Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26715 del 24/11/2020

Cassazione civile sez. II, 24/11/2020, (ud. 02/10/2020, dep. 24/11/2020), n.26715

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10509-2016 proposto da:

DEREF SPA, elettivamente domiciliato in VIA COLA DI RIENZO 122,

presso lo studio dell’avvocato LEONARDO BRASCA, rappresentato e

difeso dall’avvocato PURI Giuseppe;

– ricorrente –

contro

B.E.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1298/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

02/10/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. F.G.A. conveniva in giudizio dinanzi il tribunale di Viterbo, sezione distaccata di Montefiascone, la società DEREF S.p.A. ed i signori Fa.Gi. e C.R. per sentirli condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa delle intollerabili immissioni acustiche e di polvere provenienti dallo stabilimento della società convenuta, quantificati nella somma di Euro 50.000 o di quella maggiore o minore ritenuta di giustizia oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.

2. Il Tribunale di Viterbo rigettava la domanda di risarcimento del danno con riguardo alle immissioni rumorose acustiche e accoglieva quella relativa alle immissioni di polveri, condannando la società convenuta al pagamento in favore dell’attore della somma omnicomprensiva di Euro 75.000, oltre agli interessi legali dalla sentenza al saldo effettivo a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.

3. Avverso la suddetta sentenza proponeva appello la società DEREF.

4. La Corte d’Appello rigettava il gravame. In particolare, la Corte d’Appello rigettava il motivo di appello relativo all’interpretazione presuntiva del quadro probatorio da parte del Tribunale, con motivazione illogica e contraddittoria. I giudici dell’appello condividevano, invece, il giudizio circa la non tollerabilità delle emissioni di polvere per il periodo antecedente alla predisposizione delle cautele adottate a partire dal 2008. Il fatto che la società convenuta rispettasse i limiti di accettabilità delle immissioni come stabilito dalla legge e dai regolamenti non assumeva rilevanza. Infatti, in materia di immissioni, se da un lato il superamento dei limiti legali che disciplinano le attività produttive era sicuramente illecito, dall’altro l’eventuale rispetto degli stessi non poteva far considerare senz’altro lecite le immissioni provenienti dal fondo del vicino, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi alla stregua dei principi di cui all’art. 844 c.c. secondo l’apprezzamento del giudice, tenuto conto di tutte le peculiarità del caso concreto, quali la vicinanza dei luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute. Il parametro della normale tollerabilità esprimeva una soluzione legale di compromesso che intendeva bilanciare la libertà di esercizio del proprio diritto con il minor danno reciproco in ossequio al principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.. Sulla base di tale considerazione appariva alla Corte che il Tribunale di primo grado avesse correttamente operato il bilanciamento tenuto conto del preminente diritto alla salute e alla qualità della vita. Nel caso concreto, all’esito dell’istruttoria si era accertato che, a seguito di due lavori di ammodernamento adottati dalla società convenuta, la propagazione di polveri era definitivamente venuta meno, a dimostrazione della pregressa situazione di sussistenza.

Con riferimento all’entità del risarcimento di Euro 75.000 doveva rigettarsi la censura dell’appellante circa il vizio di ultrapetizione giacchè l’appellata aveva chiesto e quantificato il danno nella somma di Euro 50.000, in quanto nelle conclusioni era aggiunta la dizione “o in quella maggiore o minore ritenuta di giustizia”. Peraltro, la somma indicata in sentenza appariva congrua anche tenuto conto della onnicomprensività della stessa, inclusiva anche della rivalutazione monetaria quale ulteriore importo riconosciuto a titolo di lucro cessante.

3. La società DEREF S.p.A. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di cinque motivi.

4. La parte intimata non si è costituita.

5. La ricorrente con una breve memoria depositata in prossimità dell’udienza ha insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 844 c.c.

A parere del ricorrente nè il giudice di primo grado nè soprattutto la Corte d’Appello hanno risposto con oggettività e coerenza i criteri con i quali, in base a riferimenti oggettivi prima che scientifici, sono giunti al giudizio di superamento della soglia di normale tollerabilità delle immissioni ex art. 844 c.c.

Tale valutazione parte dal presupposto erroneo secondo il quale nella tutela tra privati ogni immissione deve giudicarsi intollerabile poichè intrinsecamente lesiva del diritto alla qualità della vita. Tale motivazione è apodittica e non rende conto del ragionamento in virtù del quale le immissioni sono state ritenute davvero intollerabili. Le immissioni infatti sono presuntivamente lecite e il giudice deve indicare le ragioni del superamento della normale tollerabilità e tale indicazione nel caso di specie sarebbe stata omessa.

1.2 Il primo motivo di ricorso è infondato.

La censura è posta sotto il profilo della violazione di legge ma si incentra sulla presunta mancanza di motivazione circa le ragioni del superamento della normale tollerabilità delle immissioni.

