Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26801 del 25/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 25/11/2020, (ud. 23/09/2020, dep. 25/11/2020), n.26801

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6165/2013 R.G. proposto da:

O.P.L. e O.A., rappresentati e difesi dagli

Avv.ti Leone Maurizio ed Giglio Antonella ed elettivamente

domiciliati presso lo studio di quest’ultima, in Roma, alla via A.

Gramsci, n. 14;

-ricorrenti-

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore p.t., rappresentata e

difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici, in

Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 06/49/12 della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, depositata il 9/01/2012 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 30 gennaio

2020 dal Consigliere Giudicepietro Andreina.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

I sig.ri O.P.L. e O.A. ricorrono con quattro motivi avverso l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n. 06/49/12 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 9 gennaio 2012 e non notificata che, in controversia relativa all’impugnazione di due avvisi di accertamento del reddito della società “Black Jack s.a.s. di Op. A. & C.”, di cui i ricorrenti erano soci, per l’anno di imposta 2002 a fini Irpef, ha accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate – direzione provinciale di Varese, riformando la sentenza di primo grado della Commissione tributaria provinciale di Varese;

secondo la C.t.r. della Lombardia, l’Agenzia delle entrate non era incorsa nella violazione del D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 7, poichè l’atto di accertamento con adesione di detto articolo è collegato a quanto previsto dal citato D.Lgs., art. 6 D.Lgs.;

inoltre, i giudici di secondo grado ritenevano che: non era la “riapertura dei conti” in essere nell’anno 1998 che può assicurare la continuità di vita all’azienda venduta, con pagamento rateale e con riserva di proprietà nel 1998; la dichiarata mancanza di “crediti” sanciva l’avvenuta definizione dei rapporti di credito nei riguardi della società acquirente in relazione all’atto di vendita del 9 aprile 1998 e dava senso allo scioglimento della società e all’avvenuta cancellazione della stessa dal registro delle imprese in data 15 febbraio 1999; non era possibile accorgersi dopo quasi quattro anni di avere dei crediti ancora da esigere per addivenire alla rescissione del contratto; dalla prima cessione dei beni del 1998 a quella del 2002 erano intervenute variazioni nella consistenza e nel complesso dei beni dell’azienda di cui trattasi, oltre ai diversi passaggi di proprietà; la mancata rilevazione contabile negli appositi registri fiscali faceva venir meno il confronto tra situazione patrimoniale iniziale e finale e rendeva legittimo l’accertamento dell’intero importo ricavato quale plusvalenza, in occasione della cessione oggetto della controversia;

a seguito del ricorso l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso;

il ricorso è stato fissato per la Camera di Consiglio del 23 settembre 2020, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380-bis.1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197;

i ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

con il primo motivo di ricorso i ricorrenti censurano la violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

secondo i Sig.ri Op., ai fini fiscali, per espressa previsione dell’art. 75 in esame, la clausola di riserva di proprietà non rileva e, pertanto, l’azienda si considera ceduta alla stipulazione dell’atto, con conseguente obbligo di contestuale rilevamento della relativa plusvalenza o minusvalenza, indipendentemente dalla circostanza che la corresponsione del prezzo sia ripartita in più rate;

i ricorrenti sostengono che, una volta appurato il corretto operato della società contribuente, nel rispetto dell’art. 75, comma 2, del vecchio T.U.I.R., non si potrebbe non rilevare che la minusvalenza emersa nell’esercizio del 1998 sia collegata all’intero corrispettivo della cessione e che, se tale corrispettivo fosse stato regolarmente incassato, nessuna ulteriore imposta avrebbe potuto essere richiesta alla società nè ai soci;

con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti censurano la violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 127, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

secondo i ricorrenti, nella fattispecie dedotta in giudizio vi sarebbe un’evidente duplicazione dell’imposta a carico dello stesso presupposto impositivo, in quanto alla prima cessione, non andata a buon fine, si sarebbe sostituita la seconda;

gli ex soci rilevano, inoltre, che la prima società cessionaria non poteva aver dedotto quote di ammortamento dell’avviamento, ai sensi dell’art. 68 TUIR, comma 3, vecchio, non avendo pagato il prezzo di acquisto dell’azienda;

con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti censurano la violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

secondo i ricorrenti, i giudici d’appello hanno violato il citato art. 75, comma in esame, poichè i costi che, nella prima cessione, avevano determinato la minusvalenza accertata dall’Agenzia delle entrate, con l’annullamento, in autotutela, dell’accertamento della plusvalenza, risultano agli atti e conservano la loro efficacia anche nella seconda cessione, considerato che la minusvalenza relativa all’anno 1998 è stata calcolata sulla base dell’intero corrispettivo della prima cessione, mai riscosso e molto superiore a quello incassato dagli ex soci nella secondo cessione;

con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti censurano la contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5);

secondo i ricorrenti, essi stessi, in modo coerente e non contraddittorio, hanno sostenuto di non aver ripreso in carica l’azienda e di non essere soggetti d’imposta per quanto attiene alla seconda cessione;

