Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26650 del 24/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 24/11/2020, (ud. 10/09/2020, dep. 24/11/2020), n.26650

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23193/2012 R.G. proposto da:

A.V. Strutture s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, giusta

procura a margine del ricorso, dall’Avv. Marco Zambelli e dall’Avv.

Giorgio Luceri, elettivamente domiciliato presso quest’ultimo, in

Roma, Via Udine, n. 6;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12;

– ricorrente incidentale – controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione distaccata di Brescia, n. 26/68/2012, depositata

il 2 marzo 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 settembre

2020 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.L’Agenzia delle entrate, dopo un accesso e la notificazione del processo verbale di constatazione in data 10-6-2009 emetteva (“confezionava”) avviso di accertamento in data 7-8-2009 nei confronti della A.V. Strutture s.p.a., per l’anno 2005, ai fini Ires, Irap ed Iva, con successiva notificazione dello stesso l’11-8-2009. In particolare, venivano effettuati cinque rilievi: a) la stipulazione della transazione nel 2004 imponeva di indicare i relativi ricavi, pari ad Euro 30.275,55, in tale anno e non nel 2005, mentre la contribuente aveva emesso tre note di credito (per vizi e difetti dei clienti) il 30-12-2005, in diminuzione dei ricavi di competenza del 2005; b) erronea qualificazione della variazione delle rimanenze di opere in corso ultrannuali per Euro 42.455,00; c) indebita deduzione di oneri non di competenza del 2005, ma del 2004, in quanto, in un caso (Euro 29.083,00) le opere erano già state completate entro il 31-12-2004, e nell’altro, le sopravvenienze passive (Euro 66.486,10) si erano manifestate già nel 2004, data di espletamento della prestazione di servizi; d) utilizzo di fatture per operazioni inesistenti per Euro 211.966,00 emesse da un consorzio di trasportatori; e) indebita deduzione di provvigioni per Euro 49.906,05 correlate ad affari conclusi in esercizi precedenti al 2005, pure se la transazione era del 2005.

2.La Commissione tributaria provinciale di Bergamo, dopo aver ritenuto che la violazione del termine di sessanta giorni per la presentazione di osservazioni da parte del contribuente ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, non dava luogo a nullità, accoglieva solo il motivo di ricorso relativo al rilievo sub b) in quanto l’intervenuto fallimento della (OMISSIS) s.r.l. aveva comportato la “revoca” ex art. 81 L. Fall. del contratto di appalto con la contribuente.

3.Veniva proposto appello sia dalla contribuente che dalla Agenzia delle entrate.

4.La Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, accoglieva solo parzialmente l’appello della società, annullando l’originario avviso di accertamento anche in relazione alla accertata indebita deduzione di costi per Euro 49.906,05, di cui al rilievo e) dell’avviso. Il costo relativo alle provvigioni era divenuto certo solo a seguito della transazione del 2005 (6-6-2005) a seguito di apposita comparizione dinanzi alla Commissione provinciale di conciliazione.

5.Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione la società contribuente e l’Agenzia delle entrate.

6.L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.Anzitutto, si rileva che il ricorso per cassazione proposto dalla società, in quanto notificato per primo (spedito per la notifica in data 12-10-2012 e notificato in data 18-10-2012) deve essere considerato come ricorso principale, mentre il ricorso della Agenzia delle entrate, spedito per la notifica il 15-102012 e notificato in data successiva a quello della contribuente, va qualificato come ricorso incidentale.

Invero, per questa Corte il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorchè proposto con atto a sè stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’annuale) di impugnazione in astratto operativi (Cass., sez. 6-5, 19 dicembre 2019, n. 33809; Cass., sez. un., 20 marzo 2017, n. 7074; Cass., sez. L, 20 marzo 2015, n. 5695; Cass., sez. 1, 4 dicembre 2014, n. 25662).

1.1.Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “violazione e falsa applicazione della norma di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7 (statuto del contribuente);insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: nella parte in cui la commissione tributaria regionale ritenne valido l’avviso di accertamento ancorchè esso fosse stato notificato senza l’osservanza del termine a difesa di 60 giorni previsto dalla legge, decorrente dalla notifica del processo verbale di constatazione; nè la menzione, nella motivazione dell’avviso, di ragioni d’urgenza giustificandosi l’inosservanza (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5)”.