La motivazione spesa dalla Corte d’Appello è esaustiva e certamente non rivela alcuna obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che l’ha condotta alla formazione del proprio convincimento, con piena corrispondenza con le risultanze istruttorie. In particolare, la Corte d’Appello ha motivato circa le ragioni per le quali ha ritenuto che le emissioni di polvere fossero superiori al limite della normale tollerabilità fino al 2008, quando la società convenuta aveva messo in atto ulteriori misure che avevano determinato la risoluzione dei problemi. Il giudice dell’appello ha riportato per esteso la motivazione del Tribunale di Viterbo e l’ha ritenuta condivisibile, anche tenuto conto dell’accertata notevole quantità di polvere all’interno e all’esterno dell’opificio DEREF, l’inadeguatezza dei sistemi di pulizia e di aspirazione, nonchè l’esistenza di nuvole di polvere dell’altezza di 3-4 metri al passaggio dei mezzi di movimentazione dei materiali, oltre che della destinazione abitativa del fondo della controparte e della vicinanza dei due fondi.

Deve richiamarsi sul punto il consolidato orientamento di questa Corte secondo il quale: “in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione”.

In ogni caso in relazione alla censura di violazione dell’art. 844 c.c. deve ribadirsi che: “I parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente (dirette alla protezione di esigenze della collettività, di rilevanza pubblicistica), pur potendo essere considerati come criteri minimali di partenza, al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni che li eccedano, non sono necessariamente vincolanti per il giudice civile che, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo al giudizio di intollerabilità, ex art. 844 c.c., delle emissioni, ancorchè contenute in quei limiti, sulla scorta di un prudente apprezzamento che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica (invero posta preminentemente a tutela di situazioni soggettive privatistiche, segnatamente della proprietà). La relativa valutazione, ove adeguatamente motivata, nell’ambito dei criteri direttivi indicati dal citato art. 844 c.c., con particolare riguardo a quello del contemperamento delle esigenze della proprietà privata con quelle della produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità” (Sez. 2, Sent. n. 17281 del 2005).

Nella specie la Corte d’Appello ha ritenuto superata la soglia di tollerabilità, in base agli opportuni accertamenti di fatto, e secondo il suo apprezzamento e tale giudizio è incensurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: omessa considerazione di fatti decisivi della controversia art. 360 c.p.c., n. 5.

Oggetto della censura è, anche in questo caso, il giudizio di superamento del criterio della normale tollerabilità delle immissioni. A tal proposito, secondo il ricorrente, l’indagine compiuta dal giudice farebbe riferimento generico a circostanze accertate circa l’esistenza di una notevole quantità di polvere all’interno e all’esterno dell’opificio nonchè l’inadeguatezza dei sistemi di pulizia e di aspirazione e l’esistenza di nuvole di polvere di altezza di tre/quattro metri al passaggio di automezzi. Tali circostanze sarebbero state riferite effettivamente dal CTU ma solo con riferimento al luogo di esercizio dell’attività produttiva e mai sulla proprietà del vicino. Al contrario gli accessi compiuti nella proprietà del F. avevano dato esito negativo quanto alla presenza di polvere. Dunque, a parere del ricorrente non sarebbe stata compiuta dalla Corte una disamina obiettiva dei fatti e il giudice non avrebbe tenuto conto delle suddette circostanze, nè del fatto che non era stata accertata la quantità o la qualità o la nocività delle polveri e del fatto che vi erano state molteplici rilievi arpa Lazio e del fatto che dodici certificati di analisi di misure di emissioni in atmosfera eseguite da parte del CTU attestavano il rispetto dei limiti stabiliti dal D.M. 12 luglio 1990.

La Corte d’Appello avrebbe valutato sulla base di una mera presunzione, non ancorata ad un esame oggettivo dei fatti, il superamento della normale tollerabilità. Ciò comporterebbe anche la violazione dell’art. 115 e 116 c.p.c. avendo il giudice esercitato male il suo apprezzamento e la valutazione delle prove disponibili.

2.1 Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

La censura, proposta sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo, si risolve piuttosto nella richiesta inammissibile di una rivalutazione delle risultanze istruttorie. La Corte d’Appello come si è detto ha motivato circa le ragioni per le quali ha ritenuto che le emissioni di polvere fossero superiori al limite della normale tollerabilità fino al 2008 quando la società convenuta aveva messo in atto ulteriori misure che avevano determinato la risoluzione dei problemi. In particolare, la Corte d’Appello ha riportato per esteso la motivazione del Tribunale di Viterbo e l’ha ritenuta condivisibile, anche tenuto conto dell’accertata notevole quantità di polvere all’interno e all’esterno dell’opificio DEREF, l’inadeguatezza dei sistemi di pulizia e di aspirazione, nonchè l’esistenza di nuvole di polvere dell’altezza di 3-4 metri al passaggio dei mezzi di movimentazione dei materiali, oltre che della destinazione abitativa del fondo della controparte e della vicinanza dei due fondi.

