Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26706 del 21/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 21/10/2019, (ud. 16/05/2019, dep. 21/10/2019), n.26706

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4006-2019 proposto da:

O.F., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

RANDACCIO 1, presso lo studio dell’avvocato LEONARDO MUSA,

rappresentato e difeso da se stesso;

– ricorrente –

contro

C.U., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA RANDACCIO,

1, presso lo studio dell’avvocato LEONARDO MUSA, rappresentato e

difeso dall’avvocato ALFREDO CAVALLO;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza n. R.G. 1148/2017 del TRIBUNALE di BRINDISI,

depositata il 19/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 16/05/2019 dal Consigliere Relatore Dott. TEDESCO

GIUSEPPE.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

L’avv. O.F. ha proposto ricorso per cassazione contro l’ordinanza del Tribunale di Brindisi che, nella controversia

instaurata contro C.U. per la liquidazione del compenso dovuto dal cliente per la difesa in un ricorso per cassazione contro due sentenze (non definitiva e definitiva) emesse dalla Corte d’appello di Lecce in una causa ereditaria.

Il tribunale, determinato il valore della causa nell’importo di Euro 2.723,173,93, ha preso in considerazione il minimo di tariffa, pari a Euro 11.272,00, che ha decurtato di Euro 5.000,00 in considerazione dell’esito negativo del ricorso.

Il presente ricorso è proposto sulla base di due motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso.

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 247 del 2012, art. 13, dell’art. 91 c.p.c. e dell’art. 2233 c.c., comma 2, in riferimento al D.M. n. 55 del 2014, artt. 2,4,5, e 28.

La decisione è censurata perchè il tribunale, pur avendo correttamente individuato lo scaglione di riferimento, ha poi liquidato una somma inferiore ai minimi derivanti dalle percentuali di riduzione previste dal D.M. n. 55 del 2014, art. 4.

Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza per motivazione apparente ovvero contraddittoria, perplessa e incomprensibile o comunque in violazione del minimo costituzionale della motivazione.

Il tribunale ha sottratto la somma di Euro 5.000,00 dai valori minimi, laddove tale importo andava al più sottratto dal compenso medio secondo tariffa.

Si sostiene, in ogni caso, che non andava operata alcuna riduzione, posto che, nonostante il rigetto del ricorso, erano stati trattati argomenti impegnativi e difficoltosi.

Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente possibilità di definizione nelle forme di cui all’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In vista dell’adunanza il ricorrente ha deposito memoria con la quale ha opinato che il principio di giurisprudenza richiamato nella proposta del relatore sarebbe stato poi superato da pronunce successive della Suprema Corte, la cui giurisprudenza sarebbe attualmente attestata sul diverso principio della inderogabilità dei minimi tariffari in base alle percentuali di diminuzione stabilite nel D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 1.

Ha chiesto pertanto la rimessione della causa alle Sezioni Unite, assumendo che la proposta sarebbe stata formulata in base a un orientamento minoritario.

Il Primo Presidente, con provvedimento dell’8 maggio 2019, ha rimesso la relativa valutazione al Collegio della VI-2 Sezione civile.

Il ricorrente ha poi depositato memoria con la quale, fra l’altro, ha eccepito l’inammissibilità sotto più profili del controricorso notificato per via telematica: a) perchè privo di sottoscrizione autografa del difensore; b) perchè la notificazione non comprendeva l’attestazione di conformità all’originale della relata di notificazione e delle ricevute di accettazione e consegna; c) inoltre perchè eseguita presso un indirizzo di posta elettronica diverso da quelli utilizzabili a tal fine.

L’eccezione è complessivamente infondata.

Quanto al primo dei profili sopra indicati rileva la Corte che il difensore non ha sottoscritto il ricorso, ma ha sottoscritto la procura in calce al medesimo.

Vi sono quindi le condizioni per fare applicazione del principio secondo cui “la firma apposta dal difensore in calce o margine del ricorso per cassazione ai fini della autenticazione della procura speciale, vale anche quale sottoscrizione del ricorso, in quanto consente di attribuire al difensore che ha autenticato la sottoscrizione della procura anche la paternità del ricorso” (Cass. n. 18491/2013; n. 7551/2005; n. 7485/2003).

In ordine agli altri profili di censura, al fine di farne emergere l’infondatezza, è sufficiente la considerazione che non è in discussione che il controricorso, a seguito della notificazione, sia pervenuto a conoscenza del destinatario

Opera quindi la normale sanatoria per raggiungimento dello scopo, applicabile anche in materia di notificazione per via telematica: “l’irritualità della notificazione di un atto (nella specie, controricorso in cassazione) a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale” (Cass., S.U., n. 7665/2016; n. 14818/2018).