1.2.Tale motivo è infondato

Invero, è pacifico che il processo verbale di constatazione è stato rilasciato il 10-6-2009, sicchè il termine di sessanta giorni di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, scadeva il 9 agosto 2009. L’avviso di accertamento è stato, invece, confezionato il 7 agosto 2009, quando il termine dilatorio di sessanta giorni non era decorso, ma tale avviso era stato spedito l’11 agosto 2009, quando cioè il termine era decorso, pur non avendo la contribuente depositato osservazioni tra le due date, quella di “confezionamento” dell’avviso e quella della sua spedizione.

La L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, dispone, sul punto, che “nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro 60 giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.

La Commissione tributaria regionale ha correttamente rigettato l’impugnazione presentata dalla contribuente in ordine al mancato rispetto del termine per l’emanazione dell’avviso, ma la motivazione del rigetto deve essere corretta.

Invero, per la Commissione regionale “è infatti certo che l’eventuale violazione della norma appena citata non possa dar luogo ad alcuna nullità dell’atto impositivo emesso dall’Ufficio finanziario”.

1.3.Tuttavia, per giurisprudenza di legittimità consolidata, confortata anche da una decisione delle sezioni unite, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, poichè detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza deve essere provata dall’ufficio (Cass. Civ., Sez. Un., 29 luglio 2013, n. 18184).

Nè la sanzione della illegittimità dell’avviso per il mancato rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni può essere irrogata solo qualora il contribuente dimostri che il minor termine gli ha precluso di predisporre una adeguata e specifica linea difensiva. Tale termine deve essere, infatti, rispettato a prescindere dalla allegazione da parte del contribuente di avere subito uno specifico nocumento alla propria difesa, non avendo potuto produrre nel ristretto lasso temporale concesso, osservazioni, memorie e documenti. Il termine è infatti stabilito a presidio del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, espressione dei principi di collaborazione e di buona fede. Non vi è spazio, dunque, per la “prova di resistenza” (Cass., sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27623; Cass., sez. 5, 25 gennaio 2017, n. 1969). In tali fattispecie, questa Corte ha ritenuto l’avviso di accertamento illegittimo, in quanto non solo l’avviso risultava “predisposto” prima della scadenza del termine di sessanta giorni dal rilascio del processo verbale di constatazione, ma anche la notificazione dell’avviso ea stata effettuata prima del termine di sessanta giorni. Ai fini della declaratoria di illegittimità dell’avviso non è, quindi, necessario che il contribuente dimostri che tale minore termine gli abbia impedito una adeguata difesa.

Allo stesso modo, in caso di violazione del termine, l’invalidità non è esclusa neppure se il contribuente abbia già presentato osservazioni, poichè ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, solo lo spirare del termine ivi previsto consuma la facoltà di esporre osservazioni e richieste all’Ufficio impositore (Cass., sez. 5, 5 ottobre 2012, n. 16999).

1.4.Tuttavia, la questione in ordine alla legittimità dell’avviso di accertamento “confezionato” prima della scadenza del termine di sessanta giorni, con notificazione dello stesso dopo la maturazione del detto termine, è superata qualora sussistano i motivi d’urgenza per la deroga al rispetto dello spatium deliberandi dei sessanta giorni.

1.5.Al riguardo, va precisato che, in tema di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, tra le ragioni di urgenza che giustificano l’emissione dell’avviso di accertamento prima dello spirare del termine dilatorio di sessanta giorni previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, può rientrare la commissione, da parte del contribuente, di reiterate violazioni delle leggi tributarie aventi rilevanza penale ovvero la partecipazione dello stesso ad una frode fiscale (Cass., 2 luglio 2018, n. 17211).

Nella specie, dagli atti emerge che le condotte dell’amministratore della società hanno dato luogo anche ad indagini penali, che sono state poi riversate nel processo tributario. La stessa società ricorrente, fra i motivi di impugnazione, ha inserito anche quello relativo alla mancata autorizzazione del Pubblico Ministero per la trasmigrazione degli atti penali nel processo tributario.

Pertanto, sussistono le ragioni di urgenza che, come noto, non devono essere indicate nell’avviso di accertamento, ma è sufficiente che sussistano in concreto nella fattispecie oggetto di esame.

