Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26681 del 22/12/2016

Cassazione civile, sez. VI, 22/12/2016, (ud. 23/11/2016, dep.22/12/2016),  n. 26681

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26599-2014 proposto da:

L.S., ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, V.

PANAMA 74, presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI,

che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., ((OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE

EUROPA 190, presso lo studio dell’avvocato ROSSANA CLAVELLI

rappresentata e difesa dall’avvocato ROSSANA CATALDI giusta procura

a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 529/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO del

30/4/2014, depositata il 6/5/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/11/2016 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;

udito l’Avvocato ILARIA FARES (delega verbale avvocato GIANNI

IACOBELLI) difensore del ricorrente che si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato PASQUALE DI IESO (delega verbale avvocato ROSSANA

CLAVELLI) difensore della controricorrente che si riporta agli

scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione e./- artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti: “Con ricorso al Giudice del lavoro di Alessandria, L.S. conveniva in giudizio la Poste Italiane S.p.A. chiedendo l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso inter partes per il periodo 1.4.2009 – 30.6.2009, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, per lo svolgimento dell’attività di portalettere junior. Il primo Giudice rigettava la domanda e la Corte di appello di Torino confermava tale pronuncia. Osservava la Corte che la disciplina normativa richiamata era esclusiva/alternativa rispetto a quella del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e non aggiuntiva rispetto a quella generale prevista da tale articolo e che con l’introduzione D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, il legislatore, salvaguardando il principio di regola-eccezione, avesse solo previsto precisi limiti temporali e quantitativi nonchè obblighi di comunicazione. Rilevava, inoltre, che nella specie le doglianze del ricorrente relative all’erroneità del calcolo ai fini del preteso mancato rispetto della percentuale del 15% fossero infondate.

Per la cassazione di tale decisione ricorre L.S., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la società.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, in relazione all’art. 2697 c.c. (mancata prova del rispetto del limite percentuale di assunzioni a termine indicato nella richiamata disposizione superamento del 15% di assunzioni a termine dell’anno) – violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c. (superamento del limite percentuale suddetto e mancata comunicazione alle 00.SS. di categoria). Sostiene che nel ricorso aveva contestato la violazione della norma in esame, eccependo il superamento del limite percentuale massimo e che il giudice di primo grado si era limitato ad affermare che la società Poste Italiane aveva dimostrato di avere rispettato il limite fissato; che il motivo veniva riproposto nell’atto di appello, ove si specificava che il documento prodotto da controparte era assolutamente inidoneo a fornire la prova del mancato superamento della clausola di contingentamento, attesa la sua provenienza di parte e perchè redatto in assenza di contraddittorio, privo della vidimazione e delle attestazioni provenienti dagli enti pubblici preposti per legge a conferire allo stesso giuridica validità in sede di valutazione delle prove. Assume la contraddittorietà ed insufficienza della motivazione in relazione alla circostanza, ribadita in appello, della mancata osservanza della clausola di contingentamento, non avendo la Corte territoriale indicato la prova dalla quale era stato desunto il rispetto della percentuale di legge. Aggiunge che la percentuale degli assunti era stata calcolata sul totale dei dipendenti di Poste, compresi coloro che sono addetti ai servizi finanziari, i quadri aziendali, i dirigenti, laddove il D.Lgs. n. 261 del 1999 definisce il servizio postale universale come quello inerente la raccolta il trasporto lo smistamento e la distribuzione degli invii postali, onde, rispetto a tale diverso quadro di riferimento gli assunti a termine superavano la percentuale di legge, calcolata considerando soltanto tale numero di dipendenti.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, sul rilievo che la pronunzia è viziata per la mancata valutazione delle censure contenute negli atti difensivi. Ribadisce il ricorrente la assoluta inidoneità probatoria dei documenti prodotti dalla società, che avrebbe dovuto, invece, richiamare a fondamento delle proprie allegazioni documentazione risultante presso gli uffici pubblici preposti, deputati per legge a conferire agli stessi autenticità.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta error in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 132 c.p.c. ed all’art. 118 disp. att. c.p.c. (nullità della sentenza e del procedimento – insufficiente ed incongrua esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione) ritenendo che le apodittiche affermazioni contenute nella sentenza gravata in ordine al rispetto della clausola in questione non sia accompagnata da alcuna argomentazione logico giuridica e da alcun richiamo a disposizioni di legge che facciano propendere per la soluzione adottata.

I motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.

Come precisato da questa Corte (cfr. (cfr. Cass. 11 luglio 2012, n. 11659; Cass. 26 luglio 2012, n. 13221 e da ultimo Cass., Sez. un., 31 maggio 2016, n. 11374) il testo del citato D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, non pone problemi interpretativi laddove prevede la possibilità, per le imprese concessionarie di servizi postali, di stipulare contratti a termine, con i limiti e nei periodi ivi previsti, a prescindere dal ricorrere delle condizioni di cui al d.lgs. n. 368 del 2001, art. 1, e senza la necessità di indicare, in sede di stipulazione del contratto, le ragioni obiettive che giustifichino l’apposizione del termine. La diversa interpretazione secondo cui, in sostanza, la norma in esame aggiungerebbe condizioni ulteriori rispetto a quelle già contenute nel D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, deve ritenersi contraria alla ratio legis che è manifestamente quella di favorire una parziale liberalizzazione delle assunzioni a termine nel settore delle poste con riguardo alla possibilità di ricorrere nello specifico settore all’apposizione del termine, indipendentemente dalla puntuale indicazione delle ragioni giustificatrici di tale apposizione. E’, stato, anche, evidenziato come una tale ricostruzione abbia trovato autorevole conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, la quale, premesso che la disposizione in esame costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine, ha affermato che una siffatta valutazione, preventiva e astratta, non è manifestamente irragionevole, atteso che la garanzia alle imprese in questione, nei limiti percentuali previsti, di una sicura flessibilità dell’organico, è direttamente funzionale all’onere gravante sulle stesse di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonchè la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali costituiscono attività di preminente interesse generale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1 (Attuazione della direttiva 1997/67/CI concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). Il giudice delle leggi ha escluso la sussistenza di un profilo di incostituzionalità del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, rispetto ai principi di cui all’art. 3 Cost., avendo ritenuto non manifestamente irragionevole che, ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato. E ciò è, tanto più valido in quanto il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nell’imporre alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzione a termine, prevede un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma. La piena legittimità della norma in esame è stata, poi, ritenuta anche con riferimento all’assenza di violazione dei principi di cui agli artt. 101, 102 e 104 Cost., essendo stato osservato che la norma censurata si limita a richiedere, per la stipula dei contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale (non già l’indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell’organico complessivo), per cui il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale. La disposizione in esame è stata considerata pienamente conforme all’ordinamento comunitario, posto che, come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza sopra citata, essa trova il proprio fondamento e la propria giustificazione nella direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo) del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio e tale impostazione ha trovato conferma anche nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, che, nell’ordinanza in data 11 novembre 2010, ha valorizzato, ai fini della propria statuizione, l’assunto che l’adozione dell’art. 2, comma 1 bis, era finalizzata a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità allo scopo di garantire l’attuazione della direttiva 1997/67/CE (in tema di sviluppo del mercato interno dei servizi postali), con particolare riferimento allo sviluppo del mercato interno dei servizi postali e il miglioramento della qualità del servizio, ossia ad uno scopo distinto da quello dell’attuazione dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 1999/70/CE, del Consiglio del 28 giugno 1999 prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001. Sulla base di tale rilievo, la Corte di giustizia ha affermato l’irrilevanza di ogni valutazione circa l’efficacia della tutela garantita dall’art. 2, comma 1 bis, rispetto a quella perseguita dall’accordo quadro con riferimento all’assunzione di lavoratori a tempo determinato, non potendo tale normativa nazionale essere considerata contraria alla clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (ai sensi della quale l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso) di cui alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999, ove comporti una reformatio in peius che non sia in alcun modo collegata con l’applicazione dell’accordo quadro, ma sia giustificata dalla distinta necessità di promuovere un obiettivo sostanzialmente diverso. Con riferimento al profilo della sussistenza di una violazione dei principi della parità di trattamento e di non discriminazione, concernente i lavoratori a tempo determinato assunti da un’impresa postale con riferimento all’insussistenza dell’obbligo di indicare le ragioni oggettive del ricorso ad un primo o unico contratto a termine, la Corte di giustizia, richiamata la propria giurisprudenza secondo cui, nell’ambito dei contratti di lavoro a tempo determinato, il principio di non discriminazione è stato attuato dall’accordo quadro unicamente per quanto riguarda le disparità di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato (C307/05 13 settembre 2007 Del Cerro Alonso), ha precisato che le eventuali disparità di trattamento tra determinate categorie di lavoratori a tempo determinato non sono soggette al principio di non discriminazione sancito dall’Accordo Quadro (cfr. Cass. 11659/2012 e Cass. 13221/12 cit.). E’ stato, altresì, precisato che il suddetto D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 2, comma 1 bis, fa riferimento esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene l’assunzione quelle concessionarie di servizi e settori delle poste – e non anche alle mansioni del lavoratore assunto, in coerenza con la ratio della disposizione, ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 214 del 2009, individuata nella possibilità di assicurare al meglio lo svolgimento del cd. servizio universale postale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, di attuazione della direttiva 1997/67/CE, mediante il riconoscimento di una certa flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato, pur sempre nel rispetto delle condizioni inderogabilmente fissate dal legislatore. Ne consegue che al fine di valutare la legittimità del termine apposto alla prestazione di lavoro, si deve tenere conto unicamente dei profili temporali, percentuali (sull’organico aziendale) e di comunicazione previsti dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, non operando l’onere di indicare sotto il profilo formale e di rispettare sul piano sostanziale la causale, oggettiva e di natura temporanea, giustificatrice dell’apposizione di un termine al rapporto (Cass. 26 luglio 2012, n. 13221; Cass. 2 luglio 2015, n. 13609; Cass. 5 febbraio 2016, n. 2324 nonchè la già citata Cass., Sez. un., 31 maggio 2016, n. 11374). Il solo fatto, dunque, di essere impresa concessionaria di servizi nei settori delle poste (D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis) consente a Poste Italiane S.p.A. di assumere a termine secondo le previsioni di cui a detto art. 2, sicchè non rileva accertare le mansioni concretamente svolte dal lavoratore e distinguere quelle attinenti strettamente al servizio postale dalle altre.

