltatore, disponendo il prosieguo del giudizio.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione la R. Costruzioni s.p.a. sulla base di due motivi; resiste l’Enel Distribuzione con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, la società ricorrente lamenta la “Violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, per mancata applicazione dell’art. 2560 c.c., errata applicazione dell’art. 2558”, in quanto la Corte di merito ha ritenuto che, in caso di conferimento di azienda, si verificasse il trasferimento in capo al cessionario di tutti i rapporti attivi e passivi, facenti capo all’azienda ceduta, verificandosi una successione nei contratti ex art. 2558 c.c., che non abbiano carattere personale. Ma, secondo altre decisioni di legittimità, in tale ipotesi si verifica un fenomeno traslativo consistente nella cessione dell’azienda del conferente in favore del soggetto sui viene conferita, per cui l’alienante acquista la posizione di socio della società, ma non è liberato dai debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori al trasferimento, mentre la corresponsabilità del cessionario nei confronti dei creditori aziendali postula l’intervenuta annotazione dei debiti nei libri contabili obbligatori, ai sensi dell’art. 2560 c.c., comma 2 (Cass. n. 21229 del 2006; Cass. n. 20805 del 2011). La circostanza che i debiti debbano risultare dai libri contabili obbligatori dell’alienante rappresenta dunque un elemento costitutivo della responsabilità dell’acquirente dell’azienda (Cass. n. 23828 del 2012) e, data la natura eccezionale della norma (art. 2560 c.c.) che prevede tale responsabilità, non può essere surrogata dalla prova che l’esistenza dei debiti era comunque conosciuta da parte dell’acquirente (Cass. n. 22831 del 2010).

1.1. – Il primo motivo non è fondato.

1.2. – La Corte d’appello ha ritenuto che, nella specie, trovi applicazione l’art. 2558 c.c., per cui, in caso di trasferimento dell’azienda, si verifica il subentro immediato del nuovo titolare in tutti i rapporti attivi e passivi attinenti al patrimonio aziendale,

senza soluzione di continuità, salvo restando la responsabilità dell’alienente per i debiti preesistenti se non risulta che i creditori abbiano consentito alla sua liberazione. Invero, “la successione nei contratti prevista dall’art. 2558 c.c., nel caso di cessione di azienda, è istituito diverso dalla cessione del contratto di cui agli artt. 1406 c.c. e segg., in quanto può intervenire in qualsiasi fase del rapporto contrattuale, purchè non del tutto esaurito, e quindi anche nella fase contenziosa, inerente ad una domanda di esatto adempimento, di garanzia per vizi o di risoluzione per inadempimento, con la conseguenza che il cessionario dell’azienda assume la posizione di successore e titolo particolare nel diritto controverso, ai sensi ed agli effetti dell’art. 111 c.p.c.” (Cass. n. 8219 del 1990).

1.3. – L’art. 2558 c.c., infatti, disciplina la successione in tutti questi contratti funzionali all’esercizio della azienda (in tal senso cfr. Cass. n. 15065 del 2018), che si verifica allorchè il rapporto non è del tutto esaurito (Cass. n. 10676 del 2008, in motivazione).

Questa Corte ha ripetutamente affermato che la sorte dei rapporti contrattuali pendenti all’atto del trasferimento dell’azienda sfugge alla previsione dell’art. 2560 c.c., per ricadere semmai nella previsione un’altra disposizione, specificamente dettata allo scopo di disciplinare la sorte delle vicende e dei contratti aziendali: quella contenuta nell’art. 2558 c.c., a norma del comma 1 del quale, se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale (Cass. 16 giugno 2004, n. 11318). Costituisce, dunque, principio acquisito quello per cui il regime fissato dal citato art. 2560 c.c., con riferimento ai debiti dell’azienda ceduta, sia destinato a trovare applicazione quando si tratti di debiti in sè soli considerati, e non anche quando, viceversa (come nella specie), essi si ricolleghino a posizioni contrattuali non ancora definite, in cui il cessionario sia subentrato a norma del precedente art. 2558 c.c.: queste posizioni seguono la sorte del contratto e, quindi, transitano con esso, purchè non già del tutto esaurito (Cass. n. 6107 del 2013; cfr. Cass. n. 2961 del 2013; Cass. n. 11318 del 2004).

Ed anche di recente, questa Corte ha ribadito che, in tema di cessione di azienda, il regime fissato dall’art. 2560 c.c., comma 2, con riferimento ai debiti relativi all’azienda ceduta, secondo cui di essi risponde anche l’acquirente dell’azienda allorchè risultino dai libri contabili obbligatori, si applica ai debiti in sè soli considerati, e non anche quando, viceversa, questi si ricolleghino a posizioni contrattuali non ancora definite, in cui il cessionario sia subentrato a norma del precedente art. 2558 c.c.. Ed infatti, in tal caso, la responsabilità si inserisce nell’ambito della più generale sorte del contratto non già del tutto esaurito, anche se in fase contenziosa al tempo della cessione dell’azienda (Cass. n. 8539; conf. a Cass. n. 8055 del 2018).