2.Con il secondo motivo di impugnazione (in relazione al rilievo sub a dell’avviso di accertamento) la ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione della norma di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109; insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: nella parte in cui la commissione tributaria regionale ritenne indeducibile nell’anno 2005 il costo di una transazione conclusa nel 2004, ancorchè l’ammontare di esso divenisse determinabile e fosse pagato soltanto nel successivo esercizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5)”. La Commissione regionale, infatti, in ordine al secondo motivo di appello della contribuente, in relazione al rilievo sub a) dell’avviso di accertamento, ha affermato che vi è stata effettivamente una indebita riduzione di ricavi per Euro 30.275,55 nel 2005, in quanto la transazione con le società nei confronti delle quali erano state emesse note di credito “con tale motivazione” era intervenuta “prima della chiusura dell’anno di esercizio 2004 e dunque nell’anno precedente a quello in cui fu poi effettuato lo storno dei ricavi”. Le note di credito hanno fatto riferimento alla “transazione legale del 28.10.2004”. In realtà, però, per la ricorrente, proprio la differenza degli importi li faceva ritenere non determinabili nel 2004.

2.1.Tale motivo è infondato.

Invero, è pacifico che la contribuente ha stipulato una transazione il 28-10-2004, con la quale era risultata creditrice della somma di Euro 28.000,00.

Successivamente, nell’anno 2005 la contribuente ha emesso tre note di credito in data 30-12-2005, tutte con riferimento alla transazione del 28-10-2004, annotando contabilmente in diminuzione i ricavi di competenza del 2005 per la somma di Euro 30.275,55. Vi è, quindi, una differenza di importi tra quanto previsto nella transazione del 2004 e quanto indicato nelle note di credito del 2005.

La Commissione regionale, sul punto, ha ritenuto che la somma di Euro 30.275,55 non poteva essere ridotta nel 2005, a seguito delle tre note di credito, in quanto tale somma doveva essere collegata alla transazione stipulata nel 2004, sia pure per la minore somma di Euro 28.000″00. La circostanza che la somma indicata nelle note di credito del 2005 fosse superiore a quella pattuita nella transazione “a titolo onnicomprensivo” per il 2004, non recide il nesso tra la somma e la transazione del 2004, anche perchè nelle note di credito si faceva riferimento alla “transazione legale del 28-10-2004”.

2.2.Non v’è stata, allora, alcuna violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 in ordine al principio di competenza.

Tale disposizione prevede che “i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”.

Con la menzione dei requisiti della “certezza” e della “determinabilità” il legislatore ha voluto escludere dalla formazione del reddito i componenti solo “stimati”, mentre deve tenersi conto solo degli elementi reddituali caratterizzati da un sufficiente grado di attendibilità. La certezza va intesa non in senso materiale, ma giuridico, con esclusione di componenti di redditi meramente presunti. Deve esistere un vincolo giuridico avente origine in un contratto, in un fatto illecito o in un provvedimento della pubblica amministrazione. La determinabilità attiene, invece, al quantum del componente di reddito, desumibile da elementi oggettivi, quindi con esclusione di quello basato su mere congetture soggettive o fondato su calcoli probabilistici.

Pertanto, inizialmente deve individuarsi l’esercizio di competenza civilistica, in base al principio di derivazione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83. Successivamente, si assiste ad un allontanamento dai principi civilistici, in quanto occorre verificare i requisiti di esistenza degli elementi reddituali e della loro oggettiva determinabilità, sicchè il legislatore fiscale ha inserito criteri più rigidi ed obiettivi di quelli civilistici per determinare l’imputazione temporale.

Per la Suprema Corte, in tema di transazione, è necessario che il giudice di merito valuti in concreto gli elementi dai quali desumere l’esistenza o la determinabilità in modo obiettivo degli elementi positivi o negativi del reddito, non potendo le parti decidere discrezionalmente l’esercizio di competenza in cui indicare tali elementi.

Le regole sulla imputazione temporale delle componenti di reddito sono inderogabili, sia per i contribuenti, ai quali è precluso ogni spostamento dei ricavi e delle spese da un periodo all’altro, sia per l’amministrazione finanziaria (Cass., 11 ottobre 2010, n. 25218; Cass., 18 giugno 2019, n. 12265). Tale inderogabilità non risponde ad una logica sanzionatoria, ma origina dalla circostanza che l’eventuale rilevazione in un periodo successivo del componente sarebbe priva di giustificazione in senso economico, in quanto l’evento di gestione si è già completamente esaurito in precedenza.

