Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26672 del 22/12/2016

Cassazione civile, sez. VI, 22/12/2016, (ud. 23/11/2016, dep.22/12/2016),  n. 26672

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19350-2013 proposto da:

M.G., ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, V.

PANAMA 74, presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI,

che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., ((OMISSIS)), – società con socio unico – in

persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POMPEO MAGNO 23/A, presso lo

studio dell’avvocato GIAMPIERO PROIA, che la rappresenta e difende

giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1338/2012 della Corte di appello ROMA,

depositata il 18/2/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/11/2016 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;

udito l’Avvocato ILARIA FARES (delega verbale avvocato GIANNI EMILIO

IACOBELLI) difensore del ricorrente che si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato MATTEO SILVESTRI (delega verbale avvocato GIAMPIERO

PROIA) difensore della controricorrente che si riporta agli scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti: “Con ricorso al Giudice del lavoro di Roma, M.G. conveniva in giudizio la Poste Italiane S.p.A. chiedendo l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso inter partes per il periodo 1.4.2006 – 30.6.2006, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, per lo svolgimento dell’attività di portalettere. Il primo Giudice rigettava la domanda e la Corte di appello di Roma confermava tale pronuncia.

Osservava la Corte territoriale che la disciplina normativa richiamata era esclusiva/alternativa rispetto a duella del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e non aggiuntiva rispetto a quella generale prevista da tale articolo e che con l’introduzione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, il legislatore, salvaguardando il principio di regola-eccezione, avesse solo previsto precisi limiti temporali e quantitativi nonchè obblighi di comunicazione. Riteneva, inoltre, che, nella specie, le doglianze del ricorrente relative all’erroneità del calcolo ai tini del preteso mancato rispetto della percentuale del 15% fossero infondate e che la comunicazione alle 00.SS. fosse prevista a fini di controllo e trasparenza, senza alcuna diretta incidenza sulla validità del contratto di lavoro.

Per la cassazione di tale decisione ricorre M.G., affidando l’impugnazione ad un motivo, cui resiste, con controricorso, la società.

Con l’unico articolato motivo, il ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, (illegittima inversione dell’onere probatorio) ed ancora omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (mancata prova del rispetto del limite percentuale di assunzioni a termine indicato nella richiamata disposizione superamento del 15% di assunzioni a termine dell’anno), violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c. (pag. 9 del ricorso – superamento del limite percentuale suddetto). Sostiene che nel ricorso aveva contestato la violazione della norma in esame, eccependo il superamento del limite percentuale massimo, e che il giudice di primo grado si era limitato ad affermare che la società Poste Italiane aveva dimostrato di avere rispettato tale limite; che il motivo era stato riproposto nell’atto) di appello, ove era stato specificato che il documento prodotto da controparte era assolutamente inidoneo a fornire la prova del mancato superamento della clausola di contingentamento, attesa la sua provenienza di parte e perchè redatto in assenza di contraddittorio, privo della vidimazione e delle attestazioni provenienti dagli enti pubblici preposti per legge a conferire allo stesso giuridica validità in sede di valutazione delle prove.

Assume la contraddittorietà ed insufficienza della motivazione in relazione alla circostanza, ribadita in appello, della mancata osservanza della clausola di contingentamento, non avendo la Corte territoriale indicato la prova dalla quale era stato desunto il rispetto della percentuale di legge.

Aggiunge che la percentuale degli assunti era stata calcolata sul totale dei dipendenti di Poste, compresi coloro che sono addetti ai servizi finanziari, i quadri aziendali, i dirigenti, laddove il D.Lgs. n. 261 del 1999 definisce il servizio postale universale come quello inerente la raccolta il trasporto lo smistamento e la distribuzione degli invii postali, onde, rispetto a tale diverso quadro di riferimento, gli assunti a termine superavano la percentuale di legge, calcolata considerando soltanto tale numero di dipendenti.

Il ricorso è infondato.

