Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26758 del 18/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 21/10/2019, (ud. 11/06/2019, dep. 21/10/2019), n.26758

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI ADRIANO P. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8850-2016 proposto da:

TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G. FARAVELLI 22,

presso lo studio degli avvocati ENZO MORRICO, ARTURO MARESCA,

ROBERTO ROMEI, FRANCO RAIMONDO BOCCIA, che la rappresentano e

difendono;

– ricorrente –

contro

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO

58, presso lo studio degli avvocati BRUNO COSSU, ALBERTO PICCININI,

SAVINA BOMBOI, che lo rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 935/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 13/10/2015 r.g.n. 381/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/06/2019 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per: SS.UU. in subordine

rigetto;

udito l’Avvocato ARTURO MARESCA e ROBERTO ROMEI;

udito l’Avvocato SAVINA BOMBOI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 935/2015, depositata il 13 ottobre 2015, la Corte d’appello di Bologna ha rigettato il gravame di Telecom Italia S.p.A. e confermato la decisione di primo grado, con cui il Tribunale di Bologna aveva respinto l’opposizione della società nei confronti del decreto ingiuntivo di pagamento dell’ammontare complessivo delle retribuzioni maturate da C.C. nel periodo dal luglio 2012 al gennaio 2013 e non corrisposte: ingiunzione che il C. aveva richiesto a seguito della sentenza della stessa Corte (n. 1010/2011), che aveva dichiarato illegittimo il trasferimento di ramo di azienda da IT Telecom Italia S.p.A. (poi Telecom Italia S.p.A.) ad altra società, con la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro.

2. La Corte di appello – sottolineata l’efficacia esecutiva della sentenza di condanna alla reintegra o al ripristino del rapporto, non rilevando l’incoercibilità del relativo obbligo datoriale – ha osservato come Telecom Italia S.p.A., alla quale il C. aveva comunque formalmente offerto la propria prestazione con lettera del 19/11/2011, non avesse pacificamente dato esecuzione alla sentenza n. 1010/2011, nelle more del giudizio divenuta definitiva, e come da tale inadempimento fosse derivato alla stessa un obbligo risarcitorio, di entità economica pari alle retribuzioni che al lavoratore sarebbero spettate se fosse stato riammesso al lavoro presso la cedente e non riducibile nella misura di un aliunde perceptum non allegato e non dimostrato, non corrispondendo, d’altra parte, al vero quanto sostenuto dall’appellante, e cioè che il C. avesse continuato a prestare la propria attività alle dipendenze della società cessionaria, posto che era risultato dalla documentazione prodotta che il rapporto con quest’ultima era cessato nell’aprile del 2006.

3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione Telecom Italia S.p.A., affidandosi a quattro motivi, cui ha resistito il lavoratore con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 345 c.p.c., Telecom Italia S.p.A. censura la sentenza impugnata per avere la Corte ritenuto che il C. avesse cessato le proprie prestazioni nell’aprile 2006 per accettazione della mobilità e che tale circostanza risultasse confermata mediante il deposito, con la memoria di costituzione in appello, di copia della comunicazione della società cessionaria al Centro per l’impiego, peraltro senza valutare l’inammissibilità di tale produzione e il contrasto esistente fra la circostanza e le allegazioni del lavoratore in sede di giudizio di primo grado, ove egli aveva affermato il perdurare di attività in favore della cessionaria anche dopo la sentenza della Corte di appello di Bologna (n. 1010/2011) che aveva accertato la illegittimità del trasferimento del ramo di azienda.

2. Con il secondo e con il terzo motivo, rispettivamente denunciando il vizio di cui all’art. 360, n. 3 con riferimento agli artt. 2112 e 2126 c.c. e il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente censura la sentenza impugnata per non aver considerato che con l’accettazione della mobilità, nel 2006 (e, pertanto, anteriormente alla sentenza che aveva accertato la illegittimità della cessione del ramo di azienda), il C. aveva fatto cessare l’unico rapporto di lavoro esistente, riconoscendone l’avvenuta modifica sotto il profilo soggettivo, sicchè lo stesso non poteva poi essere ricostituito nei confronti della società cedente.

3. Con il quarto, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 1206,1207 e 1223 c.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata per non aver considerato che lo svolgimento di attività lavorativa per la società cessionaria avrebbe, in ogni caso, impedito al lavoratore di poter validamente offrire, ai fini della costituzione in mora, la propria prestazione alla cedente, stante l’impossibilità di rendere contestuali prestazioni a favore dell’uno e dell’altro soggetto.

4. Il ricorso non può trovare accoglimento.

5. Il primo motivo è inammissibile: (a) sia perchè la società ricorrente non ha in alcun modo dimostrato, nell’inosservanza del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di aver dedotto avanti al giudice di appello le questioni cui si riferiscono le censure in esame (Cass. n. 10330/2003, fra le molte conformi); (b) sia per difetto di interesse, la circostanza della cessazione del rapporto nel 2006 essendo stata non solo riconosciuta ma posta a fondamento dei successivi motivi di ricorso.

6. Il secondo e il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente in virtù di uno stretto rapporto di connessione, risultano egualmente inammissibili.

7. Premesso, infatti, che la cessazione del rapporto nel 2006 (e, quindi, anteriormente alla sentenza n. 1010/2011 della Corte di appello di Bologna) è circostanza pacificamente acquisita al giudizio, anche per la ricorrente, è da rilevare che la questione posta con i motivi in esame, e cioè della esistenza di un unico rapporto di lavoro, facente capo prima alla cedente e poi alla cessionaria, e volontariamente cessato per accettazione della mobilità da parte del C., risulta coperta dal giudicato sostanziale formatosi sulla richiamata pronuncia, la quale – accertata la illegittimità della cessione di ramo di azienda – ha ritenuto la permanenza del rapporto con Telecom Italia e di conseguenza ordinato che esso venisse ripristinato presso quest’ultima.

8. D’altra parte, come più volte precisato, “i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio” (Cass. n. 907/2018, fra le molte conformi); mentre della questione sollevata con il secondo e il terzo motivo non è traccia nella sentenza di appello, nè la ricorrente ha dedotto di averla prospettata nel relativo giudizio.

9. Il quarto motivo è palesemente inammissibile per difetto di interesse, fondandosi su di una circostanza di fatto inesistente e cioè che, nel periodo cui si riferiscono le retribuzioni richieste (luglio 2012 – gennaio 2013), il rapporto del lavoratore con la cessionaria fosse ancora in corso, mentre esso era già risolto nel 2006.

10. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

11. Di esse va disposta la distrazione ex art. 93 c.p.c. in favore dei procuratori del controricorrente, come da loro dichiarazione e richiesta.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 1 5 % e accessori di legge, somma di cui dispone la distrazione in favore dei procuratori del controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2019

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