Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26742 del 23/10/2018

Cassazione civile sez. VI, 23/10/2018, (ud. 27/09/2018, dep. 23/10/2018), n.26742

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Lucio – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17255-2017 proposto da:

N.A., in proprio e nella qualità di legale rappresentate

pro tempore della cessata AL.PA. S.n.c. di N.A. e C.,

NA.AL., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZALE LUIGI

STURZO 9, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO FORTINO, che li

rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9615/17/2016 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di ROMA, depositata il 29/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 27/09/2018 dal Consigliere Dott. ENRICO MANZON.

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza n. 9615/17/16 depositata in data 29 dicembre 2016 la Commissione tributaria regionale del Lazio respingeva l’appello proposto dalla AL.PA snc di N.A. e C. e dai suoi soci N.A. e Na.Al. avverso la sentenza n. 7851/63/15 della Commissione tributaria provinciale di Roma che ne aveva respinto i ricorsi contro gli avvisi di accertamento per II.DD. ed IVA 2008. La CTR osservava in particolare che pur dovendosi ritenere ammissibile, ancorchè proposta per la prima volta in appello, era comunque infondata l’eccezione di invalidità degli atti impositivi impugnati per difetto di poteri del funzionario sottoscrittore; che l’appello era mentalmente infondato, essendo le pretese erariali (indeducibilità dei costi/indetraibilità dell’IVA per l’inesistenza oggettiva delle operazioni di cui a fatture passive registrate) suffragate da plurime e complessivamente adeguate prove indiziarie.

Avverso la decisione hanno proposto ricorso per cassazione i contribuenti deducendo quattro motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – i ricorrenti lamentano la violazione/falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54,D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, poichè la Commissione tributaria regionale, in particolare violando la prima disposizione legislativa evocata, ha affermato l’adeguatezza delle prove indiziarie allegate dall’Ente impositore a fondamento dell’avviso di accertamento impugnato.

La censura è inammissibile e comunque infondata.

Va ribadito che:

– “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multis Sez. 5, n. 26110 del 2015);

– “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9097 del 07/04/2017, Rv. 643792 – 01).

Lo sviluppo della censura collide radicalmente con le indicazioni sui limiti del giudizio di cassazione rivenienti dai principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali.

Il giudice tributario di appello infatti ha compiutamente analizzato il materiale probatorio offerto dalle parti, in particolare rilevando che l'”inesistenza oggettiva” delle operazioni fatturate dal M. emergeva anzitutto dal fatto che lo stesso fosse deceduto addirittura prima delle operazioni medesime e comunque dalle ulteriori circostanze che analoga frode risultava perpetrata da una società contribuente della quale era legale rappresentante la moglie di N.A. e che le fatture fossero state pagate per contanti, negando comunque valore di prova contraria alle allegazioni istruttorie dei contribuenti.

E’ quindi evidente che si tratta di un giudizio meritale che non può essere assoggettato ad ulteriore “revisione” in questa sede.

Peraltro, quanto specificamente alla dedotta violazione del principio generale codicistico relativo all’onere della prova, va altresì ribadito che “In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili” (Sez. 5, Sentenza n. 428 del 14/01/2015, Rv. 634233 – 01) e che “In tema d’IVA, l’Amministrazione finanziaria, che contesti al contribuente l’indebita detrazione relativamente ad operazioni oggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo” (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18118 del 14/09/2016, Rv. 641109 – 01).

La sentenza impugnata si è evidentemente attenuta ai principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali.

Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – i ricorrenti denunciano la violazione/falsa applicazione degli artt. 19,20, d.lgs. 74/2000, poichè la CTR, così come la CTP, non ha sospeso il presente processo in attesa dell’esito del parallelo processo penale avente ad oggetto le medesime fatture.

La censura è infondata.

