Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2669 del 05/02/2018


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Cassazione civile, sez. III, 05/02/2018, (ud. 27/10/2017, dep.05/02/2018),  n. 2669

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 1998, F.M.P. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma l’avvocato M.V., esponendo che il convenuto, suo procuratore in una causa davanti alla Pretura civile di Roma, si era sottratto all’adempimento di elementari obblighi defensionali. Chiese pertanto la condanna del convenuto al risarcimento del danno conseguente.

Si costituì il convenuto instando per il rigetto della domanda.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 14609/2000, accolse la domanda, ritenendo che il mancato espletamento dell’interrogatorio formale e della prova per testi pur richiesti – anche con riferimento alla domanda riconvenzionale – nonchè l’aver disertato tutte le udienze a partire da quella del 12 febbraio 1992, costituisse grave inadempimento agli obblighi incombenti sul procuratore, che aveva inciso, nella misura del 50%, sulle possibilità di vittoria in quella causa.

2. La decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 6385 del 17 ottobre 2014.

Il giudice di secondo grado ha evidenziato che l’appello proposto dall’avv. M., laddove censurava la sussistenza del nesso di causalità tra le proprie omissioni e il danno per inidoneità della condotta alternativa lecita (anche ove fossero state assunte le prove richieste, l’esito del giudizio dinanzi alla Pretura non sarebbe mutato, trattandosi di causa documentale della quale era prevedibile, già ab origine, l’esito negativo), si concentra su una delle plurime omissioni (la mancata attivazione per espletare le prove richieste) e su un solo danno (relativo alla chance di vittoria della causa).

Secondo la Corte, invece, il M. oblitera gli altri inadempimenti ed il danno che è stato conseguenza diretta ed immediata di tali ulteriori omissioni, costituito dalla lesione al diritto alla ragionevole durata del processo, costituzionalmente garantito.

Peraltro, il danno da inadempimento degli obblighi del procuratore non può essere dato dalla perdita della causa/vittoria della causa, tant’è che si parla di un’obbligazione di mezzi e non di risultato. Nè gli inadempimenti nè la condotta alternativa lecita possono essere valutati in tale ottica. Non rileva quindi il fatto che il comportamento corretto non avrebbe alterato l’esito della causa.

Il danno risarcibile deve invece essere individuato nell’aver diminuito le possibilità di vincita e/o nell’aver aumentato il rischio di perdita della causa in conseguenza degli inadempimenti contestati.

Legittimamente quindi il giudice di cure ha ritenuto sussistente il nesso causale sulla base di un giudizio probabilistico, comparando l’esito della causa con quello che sarebbe stato se le prove fossero state assunte, concludendo che l’assunzione della prova avrebbe aumentato le chance di vittoria della F., sia con riferimento alla domanda principale che alla sua domanda riconvenzionale nella misura del 50%.

Non sarebbe idoneo ad escludere la responsabilità del M. il fatto che il procuratore abbia prospettato alla F. la possibilità di transigere, sia perchè non è provato che tale soluzione venne prospettata quale unica via, sia perchè, comunque, il comportamento omissivo successivo non sarebbe stato congruo a tale obiettivo.

Inoltre, la circostanza che la causa fosse persa ab initio è in fatto infondata (posto che, all’esito del giudizio iniziato dinanzi alla Pretura di Roma, è stata accolta la domanda riconvenzionale formulata dalla F.) e comunque inidonea ad elidere la responsabilità del M., poichè quest’ultimo avrebbe assunto la difesa senza informare il cliente delle scarse possibilità di vittoria.

La Corte di appello, inoltre, pur escludendo che la condotta del procuratore integri gli estremi del reato di infedele patrocinio (come invece ritenuto dal giudice di primo grado), per carenza dell’elemento soggettivo (trattandosi di omissioni colpose e prive della consapevolezza della loro idoneità ad arrecale il danno), ha confermato la statuizione relativa al riconoscimento del danno morale.

