Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26748 del 24/11/2020

Cassazione civile sez. VI, 24/11/2020, (ud. 07/10/2020, dep. 24/11/2020), n.26748

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – rel. Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7412-2018 proposto da:

T.P., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato MARIA GABRIELLA TERESA COLAGIORGIO;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, (OMISSIS), in

persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso la sede dell’AVVOCATURA

dell’Istituto medesimo, rappresentato e difeso dagli avvocati

GIUSEPPINA GIANNICO, LUIGI CALIULO, ANTONELLA PATTERI, SERGIO

PREDEN;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 655/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 31/08/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 07/10/2020 dal Presidente Relatore Dott. ADRIANA

DORONZO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

la Corte d’appello di Venezia, con sentenza pubblicata in data 31/8/2017, in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Venezia, ha accolto l’opposizione proposta dall’Inps contro l’atto di precetto notificato nell’interesse di T.P., con il quale si preannunciava l’esecuzione della sentenza n. 955/2009 dello stesso Tribunale di Venezia, che aveva riconosciuto al T. il diritto alla rivalutazione contributiva per esposizione all’amianto ai sensi della L. n. 257 del 1992, art. 13, comma 8;

a fondamento della decisione, la Corte territoriale ha posto la sua interpretazione della sentenza, escludendo che la stessa avesse riconosciuto il diritto azionato stante l'”equivocità” del dispositivo, perchè “dopo aver premesso che i ricorrenti erano stati esposti ad amianto con concentrazione c.d. qualificata per un periodo ultradecennale, si enuncia per ogni ricorrente il periodo di esposizione, indicando lo stesso per l’odierno appellato dal 1 giugno 1981 al 31 maggio 1991 e, perciò, non ultra-decennale”;

tale equivocità, secondo la sentenza veneziana, doveva essere risolta nel senso indicato dall’Inps, in ragione del “contenuto specifico” del dispositivo, con conseguente accoglimento dell’opposizione;

contro la sentenza il T. ricorre per cassazione, cui resiste l’Inps con controricorso;

la proposta del relatore, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata, risulta notificata alle parti;

il T. ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., la quale, tuttavia, in quanto depositata a mezzo posta e pervenuta nella cancelleria di questa Corte oltre il termine fissato nella norma citata, deve ritenersi inammissibile, non essendo applicabile per analogia il disposto dell’art. 134 disp. att. c.p.c., comma 5, che riguarda esclusivamente il ricorso e il controricorso (cfr. per tutte, Cass. 27/04/2020, n. 8216; Cass. 27/11/2019, n. 31041).

Diritto

CONSIDERATO

che:

il motivo di ricorso è così prospettato:

“violazione ed errata applicazione delle seguenti norme di diritto: art. 2909 c.c. e ss.; art. 615 c.p.c., comma 1”: si sostiene che la sentenza resa dal Tribunale di Venezia, n. 955/2009, non contiene alcuna discrasia, perchè nella parte motiva (pag. 7) si dà atto dell’esposizione del lavoratore ad amianto per un periodo ultradecennale, come da consulenza tecnica d’ufficio; il dispositivo era la trasposizione fedele di quanto accertato in via istruttoria; la sentenza era passata in giudicato e non poteva più essere rimessa in discussione; al riguardo, si fa rilevare che la questione della esposizione ultradecennale (rectius, dell’assenza di ultradecennalità) era stata già oggetto del ricorso in appello da parte dell’Inps e la rinuncia all’impugnazione, determinando il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, aveva dimostrato la carenza di interesse all’impugnazione dell’Istituto, che non poteva riproporre la medesima questione in sede di opposizione all’esecuzione;

anche sotto il profilo della interpretazione dell’art. 615 c.p.c., la sentenza era errata, avendo la Corte d’appello, nell’accogliere l’opposizione, dato rilievo a fatti antecedenti e non successivi alla formazione del giudicato, così violando i criteri giuridici che regolano l’estensione e i limiti della cosa giudicata;

2.- il motivo di ricorso è manifestamente fondato;

è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui il giudice dell’opposizione all’esecuzione deve procedere alla interpretazione del giudicato esterno, individuandone contenuto e portata precettiva sulla base del dispositivo e della motivazione e con esclusione del riferimento ad elementi esterni, non potendo integrare una pronuncia carente o dubbia facendo riferimento a regole di diritto o ad un determinato orientamento giurisprudenziale (Cass. 20/11/2014, n. 24749);