Si è, dunque, affermato che, in tema di imposte sui redditi d’impresa, dalla complessiva prescrizione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75 (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109), si desume che anche per le spese e gli altri componenti negativi, dei quali “non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare”, il legislatore considera come “esercizio di competenza” – l’individuazione del quale in concreto involge accertamenti di fatto di competenza esclusiva del giudice di merito, il cui apprezzamento può essere censurato in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio motivazionale – quello nel quale nasce e si forma il titolo giuridico che costituisce la fonte di ciascuna di tali voci, limitandosi soltanto a prevedere una deroga al principio della competenza, col consentire deducibilità di dette particolari spese e componenti nel diverso esercizio nel quale si raggiunge la certezza della loro esistenza ovvero la determinabilità, in modo obiettivo, del relativo ammontare. L’obbiettiva determinabilità sancita dalla legge non è collegata o collegabile alla manifestazione della volontà delle parti sul costo, essendo, altrimenti, ad esse demandata la scelta di stabilire a quale esercizio di competenza imputare la relativa componente del reddito d’impresa, sicchè il mancato accordo delle parti non significa necessariamente che il costo non sia, prima dell’accordo stesso, obbiettivamente determinabile (Cass., sez. 6-5, 24 ottobre 2012, n. 18237).

Questa Corte (Cass., sez. 5, 25 marzo 2015, n. 5976) ha, poi, distinto la nozione di costo inteso come “debito”, che presuppone i requisiti di “certezza e determinabilità” ex ante (come nel caso di assunzione di una obbligazione pecuniaria da eseguire in una certa data), che deve essere dedotto quale costo nell’anno di insorgenza della obbligazione per il principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 1, (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 1), dal costo inteso come “passività”, priva dei requisiti di certezza e determinabilità. In questa seconda accezione rientrano tre categorie di passività: quelle in cui l’obbligazione è certa nell’an ma è ex ante indeterminabile nel quantum; quelle in cui la stessa insorgenza della obbligazione appare incerta (in caso di contestazione giudiziale della esistenza o della validità del titolo); quelle in cui l’obbligazione assunta è subordinata, quanto all’efficacia, ad un evento futuro ed incerto non rimesso alla mera volontà del debitore (condizione sospensiva). Nelle ultime due ipotesi, qualificate “passività potenziali”, tra le quali deve collocarsi anche la fattispecie del credito/debito litigioso, non può trovare applicazione il principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 e la passività, ove anche suscettibile di stima previsionale, non deve nè può essere dedotta dal reddito per il solo fatto dell’inizio della lite. Pertanto, in caso di lite giudiziaria deve farsi riferimento all’anno di intervenuta transazione (in quel caso del 1999) e non ad anni precedenti, essendo la lite iniziata nel 1993.

In presenza di accordo transattivo, dunque, gli importi derivanti dallo stesso devono essere imputati al periodo di sottoscrizione dello stesso, non assumendo rilevanza i relativi flussi finanziari (Cass., sez. 5, 28 aprile 2014, n. 9317). Infatti, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 impone che gli elementi reddituali positivi e negativi siano imputati al periodo di imposta in cui si verificano le vicende gestionali dalle quali scaturiscono, anche se non si sono ancora verificati i conseguenti movimenti finanziari attivi e passivi.

Inoltre, si è precisato che l’onere di provare il requisito della certezza e determinabilità dei componenti positivi del reddito, in un determinato esercizio sociale, incombe sull’amministrazione finanziaria, mentre per quelli negativi l’onere grava sul contribuente (Cass., sez. 5, 22 settembre 2006, n. 20521). Più recentemente si è affermato che incombe sull’amministrazione finanziaria, che assume erroneamente imputato un costo, dimostrare la determinatezza o determinabilità del medesimo; sul contribuente, invece, grava la prova che solo in un diverso anno i medesimi costi sono diventati certi e determinabili nell’ammontare (Cass., sez. 5, 12 dicembre 2018, n. 32102).

Nella fattispecie in esame, dunque, la transazione è intervenuta nel 2004, tanto che le note di credito del 2005 fanno riferimento proprio alla transazione del 28.10.2004, sicchè l’Ufficio ha fornito la prova su di esso incombente (costi sostenuti nel 2004 in virtù della transazione stipulata in tale anno), mentre la contribuente non ha dato la prova della imputabilità dei costi nel 2005.

La Commissione regionale ha dato conto di tutte le circostanze di fatto, evidenziando anche la differenza di importo tra quanto stabilito nella transazione (Euro 28.000,00) e la somma oggetto delle tre note di credito del 3112-2005, oltre al riferimento nelle note di credito alla “transazione legale del 28-10-2004”.

Sotto tale profilo non sussiste, dunque, neppure il vizio di insufficiente motivazione lamentato dalla ricorrente.