Al riguardo, la Corte ha ritenuto non vincolante il riferimento all’art. 380 c.p. operato dalla F., poichè afferente non alla ricostruzione del fatto, ma alla qualificazione giuridica dello stesso, ed ha accolto la domanda di risarcimento del danno morale ritenendo che le condotte illecite abbiano leso diritti afferenti alla persona ex art. 2 Cost. e segnatamente il diritto inviolabile alla ragionevole durata del processo ed il diritto ad una adeguata difesa.

La Corte romana ha poi confermato la condanna alle spese di primo grado dell’avv. M., ritenendo che il riconoscimento solo parziale della domanda in ordine al quantum del risarcimento del danno morale non è idoneo ad imporre la richiesta compensazione, essendo stata la liquidazione sul punto equitativa, e che in ogni caso le somme liquidate non appaiono eccessive, essendo conformi a quelle dovute sulla base delle tariffe professionali.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso in Cassazione l’avvocato M.V., sulla base di quattro motivi.

3.1. Resiste con controricorso F.M.P..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame delle sentenze relative alla vertenza iniziata dinanzi alla Pretura di Roma, la cui acquisizione era stata prevista dalla Corte di Appello e che contengono un fatto decisivo per il giudizio.

Infatti, con tali pronunce, la signora F. sarebbe stata sgravata parzialmente dalla soccombenza della causa davanti al Pretore, ridimensionando il danno patrimoniale che era stato accollato per il 50% all’avv. M..

La Corte di Appello non avrebbe evidenziato che la domanda riconvenzionale a suo tempo formulata dal M. nell’interesse della F. è stata accolta nonostante non si fossero espletati i mezzi istruttori richiesti. Ciò dimostrerebbe che l’omissione del M. non ha inciso sull’esito della causa.

Inoltre, la Corte di Appello avrebbe dovuto ridurre la condanna del M. in proporzione alla riduzione della condanna della F. nell’altro giudizio, al fine di non far giovare la stessa di un ingiustificato arricchimento.

Il motivo è infondato.

In disparte i non marginali profili di inammissibilità, perchè il motivo sembra porsi al di fuori dei confini individuati da Cass. S.U.n. 7161/2010 e Cass. S.U. n. 28547/2008, in ogni caso, contrariamente a quanto afferma il ricorrente, la Corte di Appello ha tenuto conto delle sentenze acquisite agli atti del processo con riferimento all’an del risarcimento, dando conto dell’esito finale della causa iniziata dinanzi alla Pretura ed evidenziando come proprio l’accoglimento della domanda riconvenzionale smentisca la tesi sostenuta dal ricorrente nelle fasi del merito, ovvero che la predetta causa era persa ab initio e che quindi la condotta del M. non avrebbe avuto alcuna rilevanza causale. Conseguentemente, tale aspetto è stato valutato nella sua complessità, con motivazione logica congrua e scevra da qualsivoglia vizio logico giuridico, anche sotto il profilo del quantum debeatur (cfr. pag. 4 e 5 della sentenza impugnata).

4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la “violazione o falsa applicazione delle norme di cui all’art. 1176 del codice civile, all’art. 1223 c.c. e all’art. 2043 c.c.”.

La Corte individuerebbe la responsabilità e la colpa del M. su circostanze – la mancata partecipazione al processo e l’omesso compimento delle attività difensive – che sarebbero comunque superate dal fatto che il Pretore aveva erroneamente dichiarato la contumacia della F..

Pertanto, l’espletamento delle suddette attività sarebbe comunque risultato indifferente ai fini dell’esito della lite.

Inoltre, il M. non sarebbe responsabile della durata del processo, che anzi, per via della sua pretesa negligenza, sarebbe stato addirittura più breve.

Al contrario, le lungaggini del processo di primo grado sarebbero state determinate esclusivamente dalla fissazione a notevole distanza di tempo delle udienze di rinvio da parte del Pretore e quelle delle fasi successivi non potrebbero essere a carico dell’avv. M., che vi era rimasto estraneo.

La motivazione della Corte, poi, non sarebbe lineare, non essendo possibile comprendere se il M. debba risarcire la F. per l’eccessiva durata del processo o per non aver svolto compiutamente la propria attività difensiva.