Come precisato da questa Corte (cfr. (cfr. Cass. 11 luglio 2012, n. 11659; Cass. 26 luglio 2012, n. 13221 e da ultimo Cass., Sez. un., 31 maggio 2016, n. 11374) il testo del citato D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, non pone problemi interpretativi laddove prevede la possibilità, per le imprese concessionarie di servizi postali, di stipulare contratti a termine, con i limiti e nei periodi ivi previsti, a prescindere dal ricorrere delle condizioni di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, e senza la necessità di indicare, in sede di stipulazione del contratto, le ragioni obiettive che giustifichino l’apposizione del termine. La diversa interpretazione secondo cui, in sostanza, la norma in esame aggiungerebbe condizioni ulteriori rispetto a quelle già contenute nel D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, deve ritenersi contraria alla ratio legis – che è manifestamente quella di favorire una parziale liberalizzazione delle assunzioni a termine nel settore delle poste con riguardo alla possibilità di ricorrere nello specifico settore all’apposizione del termine, indipendentemente dalla puntuale indicazione delle ragioni giustificatrici di tale apposizione. l stato, anche, evidenziato come una tale ricostruzione abbia trovato autorevole conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, la quale, premesso che la disposizione in esame costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine, ha affermato che una siffatta valutazione, preventiva e astratta, non è manifestamente irragionevole, atteso che la garanzia alle imprese in questione, nei limiti percentuali previsti, di una sicura flessibilità dell’organico, è direttamente funzionale all’onere gravante sulle stesse di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonchè la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali costituiscono attività di preminente interesse generale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1 (Attuazione della direttiva 1997/67/CF. concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). Il giudice delle leggi ha escluso la sussistenza di un profilo di incostituzionalità del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, rispetto ai principi di cui all’art. 3 Cost., avendo ritenuto non manifestamente irragionevole che, ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto) a tempo determinato. E, ciò è tanto più valido in quanto il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nell’imporre alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzione a termine, prevede un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma. La piena legittimità della norma in esame è stata, poi, ritenuta anche con riferimento all’assenza di violazione dei principi di cui agli artt. 101, 102 e 104 Cost., essendo stato osservato che la norma censurata si limita a richiedere, per la stipula dei contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale (non già l’indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell’organico complessivo), per cui il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale. La disposizione in esame è stata considerata pienamente conforme all’ordinamento comunitario, posto che, come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza sopra citata, essa trova il proprio fondamento e la propria giustificazione nella direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio e tale impostazione ha trovato conferma anche nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, che, nell’ordinanza in data 11 novembre 2010, ha valorizzato, ai fini della propria statuizione, l’assunto che l’adozione dell’art. 2, comma 1 bis, era finalizzata a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità allo scopo di garantire l’attuazione della direttiva 1997/67/CE (in tema di sviluppo del mercato interno dei servizi postali), con particolare riferimento allo sviluppo del mercato interno dei servizi postali e il miglioramento della qualità del servizio, ossia ad uno scopo distinto da quello dell’attuazione dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 1999/70/CE, del Consiglio del 28 giugno 1999 prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001. Sulla base di tale rilievo, la Corte di giustizia ha affermato l’irrilevanza di ogni valutazione circa l’efficacia della tutela garantita dall’art. 2, comma 1 bis, rispetto a quella perseguita dall’accordo quadro con riferimento all’assunzione di lavoratori a tempo determinato, non potendo tale normativa nazionale essere considerata contraria alla clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (ai sensi della quale l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso) di cui alla Direttiva 1999/70/C1 del Consiglio del 28 giugno 1999, ove comporti una reformatio in peius che non sia in alcun modo collegata con l’applicazione dell’accordo quadro, ma sia giustificata dalla distinta necessità di promuovere un obiettivo sostanzialmente diverso. Con riferimento al profilo della sussistenza di una violazione dei principi della parità di trattamento e di non discriminazione, concernente i lavoratori a tempo determinato assunti da un’impresa postale con riferimento all’insussistenza dell’obbligo di indicare le ragioni oggettive del ricorso ad un primo o unico contratto a termine, la Corte di giustizia, richiamata la propria giurisprudenza secondo cui, nell’ambito dei contratti di lavoro a tempo determinato, il principio di non discriminazione è stato attuato dall’accordo quadro unicamente per quanto riguarda le disparità di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato (C- 307/05 13 settembre 2007 Del Cerro Alonso), ha precisato che le eventuali disparità di trattamento tra determinate categorie di lavoratori a tempo determinato non sono soggette al principio di non discriminazione sancito dall’Accordo Quadro (cfr. Cass. 11659/2012 e Cass. 13221/12 cit.). E’ stato, altresì, precisato che il suddetto D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 2, comma 1 bis, fa riferimento esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene l’assunzione – quelle concessionarie di servizi e settori delle poste – e non anche alle mansioni del lavoratore assunto, in coerenza con la ratio della disposizione, ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 214 del 2009, individuata nella possibilità di assicurare al meglio lo svolgimento del cd. servizio universale postale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, di attuazione della direttiva 1997/67/CE, mediante il riconoscimento di una certa flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato, pur sempre nel rispetto delle condizioni inderogabilmente fissate dal legislatore. Ne consegue che al fine di valutare la legittimità del termine apposto alla prestazione di lavoro, si deve tenere conto unicamente dei profili temporali, percentuali (sull’organico aziendale) e di comunicazione previsti dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, non operando l’onere di indicare sotto il profilo formale e di rispettare sul piano sostanziale la causale, oggettiva e di natura temporanea, giustificatrice dell’apposizione di un termine al rapporto (Cass. 26 luglio 2012, n. 13221; Cass. 2 luglio 2015, n. 13609; Cass. 5 febbraio 2016, n. 2324 nonchè la già citata Cass., Sez. un., 31 maggio 2016, n. 11374). Il solo fatto, dunque, di essere impresa concessionaria di servizi nei settori delle poste (D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis) consente a Poste Italiane S.p.A. di assumere a termine secondo le previsioni di cui a detto art. 2, sicchè non rileva accertare le mansioni concretamente svolte dal lavoratore e distinguere quelle attinenti strettamente al servizio postale dalle altre.