3.Con il terzo motivo di impugnazione (con riferimento ai rilievi sub c e d dell’avviso di accertamento) la società deduce la “violazione e falsa applicazione della norma di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, lett. b; violazione e falsa applicazione della norma di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6; insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: nella parte in cui la commissione tributaria regionale ritenne indeducibile nell’anno 2005 il costo di prestazioni di servizi con conferma d’ordine alla data del 31 dicembre 2004, e perciò presuntivamente compiute nell’esercizio successivo; e nella parte in cui la commissione tributaria regionale ritenne indeducibile nell’esercizio 2005 il costo di una prestazione di servizi, ancorchè essa dovesse presumersi eseguita ed ultimata alla data del suo pagamento, avvenuto in tale esercizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5)”.

3.1.Tale motivo è infondato.

3.2.Con riferimento al rilievo sub c) dell’avviso di accertamento, per indebita deduzione di oneri, risulta dalla sentenza della Commissione regionale che le prestazioni sono state eseguite dalla Aurora piccola società cooperativa a r.l., per la somma di Euro 29.083,00, oltre Iva, nell’anno 2004, anche tenendo conto dell’errore materiale contenuto nella “conferma d’ordine” del 21-12-2005, che in realtà sarebbe stata emessa il 31-12-2004, come sostenuto dalla contribuente.

Infatti, come si legge nella motivazione della Commissione regionale, nelle fatture emesse dalla società Aurora si fa espresso riferimento a “lavori eseguiti” e non “da eseguire” nel dicembre 2004, sicchè tale valutazione di merito non è stata adeguatamente censurata dalla ricorrente, che si è limitata ad evidenziare quello che sarebbe stato un mero errore materiale rinvenuto nella “conferma d’ordine”.

3.3.Con riferimento al rilievo sub d dell’avviso di accertamento i fatti sono pacifici per come riportati dalla stessa ricorrente nell’atto di appello, che risulta trascritto sul punto. Era sorta controversia, infatti, tra la committente impresa C. e la contribuente (appaltatrice), tanto che la prima aveva sospeso i pagamenti alla seconda per la cattiva esecuzione di opere, il cui ripristino avrebbe comportato la spese di Euro 66.486,10, oltre Iva. Tale somma era stata richiesta dal terzo D.P., incaricato direttamente dalla committente di effettuare tali lavori di ripristino. I lavori vennero, dunque, svolti dal D. nel 2004 e la committente, dopo aver pagato il D., emise fattura nei confronti della contribuente, appaltatrice, in modo che su quest’ultima gravasse l’onere economico dei lavori per l’eliminazione dei vizi. Pertanto, secondo la ricorrente, solo con l’effettivo pagamento compiuto dal committente al D. si era determinata la sopravvenienza passiva connessa al necessario adempimento della garanzia per i vizi. Di tale pagamento la contribuente aveva avuto contezza solo con l’emissione della fattura emessa dalla C. nell’anno 2005, con conseguente imputazione in tale anno della spesa.

La Commissione regionale ha chiarito che i lavori sono stati espletati dal terzo D. nel 2004, tanto che lo stesso aveva comunicato un consuntivo approvato dalla contribuente tramite il suo agente F.G. e da questi comunicato con fax del 23-9-2004. Pertanto, questa era la data in cui doveva reputarsi certo il costo per la contribuente, a prescindere dalla data di emissione della fattura di riaddebito della società C..

Secondo la ricorrente sarebbe incorsa in errore la Commissione regionale per avere considerato che i costi erano relativi al 2004, solo sulla base di una comunicazione di un consuntivo inerente la prestazione del servizio reso, in tal modo violando il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6 il quale pone una presunzione iuris et de iure di corrispondenza tra la data del pagamento del corrispettivo e la data di compimento della prestazione di servizi.

3.4.Sul punto deve evidenziarsi che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6 prevede che “le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo”.

3.5.Tuttavia, tale disposizione è stata interpretata da questa Corte, a sezioni unite (Cass., sez. un., 21 aprile 2016, n. 8059, che ha superato le precedenti decisioni di cui a Cass., sez. 1, 26 ottobre 1995, n. 11150; Cass., sez. 5, 19 febbraio 2009, n. 3976; peraltro vedi ancora la recente Cass., sez. 5, 7 settembre 2018, n. 21870 non collimante con le sezioni unite), in modo diverso da quello prospettato dalla contribuente.

