Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2674 del 05/02/2010

Cassazione civile sez. lav., 05/02/2010, (ud. 10/12/2009, dep. 05/02/2010), n.2674

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20583-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, giusta delega a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.P., già elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI

PORTA PINCIANA 6, presso lo studio dell’avvocato MATERA CORRADO,

rappresentata e difesa dagli avvocati SODANI TIZIANA, BONGARZONE

ANTONIO ROSARIO, giusta delega in calce al controricorso e da ultimo

domiciliata d’ufficio presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2821/2005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 30/06/2005 R.G.N. 8612/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/12/2009 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI MASSIMO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata in data 22-12-2003, il Giudice del lavoro del Tribunale di Benevento rigettava la domanda proposta da P. P. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato tra le parti per “esigenze eccezionali” ex art. 8 c.c.n.l. 1994 come integrato dall’acc. az. 25-9-97, per il periodo 20- 10-2000/31-1-2001, con la conversione del rapporto a termine in uno a tempo indeterminato e con la condanna della società alla riammissione in servizio della lavoratrice e al pagamento in favore della stessa di tutte le retribuzioni dalla risoluzione illegittima del rapporto alla riammissione, oltre accessori.

La P. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.

La società si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte di appello di Napoli, con sentenza depositata il 30-6-2005, in accoglimento dell’appello dichiarava esistente tra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 20-10-2000 e condannava la società al pagamento delle retribuzioni dovute a decorrere dal 1- 4-2003, oltre rivalutazione e interessi.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre motivi.

La P. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che nella fattispecie si fosse verificata una risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621).

Tale principio va ribadito anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Orbene sul punto la Corte d’Appello ha rilevato in fatto che “nel caso in esame non sussiste alcuna circostanza ulteriore, tale da conferire al tempo -intercorso fra la scadenza del termine e l’instaurazione del giudizio – il significato univoco di mutuo consenso sulla risoluzione del rapporto di lavoro”.

Tale decisione è conforme al principio sopra richiamato e, risultando altresì congruamente motivata, resiste alla censura della ricorrente.

Con il secondo motivo la società ricorrente in sostanza deduce la mancanza nella specie di un limite temporale alla stipula dei contratti a termine ai sensi dell’art. 8 c.c.n.l. del 1994 come integrato dall’accordo aziendale 25-9-97, sostenendo che un tale limite non sarebbe ricavabile nè dalla disciplina legale nè dalla corretta interpretazione degli accordi attuativi del citato accordo aziendale.

Il motivo è infondato.

Osserva il Collegio che, al riguardo, la Corte di merito, ha attribuito rilievo decisivo in particolare alla considerazione che:

“le parti operarono una valutazione prognostica circa i tempi entro i quali ritenevano di poter ravvisare una connessione tra la trasformazione della natura giuridica dell’azienda postale e le esigenze legate ai processi di ristrutturazione considerati, fissando, quindi, all’uopo un primo termine al 31-1-98. Prima della scadenza di tale termine le parti… giunsero alla determinazione di disporre una proroga sino al 30-4-98, come si evince chiaramente dal tenore letterale dell’ultima parte del secondo accordo attuativi)”.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere la impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo (stipulato “per esigenze eccezionali” in data successiva al 30-4-1998).

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063,v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, nella specie, come questa Corte ha ripetutamente affermato e come va anche qui enunciato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l., 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962 n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Tale interpretazione degli accordi attuativi (ed in specie dell’ultimo citato) è fondata sul significato letterale delle espressioni usate che è così evidente e univoco (“in conseguenza di ciò e per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30-4-98”) che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453), mentre, diversamente opinando – ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga – si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, fossero in sostanza “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Peraltro al riguardo irrilevante è l’accordo del 18 gennaio 2001, invocato dalla società, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga; ed infatti, ammesso che le parti stipulanti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza, la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), considerata la indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, deve comunque escludersi che le parti stesse avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

Va pertanto confermata la nullità del termine apposto al contratto de qua, concluso per “esigenze eccezionali” ex art. 8 c.c.n.l. 1994 come integrato dall’accordo 25-9-97 e succ, in data successiva al 30- 4-1998.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c. in sostanza lamenta che la Corte d’appello “non ha svolto alcun tipo di verifica” in ordine alla messa in mora del datore di lavoro da parte del lavoratore e non ha tenuto “conto della possibilità che il lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente”, disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

La Corte di Appello, ha condannato la società a pagare le retribuzioni spettanti dalla “data di costituzione in mora del datore di lavoro”, “avvenuta con lettera raccomandata del 25-3-2003, ricevuta in data 1-4-2003, momento in cui pertanto si sono verificati i relativi effetti”.

Tale accertamento, prettamente di fatto, riservato al giudice del merito, è stato, quindi, effettuato dalla Corte territoriale in conformità con l’indirizzo più volte dettato da questa Corte (v.

fra le altre Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 13-4-2007 n. 8903). La società, del resto, ha censurato tale decisione in modo del tutto generico, senza neppure riportare il testo della comunicazione in oggetto, che, secondo l’assunto della ricorrente, non avrebbe integrato la ravvisata messa in mora.

Infine, ugualmente del tutto generica e priva di autosufficienza è la censura relativa all’aliunde perceptum.

Al riguardo la ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr.. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8- 2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099-).

Nè è censurabile in questa sede il mancato accoglimento della richiesta di esibizione (dei modelli 101 e 740) avanzata dalla società.

Come questa Corte ha più volte precisato, “il rigetto da parte del giudice di merito dell’istanza di disporre l’ordine di esibizione al fine di acquisire al giudizio documenti ritenuti indispensabili dalla parte non è sindacabile in cassazione, perchè, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile aliunde e l’iniziativa non presenti finalità esplorative, la valutazione della relativa indispensabilità è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il mancato esercizio di tale potere non essendo sindacabile neppure sotto il profilo del difetto di motivazione” (v.

fra le altre Cass. 14-7-2004 n. 12997, Cass. sez. 1^ 17-5-2005 n. 10357, Cass. sez. 3^ 2-2-2006 n. 2262).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore della P..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della P., delle spese liquidate in Euro 22,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2010

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