Tanto premesso, va prioritariamente esaminata la censura prospettata con riguardo alla dedotta violazione delle regole processuali e del principio di ripartizione dell’onere della prova.

La stessa deve essere disattesa, posto che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio in forza del quale la prova del rispetto) del limite della percentuale di contingentamento grava sulla società, tenuta all’osservanza della relativa clausola, ritenendo, tuttavia, che, nel caso concreto, a fronte della produzione di documentazione da parte della società oneratane, andasse fatta applicazione della regola processuale secondo la quale, nel processo civile (così come nel rito del lavoro) non occorre la prova dei fatti che, allegati da una parte, non siano stati espressamente contestati dalla controparte (Cass. 4 dicembre 2007, n. 25269), nella specie la contestazione è stata ritenuta genericamente effettuata, senza che validamente sia stato prospettato tempestivamente alcun rilievo relativo all’efficacia e validità probatoria del prospetto indicato ed allegato dalla società.

Peraltro, le censure formulate in appello con riguardo alla valutazione compiuta dal primo giudice sono riportate senza precisare il carattere di decisività delle circostanze dedotte e dei rilievi svolti in ordine alla rilevanza dei dati acquisiti agli atti di causa, ritenuti dal giudice del gravame inidonei a scalfire i dati probatori rilevanti evidenziati dal giudice di primo grado, in ragione della mancanza di ogni attinenza con le ragioni della decisione impugnata, che aveva invece ritenuto la genericità delle contestazioni.I rilievi si risolvono, allora, nella mera contrapposizione di una ricostruzione dei fatti e delle prove difforme rispetto a quella effettuata dal giudice del merito.

Tra l’altro, sia l’atto di gravame che i documenti di cui si denuncia l’irrilevanza probatoria sono riportati in ricorso con un sistema – la fotoriproduzione che neppure soddisfa il requisito dell’autosufficienza espresso nell’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4, e la cui osservanza è prescritta a pena di inammissibilità, restando affidata alla Corte di cassazione non solo la verifica della conformità a quelli facenti parte degli atti ma anche la selezione delle parti rilevanti nella prospettiva di chi ha proposto il ricorso, e così il compito di operare una individuazione e valutazione dei fatti, come se nel giudizio di legittimità fosse possibile la ripetizione del giudizio di fatto (in termini, Cass. 7 febbraio 2012, n. 1716; Cass. 24 luglio 2013, n. 18020).

Quanto al vizio motivazionale dedotto, lo stesso è inammissibile, in quanto suppone ancora esistente il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, trascurando la modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b) convertito in L. n. 134 del 2012, applicabile, in base al comma 3 della medesima norma, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione, e dunque dall’11/9/2012. A seguito di tale modifica è deducibile solo il vizio di omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti; il controllo della motivazione è, così, ora confinato sub specie nullitatis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di motivazione apparente, di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).

Nel caso in esame i fatti controversi da indagare (da non confondersi con la valutazione delle relative prove) sono stati manifestamente presi in esame dalla Corte territoriale e la pronunzia gravata non è sorretta da una motivazione meramente apparente, ma si fonda su una compiuta disamina di tutto il materiale probatorio acquisir() in corso di causa; sicchè neppure potrebbe trattarsi di omesso esame, ma di accoglimento di una tesi diversa da quella sostenuta dall’odierno ricorrente.

Con riguardo, poi, al rilievo riferito all’adozione di un parametro erroneo ai fini della valutazione del rispetto della percentuale del 15%), va evidenziato che nulla la norma dispone in relazione alla tipologia delle mansioni esercitate dai dipendenti ai fini della possibilità di assunzione a termine e che una tale limitazione è estranea anche alle motivazioni adottate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 214 del 2009. In tale pronuncia, premesso che la disposizione in esame costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine, il giudice delle leggi ha affermato che siffatta valutazione, preventiva e astratta, non è manifestamente irragionevole, atteso che la garanzia alle imprese in questione, nei limiti percentuali previsti, di una sicura flessibilità dell’organico, è direttamente funzionale all’onere gravante sulle imprese stesse di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonchè la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali costituiscono attività di preminente interesse generale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, (Attuazione della direttiva 1997/67/CI concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). Il giudice delle leggi ha escluso la sussistenza di un profilo di incostituzionalità del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, rispetto ai principi di cui all’art. 3 Cost., avendo ritenuto non manifestamente irragionevole che, ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato. E ciò è tanto più valido in quanto il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nell’imporre alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzione a termine, prevede un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma (si veda, in tale senso, Cass. 4 gennaio 2016, n. 3).

Per tutto quanto sopra considerato, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.

2 – Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c. con la quale il ricorrente ripropone sostanzialmente le argomentazioni già esposte nel ricorso, insistendo in particolare nel sostenere la inidoneità probatoria di una documentazione proveniente dalla stessa parte e la conseguente mancanza di un onere di contestazione specifica, rilievi cui nella relazione è stata data adeguata risposta.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 – Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo.

6 – Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta e tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

La suddetta condizione sussiste nella fattispecie in esame.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della società controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso spese forfetario nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2016

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