2.1. – si è altresì precisato che: a) che il giudicato esterno va assimilato agli elementi normativi, cosicchè la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici, e gli eventuali errori interpretativi sono sindacabili sotto il profilo della violazione di legge; b) il giudice di legittimità può direttamente accertare l’esistenza e la portata del giudicato esterno, con cognizione piena, che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito (Cass. Sez.Un. 28/11/2007, n. 24664; Cass. 29/11/2018, n. 30838; Cass. 05/10/2009, n. 21200); c) conseguentemente il primo compito di questa Corte è quello di stabilire se la sentenza impugnata si sia attenuta ai principi tratti dall’art. 2909 c.c., per accertare l’oggetto ed i limiti del giudicato esterno, i quali postulano che egli non può limitarsi a tener conto della formula conclusiva in cui si riassume il contenuto precettivo della sentenza previamente pronunziata e divenuta immodificabile, ma deve individuarne l’essenza e l’effettiva portata, da ricavarsi non solo dal dispositivo, ma anche dai motivi che la sorreggono, “collegando il dispositivo con la motivazione che ne costituisce il presupposto logico e giuridico, in modo che i limiti oggettivi di esse devono trovarsi nella ratio decidendi, tratta nell’insieme dalla motivazione e dal dispositivo, che ne è la logica conclusione” (Cass. 23/4/1963, n. 1069; v. pure, Cass. 19/07/2018, n. 19252; Cass. 13/10/2017, n. 24162; Cass. 10/12/2015, n. 24952; Cass. 20/11/2014, n. 24749; Cass. 16/1/2014, n. 769; Cass. 27/11/2001, n. 14986);

2.2.- la necessità che, nell’interpretazione del giudicato, si tenga conto anche della motivazione emerge con più forte ragione nei casi in cui, come nel caso di specie, il dispositivo si presenti equivoco (Cass. 13/10/2017, n. 24162; Cass. 07/08/2019, n. 21165);

ed invero, il dispositivo della sentenza n. 955 del 2009, passata in giudicato in seguito alla rinuncia all’appello dell’Inps formulata all’udienza di discussione, ha riconosciuto il diritto del T. ai benefici richiesti, ma ha indicato un arco temporale che copre esattamente un decennio, sicchè sembrerebbe difettare l’elemento costitutivo del diritto alla rivalutazione costituita dall’esposizione ultradecennale;

2.3.-la Corte territoriale, pur prendendo atto di un contrasto interno allo stesso dispositivo, ha privilegiato il dato numerico senza tuttavia compiere alcuna indagine sulla motivazione della sentenza nè spiegare le ragioni per le quali è pervenuto alla sua opzione;

al contrario, nel corpo della sentenza (pag. 7), che il ricorrente ha depositato unitamente al ricorso per cassazione e riportato nel ricorso per cassazione nei suoi passi più significativi – così soddisfacendo i requisiti di specificità e autosufficienza imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 -, è espressamente affermato che la domanda del T., per mansioni e periodo lavorativo, è meritevole di accoglimento, come accertato dal c.t.u., e si è avuto cura di specificare che vi è stata esposizione “per un periodo ultradecennale per tutti i ricorrenti, ad eccezione di L.S.” (solo);

2.4.- l’affermazione della sussistenza del diritto è supportata non soltanto dal richiamo alla consulenza tecnica ma anche alle testimonianze raccolte in giudizio, da cui il Tribunale ha desunto le specifiche mansioni a cui era addetto il T., unitamente agli altri lavoratori, nonchè dal richiamo ai principi ripetutamente affermati da questa Corte, circa la necessità di un’esposizione ultradecennale (pag. 5);

la regolamentazione delle spese processuali, che sono state poste a carico dell’Inps nella misura del 50%, e a favore dei ricorrenti è consequenziale al riconoscimento del diritto;

anche il dispositivo, nella parte in cui accerta il diritto per tutti i ricorrenti, nominativamente elencati (e tra essi vi è il T.), è chiaro e inequivoco (“il giudice… così provvede: accertato che i ricorrenti hanno effettuato lavorazioni che li hanno esposti all’inalazione di fibre di amianto… per un periodo superiore a 10 anni e che pertanto gli stessi hanno diritto ai benefici previdenziali…”);

3.- a fronte di questi elementi, tutti convergenti nel senso del riconoscimento del diritto, la limitazione temporale come riportata in dispositivo e della quale non si rintraccia altro riferimento nel corpo della motivazione appare come l’evidente frutto di una svista o di un errore di calcolo, piuttosto che come chiara ed inequivoca espressione della volontà di negare la sussistenza del diritto;

il motivo va pertanto accolto e la sentenza impugnata cassata;

non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa con il rigetto dell’opposizione proposta dall’Inps avverso l’atto di precetto notificato nell’interesse di T.P.;

le spese dell’intero giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;

non sussistono i presupposti per la condanna dell’Inps al pagamento di una somma equitativamente determinata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, non ravvisandosi in capo alla parte soccombente la mala fede (nel senso della consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza) (cfr. Cass. Sez. Un. 13/09/2018, n. 22405);

attesa la natura della pronuncia, che è di accoglimento, non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un importo pari a quello già versato per il contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione proposta dall’Inps contro l’atto di precetto notificato da T.P. per l’esecuzione della sentenza numero 955/2009 del Tribunale di Venezia; condanna l’Inps al pagamento delle spese processuali, che liquida per ciascuno dei due gradi di merito in Euro 2500,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, nonchè per il giudizio di legittimità in Euro 3000,00 per compensi professionali e Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% ed agli altri accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2020

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