Va ribadito che “Nel contenzioso tributario – in cui non opera automaticamente l’efficacia vincolante del giudicato penale ai sensi dell’art. 654 c.p.p., vigendo invece le limitazioni probatorie sancite dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e potendo ivi valere anche le presunzioni, inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna – la sentenza penale costituisce semplice indizio od elemento di prova critica in ordine ai fatti in essa eventualmente accertati sulla base delle prove raccolte nel relativo giudizio e non rappresenta un accertamento preliminare necessario. Pertanto, non può disporsi, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. ed ancorchè coincidano i fatti esaminati in sede penale e quelli che fondano l’accertamento, la sospensione del processo tributario in attesa della definitività della predetta sentenza, come peraltro sancito dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20” (Sez. 5, Sentenza n. 4924 del 27/02/2013, Rv. 625233 – 01).

Il giudice tributario di appello, pronunciandosi sul punto impropriamente, ma correttamente, si è sostanzialmente attenuto al principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale.

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – i ricorrenti si dolgono della violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43,D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, poichè la CTR ha male applicato la speciale normativa sul c.d. “raddoppio dei termini” di emissione dell’avviso di accertamento, non tenendo conto dello jus superveniens (in particolare, L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 132, in relazione al D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2), quale più favorevole.

La censura è infondata.

Anzitutto va rilevato che il giudice tributario di appello ha correttamente applicato il principio che nel processo tributario le eccezioni in senso stretto, quale è certamente quella in esame, debbano essere proposte con il ricorso introduttivo della lite (v. Sez. 5, Sentenza n. 15051 del 02/07/2014, Rv. 631568 – 01) e giammai quindi quale eccezione “nuova” in appello.

In ogni caso deve essere altresì ribadito che “In tema di accertamento tributario, i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 per l’IRPEF e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57 per l’IVA, nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, il cui art. 1, comma 132, ha introdotto, peraltro, un regime transitorio che si occupa delle sole fattispecie non ricomprese nell’ambito applicativo del precedente regime transitorio – non oggetto di abrogazione – di cui al D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, comma 3, in virtù del quale la nuova disciplina non si applica nè agli avvisi notificati entro il 2 settembre 2015 nè agli inviti a comparire o ai processi verbali di constatazione conosciuti dal contribuente entro il 2 settembre 2015 e seguiti dalla notifica dell’atto recante la pretesa impositiva o sanzionatoria entro il 31 dicembre 2015″ (Sez. 5 -, Sentenza n. 26037 del 16/12/2016, Rv. 641949 – 01).

Con il quarto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – i ricorrenti denunciano la violazione/falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., art. 2697 c.c., poichè la CTR ha omesso di pronunciarsi sull’eccezione di invalidità dell’avviso di accertamento impugnato per difetto del relativo potere di emetterlo da parte del funzionario sottoscrittore, in quanto non dirigente.

La censura è inammissibile e comunque infondata.

Bisogna rilevare che il mezzo de quo non coglie affatto l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata su tale specifico punto.

Diversamente da quanto affermano e criticano i contribuenti infatti il giudice tributario di appello non ha pronunciato l’inammissibilità dell’eccezione in esame, ma, al contrario, ne ha ritenuto la piena ammissibilità, addirittura, quale eccezione nuova in appello.

Pur sicuramente in questo senso errando (pacifico nella giurisprudenza di legittimità che trattasi di eccezione propria e quindi deducibile, a pena di inammissibilità, nel solo ricorso introduttivo della lite o al più, ricorrendone le condizioni, con memoria integrativa D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 24,; cfr. Sez. 5, Sentenza n. 18448 del 18/09/2015, Rv. 636451 – 01), non è quindi affatto vero che la CTR laziale non si sia pronunciata nel merito, come appunto ha fatto.

Pertanto, la censura non corrisponde al requisito di “specificità” richiesto, secondo il principio di diritto che “In tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia impugnata” (Sez. 6 3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017, Rv. 645361 – 01).

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018

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