Tale giudizio si è fondato sulle risultanze istruttorie e non su presunzioni e, dunque, non è sindacabile da questa Corte se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti che non può essere rappresentato dalle modalità di espletamento della consulenza tecnica o dal luogo del rilevamento.

Il ricorrente con le censure in esame tende surrettiziamente a rimettere in discussione il complessivo accertamento svolto dai giudici di merito chiedendo una diversa valutazione di elementi già presi in considerazione nel giudizio adottato dalla Corte d’Appello che ha preso espressamente in esame le circostanze indicate.

Infine, deve ribadirsi che nella valutazione della consulenza tecnica d’ufficio, espletata in materia che richiede elevate cognizioni specifiche (come nella specie) è rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, recepire le argomentazioni dell’esperto nominato dall’ufficio (Sez. 2, Sent. n. 23362 del 2012). Peraltro, la prova per presunzione semplice, che può anche costituire l’unica fonte del convincimento del giudice, integra un apprezzamento di fatto che, se coerentemente motivato, non è censurabile in sede di legittimità (Sez. 3, Ord. n. 5484 del 2019).

Quanto alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. per avere il giudice esercitato male il suo apprezzamento e la valutazione delle prove disponibili la censura è manifestamente inammissibile risolvendosi espressamente nella richiesta di rivalutazione degli elementi istruttori, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016, Cass. S.U. n. 16598/2016).

La deduzione della violazione dell’art. 116 c.p.c., invece, è ammissibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonchè, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ne consegue l’inammissibilità della doglianza che sia stata prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. (Sez. L, Sentenza n. 13960 del 19/06/2014; n. 26965 del 2007).

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 112 c.p.c.

Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha esteso i confini della domanda, comprendendo in essa un periodo di 15 anni di presunta illecita attività non dedotto dall’attore con una configurazione dell’illecito come di natura essenzialmente civilistica quando l’azione si fondava su presunti fatti reato con riferimento alle prospettate immissioni rumorose e di polvere e anche in relazione alla qualificazione del danno. Inoltre, anche la liquidazione del danno non corrispondeva a quanto richiesto con la domanda. La sentenza, dunque, sarebbe viziata da ultrapetizione anche in relazione alla somma liquidata che lo stesso attore aveva limitato a Euro 50.000.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: art. 360 c.p.c., n. 5 per omessa considerazione di fatti decisivi della controversia.

Il giudice di merito non avrebbe correttamente considerato la qualificazione della domanda, convertendo d’ufficio la medesima in un altro genere di pretesa ovvero il risarcimento del danno derivante da un illecito esclusivamente civilistico e qualitativamente determinato. In assenza di prova di qualunque danno il giudice ha proceduto mediante un’operazione di carattere presuntivo al riconoscimento e alla liquidazione del danno senza distinzione tra quello esistenziale alla persona e quello concernente la proprietà.

Non vi sarebbe alcuna motivazione nella sentenza impugnata sul periodo di riferimento di 15 anni ritenuto dal giudice di merito come costantemente connotato da attività di immissioni illecite. Peraltro, l’attore aveva limitato il periodo temporale della pretesa risarcitoria a valle dell’accordo transattivo del 24 febbraio 1998, risultando quindi privo di congrua e comprensibile motivazione l’individuato arco di tempo quindicinale come foriero di illegittime immissioni. La Corte d’Appello avrebbe omesso di considerare l’assoluta mancanza di prova in riferimento alle pregresse immissioni e, anche volendo riconoscere positivamente accertata la presenza di polveri riferita dal CTU in occasione dell’accesso del 3 luglio 2007, non vi era alcuna prova positiva, neanche di carattere presuntivo, che potesse indurre a ritenere superato in data anteriore per 15 anni il limite di normale tollerabilità delle immissioni. La motivazione sarebbe dunque perplessa apparente ed obiettivamente incomprensibile. Le circostanze poste a sostegno della decisione si riferirebbero ad un singolo episodio riscontrato dal CTU in occasione dell’accesso ai luoghi ed all’interno della proprietà della società convenuta, accesso effettuato in data 9 ottobre 2007. Da tale episodica circostanza non potrebbe affermarsi una ripetuta serie di immissioni per un arco temporale pari a 15 anni, anche in questo caso ci sarebbe una violazione dell’art. 116 c.p.c.

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato violazione dell’art. 115,116 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 111 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 per aver omesso i giudici di merito l’esame complessivo del quadro probatorio.