Tanto premesso, va prioritariamente esaminata la censura prospettata con riguardo alla dedotta violazione delle regole processuali e del principio di ripartizione dell’onere della prova.

La stessa deve essere disattesa, posto che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio in forza del quale la prova del rispetto del limite della percentuale di contingentamento grava sulla società, tenuta all’osservanza della relativa clausola, ritenendo, tuttavia, che, nel caso concreto, a fronte della produzione di documentazione da parte della società oneratane e delle contestazioni da parte del lavoratore, occorresse ammettere le istanze istruttorie richieste dalla società. I giudici di appello hanno, poi, spiegato che l’esito della svolta prova testimoniale aveva consentito di verificare il contenuto dei documenti prodotti e di chiarire le modalità di estrazione dei relativi dati dal sistema informatico centrale denominato SAP e che gli ulteriori rilievi del lavoratore non tenevano conto del fatto che nessun raffronto poteva essere operato tra bilanci e prospetti aziendali per mancanza di omogeneità degli elementi riportati negli uni e negli altri.

Le censure si risolvono, allora, nella mera contrapposizione di una ricostruzione dei fatti e delle prove difforme rispetto a quella effettuata dal giudice del merito.

Quanto al vizio motivazionale dedotto, deve rilevarsi a seguito della modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b) convertito in L. n. 134 del 2012, applicabile, in base al comma 3 della medesima norma, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione, e dunque dall’11/9/2012, è deducibile solo il vizio di omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti; il controllo della motivazione è, così, ora confinato sub specie nullitatis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di motivazione apparente, di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).

Nel caso in esame i fatti controversi da indagare (da non confondersi con la valutazione delle relative prove) sono stati manifestamente presi in esame dalla Corte territoriale; sicchè neppure potrebbe trattarsi di omesso esame, ma di accoglimento di una tesi diversa da quella sostenuta dall’odierno ricorrente.

Alla stregua di tutte tali argomentazioni e considerato che anche la doglianza di cui all’ultimo motivo costituisce una replica di quelle prospettate in quelli precedenti, deve ribadirsi al riguardo che la pronunzia gravata non è sorretta da una motivazione meramente apparente, ma si fonda su una compiuta disamina di tutto il materiale probatorio acquisito in corso di causa.