Il primo motivo è infondato.

In Cass. n. 30286 del 2017, richiamata nella proposta del relatore, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in un caso in cui il giudice di merito aveva liquidato le spese di lite a carico del soccombente sotto i valori minimi previsti nel D.M. n. 55 del 2014. In quella occasione la Corte osservò che “il regolamento di cui al D.M. n. 55 del 2014, emanato in forza della L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 6, e in un assetto ordinamentale che già contemplava l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate (…1, disciplina i “parametri” dei compensi all’avvocato per la prestazione professionale resa (per quanto interessa ai fini della presente decisione) in ambito giudiziale. Tali “parametri”, indicati dal citato D.M. n.55 del 2014, art. 4, comma 1, operano come fattori di concretizzazione della liquidazione del compenso professionale, che muove da valori medi (indicati nella tabelle allegata allo stesso D.M. n. 55 del 2014) su cui poter effettuare, poi, aumenti e diminuzioni secondo determinate percentuali (aumento fino all’80 per cento, diminuzione fino al 50 per cento; per la fase istruttoria, l’aumento è possibile fino al 100 per cento e la diminuzione fino al 70 per cento); (…) quindi, non sussistendo più il vincolo legale della inderogabilità dei minimi tariffari presente nel previgente sistema di liquidazione dei onorari professionali (L. n. 794 del 1942, art. 24; cfr. anche Cass. n. 18167/2015, sebbene in riferimento al precedente D.M. n. 140 del 2012), i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le stesse soglie numeriche di riferimento previste dal D.M. n. 55 del 2014, con i relativi aumenti e diminuzioni, costituiscono criteri di orientamento della liquidazione del compenso, individuando, al contempo, la misura economica standard (quella media) del valore della prestazione professionale. Sicchè, solo in caso di scostamento apprezzabile dai valori medi della tabella allegata al D.M. n. 55 del 2014, il giudice è tenuto ad indicare i parametri che hanno guidato la liquidazione del compenso; scostamento che può anche superare i valori massimi o minimi determinati in forza delle percentuali di aumento o diminuzione, ma in quest’ultimo caso fermo restando il limite di cui all’art. 2233 c.c., comma 2, che preclude di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione (in tale prospettiva, cfr. Cass. n. 25804/2015, Cass. n. 24492/2016 e Cass. n. 20790/2017)”.

Sulla base di tale principio, in base al quale il “superamento dei valori minimi stabiliti in forza delle percentuali di diminuzione incontra il limite dell’art. 2233 c.c., comma 2, il quale preclude al giudice di

liquidare somme praticamente simboliche, “non consone al decoro della professione” (Cass. n. 1522/2019, il relatore ha formulato la proposta di manifesta infondatezza.

In effetti, come giustamente ricorda il ricorrente, in altre pronunce si propone un ragionamento diverso.

In particolare, Cass. 21487 del 2018, intervenuta in una controversia sulla liquidazione operata dalla Corte d’appello in un procedimento per il riconoscimento dell’equo indennizzo con liquidazione dei compensi al di sotto del minimo legale, la Corte ha “considerato che l’opinione secondo la quale il D.L. Giustizia 10 marzo 2014, n. 55, nella parte in cui determina un limite minimo ai compensi tabellarmente previsti (art. 4) non può considerarsi derogativo emesso dallo stesso Ministero D. 20 luglio 2012, n. 140, il quale, stabilendo in via generale i compensi di tutte le professioni vigilate dal Ministero della Giustizia, al suo art. 1, comma 7, dispone che “In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa”, non è condivisa dalla Corte, in quanto: come ricorda lo stesso controricorrente, il D.M. n. 140 del 2012, risulta essere stato emanato (D.L. n. 1 del 2012, conv. nella L. n. 27 del 2012) allo scopo di favorire la liberalizzazione della concorrenza e del mercato, adempiendo alle indicazioni della UE, a tal fine rimuovendo i limiti massimi e minimi, così da lasciare le parti contraenti (nella specie, l’avvocato e il suo assistito) libere di pattuire il compenso per l’incarico professionale; per contro, il giudice resta tenuto ad effettuare la liquidazione giudiziale nel rispetto dei parametri previsti dal D.M. n. 55 del 2014, il quale non prevale sul D.M. n. 140, per ragioni di mera successione temporale, bensì nel rispetto del principio di specialità, poichè, diversamente da quanto affermato dall’Amministrazione resistente, non è il D.M. n. 140 del 2012 – evidentemente generalista e rivolto a regolare la materia dei compensi tra professionista e cliente (ed infatti, l’intervento del giudice ivi preso in considerazione riguarda il caso in cui fra le parti non fosse stato preventivamente stabilito il compenso o fosse successivamente insorto conflitto) – a prevalere, ma il D.M. n. 55 del 2014, il quale detta i criteri ai quali il giudice si deve attenere nel regolare le spese di causa (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 1018, 17/1/2018, Rv. 647642)”.