tale assunto non è stato condiviso dal giudice di appello, che lo ha ritenuto in insanabile contrasto con la precedente cancellazione della società, sciolta instantaneamente senza crediti o debiti, pur avendo fondato, contraddittoriamente, la propria decisione sul fatto che le merci ed i beni strumentali aziendali, sulla base dell’atto di risoluzione, sarebero stati riconsegnati alla società cancellata;

i motivi, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono infondati e vanno rigettati;

in primo luogo, deve rilevarsi che non vi è la violazione del divieto di tassare più volte lo stesso presupposto impositivo, perchè, nel caso di specie, vi sono due cessioni di azienda, in diversi periodi di imposta, che, per altro, soggiacciono al principio di competenza;

per quanto riguarda la prima cessione del 9 aprile 1998, in applicazione dell’art. 75 TUIR, comma 2, l’Agenzia delle entrate, annullando in autotutela l’accertamento della plusvalenza, ha riconosciuto una minusvalenza, rilevante nell’anno di imposta 1998, indipendentemente dalla possibilità che il possesso dell’azienda tornasse alla società cedente per l’inadempimento della società cessionaria all’obbligo della corresponsione dell’intero prezzo di vendita pattuito;

dal punto di vista fiscale, quindi, la prima cessione ha comportato per la società cedente il riconoscimento di una minusvalenza e la vicenda può considerarsi conclusa senza alcun aggravio dell’imposta dovuta per l’anno 1998;

la seconda cessione, invece, è intervenuta nel 2002, dopo la cancellazione della società cedente, sciolta istantaneamente ed anticipatamente dai soci in data 30 dicembre 1998, che, con atto ricevuto da notaio, dichiaravano ” non esservi luogo alla messa in liquidazione, non esistendo attività nè passività…risultando che il capitale sociale è andato interamente perduto”;

ne deriva che, alla data dello scioglimento della Black Jack di O.A. & C. s.a.s., avvenuto con atto ricevuto da notaio del 30 dicembre 1998, i soci dichiaravano che la società non vantava più crediti verso terzi e che il capitale sociale era azzerato;

pertanto, secondo quanto rilevato dal giudice di appello, il successivo atto di “risoluzione” della cessione, intervenuto l’8 ottobre 2002 tra le parti originarie, e la conseguente cessione dell’azienda a terzi il 4 dicembre 2002 da parte della originaria società cedente, peraltro dopo la sua cancellazione dal registro delle imprese, avvenuta in data 15/2/1999, nonostante il riferimento formale alla prima cessione, non si poneva in continuità con essa, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti;

in particolare, il giudice di appello ha rilevato l’impossibilità di identificare l’azienda oggetto della prima cessione con quella oggetto della seconda, in quanto negli atti non vi era alcuna descrizione o contabilizzazione dei beni oggetto del compendio aziendale ceduto con l’atto del 4 dicembre 2002, nonostante la specifica richiesta dell’Ufficio con apposito questionario;

di conseguenza, la C.t.r. ha ritenuto legittimo l’accertamento dell’Ufficio, che ha considerato come plusvalenza l’intero importo dichiarato come corrispettivo della cessione, imputandolo ai soci della società ormai estinta;

tale soluzione appare conforme con un principio di portata generale già affermato da questa Corte, invero in fattispecie diversa, secondo cui “ove il contribuente ometta di rispondere ai questionari previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, nn. 3 e 4, in tal modo impedendo od ostacolando la verifica dei redditi prodotti, l’Ufficio può effettuare l’accertamento induttivo ex art. 39, comma 1, lett. a), del predetto decreto, utilizzando dati e notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive di requisiti di

gravità, precisione e concordanza” (Cass.

Sez. 5, Sentenza n. 4944 del 02/03/2018);

secondo i giudici di appello, non avendo i contribuenti fornito alcuna indicazione utile a determinare il costo di acquisizione dei beni oggetto della seconda cessione, l’Ufficio, nell’impossibilità di fare altrimenti, ha ritenuto legittimamente di imputare a plusvalenza l’intero importo dichiarato come corrispettivo;

nè possono imputarsi alla seconda cessione i costi denunziati in occasione della prima cessione, non essendovi la prova che l’azienda ceduta la prima volta dalla società, all’epoca ancora esistente, si identificasse con il complesso di beni ceduti nel 2002 dalla società non più esistente (quindi dai soci), in mancanza di riscontri contabili in tal senso ed in considerazione delle dichiarazioni sull’insussistenza di un capitale sociale e di attività o crediti in sede di scioglimento della società;

il giudice di appello conclude quindi per la legittimità dell’accertamento dell’Agenzia delle entrate e tale conclusione appare conforme all’orientamento costante di questa Corte, secondo cui, in caso di accertamento analitico – induttivo, è posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili;

il ricorso, quindi, va complessivamente rigettato ed i ricorrenti vanno condannati in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti in solido a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4500,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del del citato art. 13,comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2020

 

 

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