E’ stata sconfessata, infatti, la tesi per cui vi sarebbe stata, per le prestazioni di servizi, una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della percezione del corrispettivo e quella di esecuzione della prestazione di servizi. Per la contribuente, infatti, il verificarsi del presupposto oggettivo dell’imposizione Iva coincide di regola, non con il momento della relativa materiale esecuzione, ma con quello del pagamento totale o parziale del corrispettivo. Tale lettura del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, però, secondo questa Corte confligge con la disciplina comunitaria dell’Iva. Infatti, sia la sesta direttiva Iva 77/388/CEE (art. 10, commi 1 e 2), sia l’attuale direttiva Iva 2006/112/CE (artt. 62, 63 e 66) chiariscono che il fatto generatore dell’imposta si identifica con l’effettuazione della cessione dei beni ovvero con quella della prestazione dei servizi, il cui verificarsi determina anche l’esigibilità dell’imposta. Deve farsi, allora, riferimento al dato del materiale espletamento dell’operazione, e non a quello del pagamento del corrispettivo (Corte UE, 19 dicembre 2012, in causa c-549/11, proprio in relazione alla prestazione di servizi). Pertanto, tale disciplina unionale osta a che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6 sia letto nel senso che, per le prestazioni di servizi, il presupposto impositivo e, con esso, l’insorgenza dell’imponibilità a fini Iva, si verificano, non con l’esecuzione della prestazione, bensì, successivamente, con il pagamento del corrispettivo correlativamente pattuito. Anche con riferimento alla dedotta insufficiente motivazione, la Commissione regionale ha reso una adeguata motivazione in quanto ha chiarito che i lavori (la prestazione di servizi) erano stati espletati dal terzo D. nel 2004, come emergeva dal consuntivo approvato dall’agente della contribuente, F.G..

4.Con il quarto motivo di impugnazione la contribuente lamenta la “violazione e falsa applicazione delle norme di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2; di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1 e ss.; di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52 ed al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33; insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: per avere la commissione tributaria regionale ritenuto valido e non nullo l’avviso di accertamento impugnato, nonostante esso fosse motivato per relationem con un atto non allegato, nè riprodotto nel suo contenuto integrale, utilizzato senza l’autorizzazione della competente autorità giudiziaria penale; nonostante esso fosse fondato sulla scorta di indizi in suscettibili di essere ritenuti gravi, precisi e concordanti perchè contraddetti da altri elementi di prova; nonostante, a fronte di contrarie allegazioni e produzioni rinvenienti dal contribuente, l’Ufficio dapprima e, quindi, il giudice tributario omettessero di dare corso agli accertamenti consentiti dall’esercizio dei poteri inquisitori attribuiti dalla legge, così da stabilire la verità dei fatti”.

4.1.Tale motivo è infondato.

4.2.Con riferimento al rilievo di cui al punto d) dell’avviso di accertamento, si rileva che per la Commissione regionale era indebita la deduzione dell’importo di Euro 211.966,00 di cui alle fatture emesse dal Consorzio Trasporti Lario San Fedelino, trattandosi di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti. Infatti, il giudice di appello ha valorizzato per giungere a tale conclusione non solo la forma delle stesse, che non corrispondeva a quelle in genere emesse dal Consorzio, ma anche la circostanza che il pagamento era avvenuto con bonifici confluiti su conti personali dello stesso legale responsabile P.F.. Pertanto, non poteva condividersi la tesi della contribuente della buona fede della società, in quanto il Consorzio emetteva le fatture “in violazione di accordi interni, simulando scritturazioni apparentemente riferibili al(lo stesso) consorzio e tuttavia non ad esso suscettibili di essere effettivamente ricondotte”.

4.3. Inoltre, per questa Corte, in caso di “ripresa” per operazioni oggettivamente inesistenti, quali quelli in contestazione nel caso in esame, ove la fattura costituisce in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, l’amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva (Cass., sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27554; cass., sez. 5, 5 luglio 2018, n. 17619; Cass. nn. 21953/2007; n. 9363/2015; Corte UE, 6 luglio 2006, C439/2004; 31 novembre 2013, C-642/11), del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata, e poi spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (Cass., sez. 5, 19 ottobre 2018, n. 26453). Tale prova, tuttavia, non può consistere nell’esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poichè questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale operazione fittizia (Cass. nn. 28683/2015; Cass., n. 5406/2016). Inoltre, una volta accertata l’assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo corrispettivo (Cass., 14 settembre 2016, n. 18118).