Con riguardo, poi, al rilievo riferito all’adozione di un parametro erroneo ai fini della valutazione del rispetto della percentuale del 15%, va evidenziato che nulla la norma dispone in relazione alla tipologia delle mansioni esercitate dai dipendenti ai fini della possibilità di assunzione a termine e che una tale limitazione è estranea anche alle motivazioni adottate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 214 del 2009. In tale pronuncia, premesso che la disposizione in esame costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine, il giudice delle leggi ha affermato che siffatta valutazione, preventiva e astratta, non è manifestamente irragionevole, atteso che la garanzia alle imprese in questione, nei limiti percentuali previsti, di una sicura flessibilità dell’organico, è direttamente funzionale all’onere gravante sulle imprese stesse di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonchè la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali costituiscono attività di preminente interesse generale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). Il giudice delle leggi ha escluso la sussistenza di un profilo di incostituzionalità del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bit, rispetto ai principi di cui all’art. 3 Cost., avendo ritenuto non manifestamente irragionevole che, ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato. Ciò è tanto più valido in quanto il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nell’imporre alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzione a termine, prevede un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma (si veda, in tale senso, Cass. 4 gennaio 2016, n. 3.

Quanto, poi, agli ulteriori profili di doglianza concernenti il criterio di calcolo, i motivi sono innanzitutto articolati in dispregio del principio di autosufficienza, non essendo stato riportato il contenuto integrale dei documenti su cui i medesimi si fondano (prospetti aziendali e bilanci) al fine di consentire a questa Corte non solo di verificare che quello utilizzato sia effettivamente stato il criterio per teste ma soprattutto per ritenere che, con il diverso criterio (full time equivalent), si sarebbe giunti ad un risultato differente e sfavorevole per la società.

In ogni caso, ad abundantiam anche avendo riguardo a quanto previsto nel D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 6 – così come integrato e modificato dal D.Lgs. n. 100 del 2001 – (attuazione della Direttiva CE 97/81, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale raggiunto dell’UN10E, dal CEP dalla CES), non pare che la questione del calcolo dei dipendenti a tempo indeterminato a tempo parziale ai fini della determinazione dell’organico sia stata posta in modo corretto. L’art. 6 menzionato decreto enuncia il principio generale del computo dei lavoratori pari lime nel numero dei dipendenti in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno come definito dal decreto stesso, in tutte le ipotesi in cui, per disposizione di legge o di contratto collettivo, si renda necessariO l’accertamento della consistenza dell’organico. Detto criterio di valutazione, adesso l’unico, stante l’abrogazione dell’eccezione contenuta nel comma 2 della norma da parte del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 46, comma 1, lett. p) (conformemente alle disposizioni della Legge Delega n. 30 del 2003 (art. 3, comma 3, lett. I è poi seguito dall’indicazione delle regole per l’eventuale arrotondamento, che opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno. A ciò consegue che anche secondo il criterio full time equivalent, non necessariamente il tempo parziale doveva essere tutto valutato in proporzione all’orario svolto, ove, secondo il previsto criterio di arrotondamento, vi fossero frazioni di tale orario eccedenti la relativa somma corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno (si veda in tal senso Cass. 31 marzo 2015, n. 6584).

Infine, quanto ai rilievi relativi all’adempimento dell’onere di comunicazione alle OOSS., è sufficiente considerare che la Corte territoriale, con un accertamento in fatto incensurabile in questa sede, ha in modo approfondito spiegato perchè dovesse ritenersi che la società aveva fornito la prova del rituale inoltro di tale comunicazione (senza dire che neppure è censurato l’ulteriore passaggio argomentativo in cui è evidenziato che non può il lavoratore dolersi della mancata ovvero erronea comunicazione alle 00.SS., priva di diretta incidenza sulla validità del contratto di lavoro).

Per tutto quanto sopra considerato, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.

2 – Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex rt. 380 bis c.p.c. con la quale il ricorrente ripropone sostanzialmente le argomentazioni già esposte nel ricorso, insistendo in particolare nel sostenere la inidoneità probatoria di una documentazione proveniente dalla stessa parte e la conseguente mancanza di un onere di contestazione specifica, rilievi cui nella relazione è stata data adeguata risposta.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5 per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo.

6 – I1 ricorso e stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

La suddetta condizione sussiste nella fattispecie in esame.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della società controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso spese forfetario nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2016

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