1.4. – Correttamente, dunque, la Corte di merito ha rilevato che la normativa di cui all’art. 2558 c.c., torni applicabile a fattispecie quali quelle in esame, qual che sia la fase in cui il rapporto contrattuale si trova, e quindi anche qualora sia in corso un contenzioso conseguente a domande di esatto adempimento, di garanzia per vizi o di risoluzione per inadempimento, con la conseguenza che il cessionario dell’azienda assume la posizione di successore e titolo particolare nel diritto controverso, ai sensi ed agli effetti dell’art. 111 c.p.c. (Cass. n. 8219 del 1990).

2. – Con il secondo motivo, la società ricorrente deduce la “Violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per errata applicazione dell’art. 2558 c.c., in combinato disposto con gli artt. 1456,1458 c.c.. Mancata applicazione di tali articoli. Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – Nullità della sentenza e del procedimento per illogicità della sentenza, con violazione dei diritti della difesa, avendo la sentenza riconosciuto la risoluzione del contratto per effetto della clausola risolutiva espressa, non tenendo conto dell’effetto risolutivo ipso iure del contratto a far data dalla raccomandata del 19.12.1989, con cui l’Enel comunicava la volontà di avvalersi di detta clausola e della solo successiva costituzione della R. Costruzioni s.p.a., avvenuta con atto costitutivo dell’8.10.2001. Il tutto in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., in combinato disposto con l’art. 1156 c.c.”. Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe dovuto applicare le conseguenti regole di diritto, giacchè l’art. 2258 c.c., può applicarsi solo ai contratti in essere, non certo rispetto a quelli non più in atto, sciolti per recesso, mutuo consenso, risoluzione. Invero, in caso di risoluzione, la successione di cui all’art. 2258 c.c., non può verificarsi in virtù dell’effetto retroattivo della risoluzione ex art. 1458 c.c. e, ancor più in caso di clausola risolutiva espressa, stante la risoluzione di diritto che si verifica, ex art. 1456 c.c., comma 2, allorchè la parte interessata dichiara di volersene avvalere, con una pronuncia che può avere solo effetto dichiarativo. La parte richiama Cass. n. 3455 del 2015, per la quale, in tema di risoluzione del contratto d’appalto, trova applicazione la regola generale dettata dall’art. 1458 c.c., circa l’efficacia retroattiva della relativa statuizione, sicchè pronunciata la risoluzione, i crediti e i debiti derivanti da quel contratto si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti. In sostanza, la sentenza impugnata è illogica e mal motivata per aver dichiarato la legittimazione passiva della R. Costruzioni in relazione a un contratto non più in essere, rispetto a una società costituita solo nel 2001.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata. Se è vero che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014). Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015).

Il motivo di ricorso, così come formulato, si connota viceversa per una confusa articolazione di una pluralità di censure eterogenee – riferite congiuntamente ed indistintamente ad asseriti vizi di violazione e/o falsa applicazione di plurime norme di legge, nonchè di nullità della sentenza per sua illogicità – prive di una precisa identificazione, necessaria, appunto, per evidenziarne e compiutamente individuarne il preciso contenuto ed analizzarne la rispettiva fondatezza o meno. Esse, viceversa, appaiono contraddistinte dall’evidente scopo comune di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018).

2.3. – A ciò va aggiunto che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Il controllo affidato a questa Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). Sicchè, in ultima analisi, tale motivo si connota quale riproposizione, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, di doglianze di merito che attingono all’apprezzamento delle risultanze istruttorie motivatamente svolto dalla Corte di merito (Cass. n. 24817 del 2018).

2.4. – Inoltre, questa Corte ha ripetutamente affermato il principio secondo cui, qualora il ricorrente per cassazione si dolga dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice del merito, ha l’onere di indicare nel ricorso il contenuto rilevante dello stesso, fornendo alla Corte elementi sicuri per consentirne il reperimento negli atti processuali (cfr. altresì Cass. n. 22576 del 2015; n. 16254 del 2012); potendo solo così reputarsi assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), senza che occorra la pedissequa riproduzione letterale dell’intero contenuto degli atti processuali, riproduzione, anzi, inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto diretta ad affidare alla Corte il compito supplementare di scegliere quanto effettivamente rileva ai fini delle argomentazioni dei motivi di ricorso, nell’ambito del copioso materiale prodotto, contenente anche elementi estranei al thema decidendum (Cass. n. 17168 del 2012). Pertanto, il ricorrente ha l’onere di indicare mediante anche l’integrale trascrizione, ove occorra, di detti atti nel ricorso – la risultanza che egli asserisce essere decisiva e non valutata o insufficientemente considerata, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative (Cass. n. 2093 del 2016; cfr., tra le molte, Cass. n. 14784 del 2015; n. 12029 del 2014; n. 8569 del 2013; n. 4220 del 2012). Ma, anche sotto questo profilo, la ricorrente non ha specificamente assolto a questo onere, non avendo riportato il contenuto del più volte richiamato capitolo 6.0 del Capitolato Generale di appalto.

2.5. – Laddove, poi, la società ricorrente (nell’assumere la illogicità e la cattiva motivazione della sentenza, per avere dichiarato la legittimazione passiva della R. Costruzioni in relazione ad un contratto non più in essere, in quanto risolto di diritto sin dal 19.12.1989 rispetto alla società costituita nel 2001) non fa altro che riproporre, in sostanza, la doglianza proposta nel primo motivo e già rigettata.

3. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 5.500,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2019

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