La Corte d’Appello avrebbe effettuato una valutazione di carattere meramente presuntivo fondata sulla presenza di polvere all’interno dello stabilimento mentre tale circostanza riguardava un fatto episodico e non poteva determinare un giudizio di accertamento del superamento della soglia della normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c. e per una durata di ben 15 anni. Il percorso logico seguito specialmente con riferimento alla durata delle immissioni e chiaramente disallineato rispetto al quadro probatorio emerso in violazione dell’art. 115 c.p.c., dunque, la motivazione dovrebbe ritenersi apparente, perplessa ed obiettivamente incomprensibile. Il ricorrente propone una distinzione del vizio con riferimento, da un lato, al superamento del limite della normale tollerabilità e, dall’altro, della durata delle immissioni e della loro intrinseca dannosità. Sul primo aspetto la prova presuntiva sarebbe fondata su una motivazione apparente e illogica, determinando una conseguenza dell’accertamento di un fatto da una circostanza che con quel fatto non può logicamente inferire. Anche in questo caso il vizio della motivazione sarebbe così radicale da convertirsi in violazione di legge in riferimento all’art. 132 c.p.c., n. 4. Con riferimento invece alla durata delle immissioni vi sarebbe una totale mancanza di motivazione e, quindi, anche in questo caso violazione dell’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4.

Infine, sulla tematica della quantificazione del danno la sentenza ancora una volta sarebbe affetta da irriducibile illogicità, fondandosi su una apodittica asserzione peraltro senza neanche la domanda di rivalutazione monetaria.

6. Il terzo, il quarto e il quinto motivo, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono in parte inammissibili in parte infondati.

Preliminarmente, per le ragioni esposte con riferimento ai primi due motivi, devono dichiararsi inammissibili tutte le censure volte a rimettere in discussione l’accertamento di fatto operato dalla Corte d’Appello circa il superamento della normale tollerabilità delle immissioni di polvere che la società ricorrente ha posto in essere fino all’anno 2008, così come il periodo di durata delle stesse.

Quanto alle doglianze aventi ad oggetto la domanda di risarcimento del danno deve premettersi che secondo l’orientamento consolidato di questa Corte: “L’art. 844 c.c. impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento delle esigenze della proprietà con quelle della produzione, l’obbligo di sopportazione di quelle inevitabili propagazioni attuate nell’ambito delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Viceversa, l’accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c., comporta nella liquidazione del danno da immissioni, sussistente in “re ipsa”, l’esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso, in quanto venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c. e specificamente, per quanto concerne il danno alla salute, nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c.” (Sez. 2, Ord. n. 21554 del 2018, Sez. 3, Sent. n. 5844 del 2007).

Sicchè, il superamento delle immissioni tollerabili è il fatto generatore del danno senza che rilevi in alcun modo se l’illecito sia anche penalmente rilevante o costituisca solo un comportamento antigiuridico sul piano civilistico.

La domanda dell’attore, oggi controricorrente, aveva ad oggetto l’accertamento del superamento del suddetto limite di tollerabilità con richiesta di risarcimento del danno conseguente alle immissioni e, dunque, non vi è stata alcuna pronuncia ultrapetita da parte della Corte d’Appello e, prima ancora, del giudice di primo grado nell’accogliere tale richiesta.

Quanto all’entità del risarcimento la Corte d’Appello ha chiarito che l’attore aveva chiesto un risarcimento pari a 50.000 Euro o alla maggiore o minore somma ritenuta di giustizia e, dunque, anche nella quantificazione del danno non vi è alcuna pronuncia ultrapetita, come ben motivato nella sentenza.

Deve richiamarsi in proposito il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui: “La formula “somma maggiore o minore ritenuta dovuta” o altra equivalente, che accompagna le conclusioni con cui una parte chiede la condanna al pagamento di un certo importo, non costituisce una clausola meramente di stile quando vi sia una ragionevole incertezza sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi, mentre tale principio non si applica se, all’esito dell’istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta e la parte si sia limitata a richiamare le conclusioni rassegnate con l’atto introduttivo e la formula ivi riprodotta, perchè l’omessa indicazione del maggiore importo accertato evidenzia la natura meramente di stile dell’espressione utilizzata” (Sez. 3, Sent. n. 12724 del 2016).

Nella specie il ricorrente non censura il fatto che all’esito dell’istruttoria era venuta meno l’originaria ed oggettiva incertezza del quantum, ai fini della aestimatio del danno con specifiche indicazioni sulla quantificazione dello stesso, e dunque la doglianza di violazione dell’art. 112 c.p.c. risulta infondata.

7. Il ricorso è rigettato, non deve procedersi alla liquidazione delle spese, non essendosi costituita in giudizio la controparte intimata.

8. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 2 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2020

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