La Commissione regionale, dunque, ha ritenuto sussistere elementi idonei a dimostrare l’insussistenza delle operazioni sottese alle fatture (forma delle stesse, pagamenti confluiti sui conti correnti del legale rappresentante del Consorzio, stampati diversi, numeri già assegnati ad altre fatture), mentre la contribuente non ha offerto alcuna prova contraria sul punto.

La menzione di due casi in cui il pagamento sarebbe confluito sui conti del Consorzio Lario San Fedelino (in data 15-2-2006 ed in data 23-12-2005), a prescindere dalla considerazione che l’anno in contestazione è il 2005, sicchè il versamento del 15-2-2006 non rileva, non può mutare il quadro indiziario che depone univocamente per la natura fittizia delle operazioni, anche perchè dall’avviso di accertamento emerge che tra la contribuente ed il Consorzio non vi erano rapporti commerciali (“le fatture sono relative a viaggi mai effettuati dal consorzio per conto della società verificata – da controlli effettuati presso quest’ultimo è emerso che non vi sono stati rapporti tra il consorzio e la verificata e che le fatture annotate in contabilità del consorzio, aventi lo stesso progressivo di emissione di quelle registrate dalla verificata, risultano emesse nei confronti di soggetti diversi dalla verificata”). Lo stesso P., legale rappresentante del Consorzio, ha riferito che il denaro ricevuto con i bonifici dalla A. V. Strutture s.p.a. veniva poi da lui prelevato e restituito ad altri soggetti.

La ricorrente richiede alla Corte una nuova valutazione degli elementi di fatto che, però, pur nella vigenza dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, prima delle modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012, applicabile alla sentenze depositate a decorrere dall’11 settembre 2012, non è consentito in questa sede.

4.4.Inoltre, per questa Corte, nel regime introdotto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il “contenuto essenziale”, anche con la menzione di “stralci” significativi, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento (Cass., sez. 5, 25 marzo 2011, n. 6914; Cass., sez. 5, 25 luglio 2012, n. 13110).

Nella specie, il contenuto dell’avviso di accertamento, trascritto nel ricorso per cassazione, riporta ampi stralci del processo verbale di constatazione, come affermato del resto correttamente dal giudice di appello (“Non è poi vero che si tratta di uno stralcio di poche righe; come è ben visibile a ff. 17 e ss. del p.v.c. in atti si tratta di pagine intere di relazione, che danno conto in modo specifico degli accertamenti effettuati e dell’esito di questi ultimi”) idonei a far comprendere appieno alla contribuente le contestazioni mosse nei suoi confronti (“ad ulteriore conforto dell’addebito, nel processo verbale di constatazione i militari della guardia di finanza ulteriormente annotano: si ritiene che P.F. abbia redatto materialmente le fatture in questione utilizzando arbitrariamente fogli prestampati del consorzio di cui aveva la disponibilità in quanto socio e membro del consiglio direttivo…lo stesso P.F., proprio in relazione ai pagamenti ebbe a dichiarare che il denaro ricevuto con i bonifici dalla A.V. Strutture s.p.a. veniva poi da lui prelevato e restituito ad altri soggetti…”).

4.5.Va, poi, evidenziato che per per questa Corte, in materia di IVA, l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 63, comma 1, per la trasmissione, agli uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, con la conseguenza che la sua mancanza, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, nè implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi. L’autorizzazione in parola è stata infatti introdotta per realizzare una maggiore tutela degli interessi protetti dal segreto istruttorio (Corte Cost., sent. n. 51 del 1992), piuttosto che per filtrare ulteriormente l’acquisizione di elementi significativi a fini fiscali (Cass., sez. 5, 16 maggio 2007, n. 11203; Cass., sez. 5, 14 giugno 2019, n. 15994).