Il motivo è inammissibile, sia perchè volto ad ottenere una nuova e diversa valutazione degli elementi di fatto del giudizio, sia perchè nello stesso, nella parte in cui censura il percorso motivazionale della sentenza, si riscontra la inestricabile mescolanza e la indebita sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

4.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la “violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2 Cost.”.

La Corte di appello avrebbe violato l’art. 112 c.p.c. sostituendo il risarcimento per fatto-reato richiesto dalla parte con il risarcimento per la commissione di un fatto illecito.

La norma invocata non consentirebbe di mutare la motivazione per confermare una condanna pecuniaria di cui si dia atto che non vi sono i presupposti.

Inoltre, la condanna al risarcimento dei danni morali non potrebbe scaturire da un evento incontrollabile dal M. quale la durata del processo.

Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.

Nel caso di specie, la Corte non si è pronunciata su di una domanda di risarcimento diversa da quella proposta dalla F., relativa a danni diversi e/o fondata su fatti diversi da quelli prospettati nell’atto di citazione, bensì sulla medesima domanda di risarcimento del danno morale, fondata sulle medesime condotte illecite censurate da parte attrice, alle quali ha solo dato una diversa qualificazione giuridica.

Al riguardo, infatti, la giurisprudenza di questa Corte ha osservato che “la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato che vincola il Giudice ai sensi dell’art. 112 c.p.c., riguarda il petitum, che va determinato con riferimento a quello che viene domandato sia in via principale che in via subordinata, in relazione al bene della vita che l’attore intende conseguire ed alle eccezioni che in proposito siano state sollevate dal convenuto. Tale principio, tuttavia, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta sulla base di una ricostruzione autonoma dei fatti, rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella indicata dalle parti” (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 23/06/2016, n. 13049).

Il motivo è poi inammissibile laddove sollecita una nuova valutazione in ordine alla idoneità della lesione del diritto alla ragionevole durata del processo a dare luogo a conseguenze non patrimoniali risarcibili.

4.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la “violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c.”.

Con riferimento alla liquidazione delle spese di primo grado, la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto che l’addebito per spese vive non aveva riscontro documentale.

Inoltre, nel determinare la fascia di riferimento della tariffa professionale, il giudice avrebbe dovuto far riferimento non al valore della domanda, bensì all’ammontare della effettiva condanna.

Infine, la Corte di Appello si sarebbe contraddetta nell’affermare, da un lato, che le spese liquidate erano conformi a quelle dovute in base alle tariffe, dall’altro, che la liquidazione sul punto rivestiva natura e contenuto equitativi.

Il motivo è in parte inammissibile, poichè non viene fatto riferimento alle difese svolte nel giudizio di appello ove si sarebbe lamentata l’erronea liquidazione delle spese vive.

Per il resto, il motivo è infondato.

Infatti, questo Collegio ritiene di condividere e fare propri i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di spese giudiziali in materia civile, l’art. 6 della tariffa professionale forense in materia giudiziale civile (norma secondo la quale nei giudizi civili per il pagamento di somme o per liquidazione di danni la determinazione degli onorari a carico del soccombente deve effettuarsi avendo riguardo alla somma attribuita alla parte vincitrice, piuttosto che all’importo richiesto in domanda) si riferisce alla sola ipotesi dell’accoglimento parziale della domanda (cfr. Cass. civ. Sez. 6 Ordinanza, 12/08/2011, n. 17228; Cass. civ., 26 luglio 2001, n. 10215).

Nella specie, la domanda della signora F. è stata integralmente accolta, sia sotto il profilo del danno patrimoniale, sia sotto il profilo del danno morale, sebbene questo sia stato valutato in via equitativa in un importo minore rispetto a quello richiesto.

Infine, non sussiste alcuna contraddizione nella motivazione della sentenza impugnata, laddove evidenzia che il danno morale – e non le spese giudiziali, come afferma il ricorrente – è stato liquidato dal giudice di primo grado in via equitativa.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Ritiene la Corte che in considerazione della complessità e novità della vicenda le spese debbano essere compensate.

6. Infine, dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 18, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla citata L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del cit. art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte suprema di Cassazione, il 27 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2018

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