Senza che in questa sede sia minimamente necessario approfondire se da tali pronunce emerga realmente un contrasto di giurisprudenza sulla inderogabilità dei valori minimi stabiliti dal D.M. n. 55 del 2014, ai nostri fini è sufficiente il rilievo che, nei casi considerati, si discuteva della liquidazione giudiziale delle spese a carico del soccombente (identico è il caso del compenso professionale spettante al difensore d’ufficio), laddove la presente lite riguarda il rapporto fra professionista e il cliente.

In altre parole la presente lite riguarda il diverso ambito – fatto salvo dalle medesime pronunce orientate a negare che il giudice possa discostarsi dai criteri di cui al D.M. n. 55 del 2014 “nel regolare le spese di causa” (Cass. n. 32575 del 2018, ampiamente richiamata dal ricorrente al fine di giustificare l’istanza di rimessione) – in cui l’intervento del giudice è quello preso in considerazione dal D.M. n. 140 del 2012.

In questo diverso ambito, riferito al caso in cui fra le parti non sia stato preventivamente stabilito il compenso o sia successivamente insorto conflitto, vale incondizionatamente il principio, richiamato dal medesimo ricorrente a pag. 13 della istanza di rimessione alle Sezioni Unite, secondo cui “l’abolizione dei minimi tariffari può operare nei rapporti fra professionisti e cliente, ma l’esistenza della tariffa mantiene la propria efficacia allorquando il giudice debba procedere alla regolamentazione delle spese del giudizio in applicazione del principio della soccombenza ovvero come nel caso di specie alla liquidazione del compenso spettante al difensore d’ufficio” (Cass. n. 7293 del 2011).

La decisione impugnata, pertanto, nella parte in cui ha rilevato che “le tabelle in questione non sono vincolanti per il giudice che, in assenza di una preventiva determinazione pattizia sia chiamato a determinare, in via giudiziale l’importo dovuto”, è in linea con tale principio, da ritenersi incontrastato nella giurisprudenza della Corte, conseguendone pertanto anche il rigetto della istanza di rimessione alle Sezioni Unite.

Nel motivo in esame il ricorrente adombra la violazione dell’art. 2233 c.c., comma 2, ma per questa parte la rubrica non corrisponde al contenuto della censura, interamente incentrata a sostenere l’illegittimità della liquidazione per la violazione dei minimi secondo tariffa e non già a denunciare il carattere simbolico della liquidazione.

Il secondo motivo è inammissibile.

Invero, sotto l’improprio profilo della denuncia di una anomalia motivazionale, si ripropone pur sempre la tesi che il giudice, una volta riconosciuta l’applicabilità del D.M. n. 55 del 2014, non poteva operare la liquidazione al di sotto del minimo derivante dalle riduzioni previste nell’art. 4 di tale decreto.

Si deve ancora aggiungere, in riferimento al rilievo proposto alla fine del motivo in esame (il giudice avrebbe dovuto liquidare il compenso secondo i valori medi “atteso che, nonostante il rigetto del ricorso sono stati trattati argomenti impegnativi e difficoltosi”), che lo stesso non si pone di per sè quale denuncia della violazione del criterio di cui all’art. 2233 c.c., comma 2.

In ordine a questo profilo si ritiene di aggiungere ancora, solo per completezza di esame, che nel controricorso si precisa che la Suprema Corte, nel giudizio a cui si riferisce la pretesa, ha liquidato al vincitore la somma di Euro 3.000,00, nonostante il difensore di parte avversa avesse difeso sette persone.

A tale deduzione il ricorrente non ha replicato alcunchè.

Il ricorso, pertanto, va rigettato, con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti dell’obbligo del versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettaria nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; dichiara ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 16 maggio 2019.

Depositato in cancelleria il 21 ottobre 2019

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