Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26659 del 28/11/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 26659 Anno 2013
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 20379-2008 proposto da:
GIOVANNELLI NADIA C.F. GVNNDA61C42E43W, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo
studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI
CLAUDIO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013
2919

contro

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio

Data pubblicazione: 28/11/2013

dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– controricorrente –

e sul ricorso 20656-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona

domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente contro

GIOVANNELLI NADIA C.F. GVNNDA61C42E43W, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo
studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI
CLAUDIO, giusta delega in atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 991/2007 della CORTE D’APPELLO
di L’AQUILA, depositata il 22/08/2007 R.G.N.
1612/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 17/10/2013 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;
udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega PESSI
ROBERTO;

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso principale, rigetto

dell’incidentale.

R.G. 20379+20656/2008
FATTO E DIRITTO
Con sentenza n. 630/2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Chieti, in
accoglimento della domanda proposta da Nadia Giovannelli nei confronti della

lavoro concluso tra le parti per “esigenze eccezionali” ex art. 8 ceni 1994 come
integrato dall’acc. 25-9-1997 e succ., per il periodo 14-12-1999/29-2-2000, con
la conseguente sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato dal 14-121999, e condannava la società alla riammissione in servizio della lavoratrice e
al pagamento in suo favore delle retribuzioni maturate dalla data della formale
messa in mora fino all’effettivo ripristino del rapporto, oltre accessori.
Sull’appello della società, resistendo la lavoratrice appellata, la Corte
d’Appello degli Abruzzi — L’Aquila — in parziale accoglimento dell’appello ed
in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermata nel resto,
condannava la società alla sola riammissione in servizio della lavoratrice.
Per la cassazione di tale sentenza la Giovannelli ha proposto ricorso con
tre motivi. La società ha, poi, proposto ricorso con due motivi. Ciascuna parte
ha poi resistito con controricorso al ricorso di controparte e la società, da
ultimo, ha anche depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.
Ciò posto, riuniti preliminarmente i ricorsi avverso la stessa sentenza ex
art. 335 c.p.c., va dapprima esaminato il ricorso incidentale della società.
Con il primo motivo quest’ultima censura l’impugnata sentenza nella parte
in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso
tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione di interesse alla
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s.p.a. Poste Italiane dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di

funzionalità di fatto del rapporto, per un apprezzabile lasso di tempo anteriore
alla proposizione della domanda e la conseguente presunzione di estinzione del
rapporto stesso.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini

indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
ultimo Cass. 18-11-2010n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,
Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca
tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la
volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni
rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass.
1-2-2010 n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente
ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei
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del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo

comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara
manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del
rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e
neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.

effetti ha eccepito soltanto l’elemento temporale, senza allegare alcuna altra
circostanza significativa, laddove, peraltro, le scelte della lavoratrice, anche
alla luce di una circolare della società indirizzata a tutti i direttori di filiale,
sono state dettate “da una cauta condotta tesa a non pregiudicare
irrimediabilmente una sua futura riassunzione (anche con contratto a termine).”
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta
altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.
Con il secondo motivo la società censura la sentenza impugnata nella parte
in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al contratto de quo non essendo
stato provato il rispetto dei limiti percentuali (c.d. clausola di
contingentamento) previsti dalla contrattazione collettiva. In particolare la
società sostiene che al riguardo l’onere della prova, circa il mancato rispetto
dei detti limiti, incombeva sulla lavoratrice e rileva che, in ogni caso, dai
prospetti allegati alla memoria di primo grado emergeva che le assunzioni a
termine erano state effettuate nel pieno rispetto dei limiti stessi.
Anche tale motivo non merita accoglimento.
Sul primo profilo, come è stato affermato da questa Corte (v. Cass. 19-12010 n. 839 e successive) e va qui ribadito, “nel regime di cui alla legge 28
febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare
ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro è
3

Orbene nella fattispecie la Corte di merito ha rilevato che la società in

subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che
possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti;
pertanto, non è sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a
termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità

ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo
indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori
stabili e a termine. L’onere della prova dell’osservanza di detto rapporto è a
carico del datore di lavoro, in base alle regole di cui all’art. 3 della legge 18
aprile 1962, n. 230, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare
l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un
termine al contratto di lavoro.”
Sul secondo profilo la censura risulta poi comunque generica e priva di
autosufficienza, limitandosi la società a ribadire la propria diversa lettura delle
risultanze processuali, senza neppure riportare il contenuto dei prospetti che a
suo dire sarebbero stati sufficienti ad integrare la prova al riguardo.
D’altra parte la sentenza impugnata sul punto ha fornito una adeguata
motivazione in ordine alla irrilevanza sia della prova orale richiesta sia del
prospetto riepilogativo prodotto, inidoneo a consentire la “verifica, con la
dovuta precisione, del rispetto del tetto in questione, riguardo al riferimento
temporale di cui sopra ed alla sfera territoriale contemplata”, di guisa che tale
motivazione resiste alla generica censura della società.
Così respinto il ricorso incidentale della società, va invece accolto il
ricorso principale con il quale la Giovannelli, con quattro motivi, corredati da
idonei quesiti ex art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis, censura
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dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi individuata

l’impugnata sentenza nella parte in cui ha rigettato la domanda risarcitoria (al
riguardo v. fra le altre Cass. 7-5-2013 n. 10563, Cass. 17-7-2013 n. 17483,
Cass. 17-7-2013 n. 17493).
In particolare, con il primo motivo, denunciandosi nullità della sentenza e

inottemperanza all’ordine di esibizione la Corte di merito ha tratto, ex art. 116
c.p.c., argomenti di prova sfavorevoli nei confronti del lavoratore, non
considerando che l’ordine di esibizione non poteva essere disposto d’ufficio,
bensì solo su istanza di parte ai sensi dell’art. 210, comma 1, c.p.c.
Con il secondo motivo si osserva altresì che dalla mancata ottemperanza
all’ordine di esibizione non derivano automaticamente le conseguenze tratte
dalla sentenza impugnata, tanto più che la esibizione non era fondata su
elementi concreti ma era stata disposta a fini meramente esplorativi.
Con il terzo motivo si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la sentenza
impugnata accertato “la esistenza in concreto di un aliunde perceptum per tutto
il periodo decorrente dalla data di messa in mora alla riammissione in servizio
sul solo presupposto della mancata esibizione in giudizio di documentazione
che comprovi la percezione e l’ammontare di redditi”.
Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 2697, comma 2, c.c.,
per avere la Corte territoriale, in sostanza – facendo carico al lavoratore di
esibire la documentazione anzidetta – ritenuto che l’onere della prova
incombesse sul lavoratore, laddove, viceversa, era a carico del datore di lavoro,
il quale aveva proposto l’eccezione di aliunde perceptum.

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del procedimento per violazione dell’art. 210 c.p.c , si deduce che dalla

Tali motivi che, in ragione della loro connessione, vanno trattati
congiuntamente, attengono alle conseguenze economiche derivanti dalla
ritenuta illegittimità del termine apposto al contratto e dalla conseguente
conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato.

all’eccezione relativa all’aliunde perceptum proposta dalla società, il diritto alle
retribuzioni maturate successivamente alla cessazione del rapporto, non avendo
il lavoratore ottemperato all’ordinanza della Corte di merito con la quale è stata
disposta la esibizione della documentazione comprovante la percezione e
l’ammontare dei redditi.
Orbene osserva il Collegio che nei casi di conversione del contratto a
tempo determinato, il diritto al risarcimento del danno trova ora fondamento
nella previsione della legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7,
sopravvenuta nelle more del presente giudizio.
Al riguardo questa Corte ha affermato che in tema di risarcimento del
danno per i casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, lo

ius superveniens costituito dalle disposizioni anzidette, applicabile anche nel
giudizio pendente in grado di legittimità qualora pertinente alle questioni
dedotte nel ricorso per cassazione, configura, alla luce dell’interpretazione
adeguatrice offerta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 303 del 2011,
una sorta di penale ex lege a carico del datore di lavoro che ha apposto il
termine nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è liquidato dal giudice nei
limiti e con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dall’intervenuta
costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno
effettivamente subito dal lavoratore — senza riguardo, quindi, per l’eventuale
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Essi censurano la sentenza impugnata per avere escluso, in relazione

aliunde perceptum —, trattandosi di indennità forfetizzata e onnicomprensiva
per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto “intermedio”
(dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione) (cfr. fra le altre Cass.
3056/12; Cass. 9023/12).

idoneo e pertinente ricorso in ordine alle conseguenze economiche derivanti
dalla conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato (v.,
sul punto, Cass. 10547/06; Cass. 80/11; Cass. 9583/2011; Cass. 3056/12),
viene meno qualsiasi indagine sul risarcimento del danno e sull’aliunde

perceptum e va applicata la normativa sopravvenuta.
Conseguentemente il ricorso principale va accolto nei sensi e nei limiti
dello ius superveniens e la sentenza va cassata, con rinvio al giudice indicato in
dispositivo, il quale provvederà anche ai sensi di quanto disposto in rito dal
comma 7 del citato art. 32 della I. n. 183/2010, statuendo altresì sulle spese di
legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso
incidentale, cassa l’impugnata sentenza in relazione al ricorso accolto e rinvia,
anche per le spese, alla Corte di Appello di Perugia.
Roma 17 ottobre 2013

In applicazione di tale principio, essendo questa Corte investita da un

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