4.6.Quanto alla dedotta doglianza in ordine alla mancata attivazione di poteri inquisitori d’ufficio da parte della Commissione regionale, si rileva che nel processo tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 in quanto norma eccezionale attributiva di ampi poteri istruttori officiosi alle Commissioni tributarie, tra i quali la facoltà di ordinare il deposito di documenti necessari ai fini della decisione, trova applicazione solo quando l’assolvimento dell’onere della prova a carico del contribuente sia impossibile o sommamente difficile, situazione che è integrata qualora la parte alleghi e dimostri la specifica situazione di fatto che, nel caso concreto, abbia reso impossibile o sommamente difficile l’assolvimento dell’onere della prova, essendo insufficiente la mera affermazione dell’esistenza del presupposto, priva dell’allegazione relativa all’avvenuta sollecitazione del giudice del merito all’esercizio del predetto potere (Cass., sez. 5, 31 ottobre 2018, n. 27827). Pertanto, il giudice tributario non è obbligato ad esercitare “ex officio” i poteri istruttori di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7 salvo che non sussista il presupposto dell’impossibilità di acquisire la prova altrimenti, come nel caso in cui una delle parti non possa conseguire documenti in possesso dell’altra (Cass., sez. 5, 8 luglio 2015, n. 14244; Cass., sez. 5, 18 dicembre 2015, n. 25464). Non può, infatti, il giudice supplire a carenze delle parti nell’assolvimento dell’onere probatorio a proprio carico (Cass., sez. 5, 19 giugno 2018, n. 16171).

Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3 è stato, poi, abrogato nel 2005, con il D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 3 bis, comma 5,convertito in L. 2 dicembre 2005, n. 248; sicchè per questa Corte nel processo tributario la Guardia di finanza, in quanto soggetto che agisce su delega dell’Amministrazione finanziaria, non può essere destinataria da parte di un giudice di una richiesta di documenti ex art. 213 c.p.c., atteso che la stessa può essere disposta solo nei confronti di un soggetto terzo e non anche della parte pubblica in causa (Cass., sez. 5, 30 aprile 2019, n. 11432). Può, invece, il giudice ordinare l’esibizione di documenti ai sensi dell’art. 210 c.p.c. (Cass., sez. 5, 11 giugno 2014, n. 13152), ma ne devono sussistere i presupposti, quindi l’istanza di parte, la specifica indicazione del documento richiesto, la certezza materiale dell’esistenza del documento, l’indispensabilità dello stesso, sicchè i documenti devono essere nella disponibilità del contribuente o di un extraneus.

La ricorrente, invece, si è limitata a lamentare del tutto genericamente che la Commissione regionale non aveva dato corso all’esercizio dei poteri inquisitori attribuiti dalla legge.

5.Con il ricorso incidentale l’Agenzia delle entrate deduce “in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c.”, con riferimento alla pretesa sub b) dell’avviso di accertamento, ossia sulla maggiore variazione delle rimanenze finali per opere ultrannuali, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 93, per Euro 42.455,00. Da una verifica del valore delle rimanenze iniziali e finali del 2005 era emersa una maggiore variazione delle stesse, tassabile nell’esercizio. Si trattava delle rimanenze connesse a due commesse di appalto denominate rispettivamente (OMISSIS) per Euro 1.791.367,00 e 4V per Euro 672.000,00, una per commesse infrannuali (4V) e l’altra per commesse ultrannuali ((OMISSIS)). Nel processo verbale di constatazione si applicava, per la commessa ultrannuale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 93 il criterio della percentuale di completamento, con la necessaria predisposizione di un apposito registro recante le indicazioni di legge. L'(OMISSIS) non aveva predisposto tale registro, impedendo all’amministrazione di rilevare la percentuale dell’utile di commessa da applicare ai costi sostenuti nell’esercizio non coperti da S.A.L. (stato avanzamento lavori). Il margine di utile era stato, quindi, individuato nel contraddittorio con l’amministratore della società, con una percentuale di ricarico pari a 2,37 che, applicata ai costi per la commessa (Euro 1.791.367,00) portava ad una maggiorazione delle rimanenze finali di Euro 42.455,00, pari all’imponibile poi ripreso a tassazione. La Commissione provinciale aveva accolto il ricorso della società in quanto, sopraggiunto il fallimento della (OMISSIS) s.r.l., “il curatore ha revocato ex art. 81 l.f. il contratto di appalto con AV”. Pertanto, le lavorazioni già avvenute non potevano essere qualificate come opere infrannuali allo scopo di riprendere a tassazione il ricarico anno per anno maturato; sicchè le opere dovevano ritenersi come “semilavorati” da valutarsi agli effetti tributari al “costo”.

La Commissione regionale ha poi confermato tale decisione, ritenendo che l’Agenzia delle entrate avesse fatto acquiescenza alla decisione di prime cure (“…vi è acquiescenza da parte dell’Ufficio. In ogni caso, la preclusione sul punto a seguito della mancata impugnazione ad opera di parte interessata, rende superfluo l’esame della doglianza….”).

La Commissione regionale, dunque, ha omesso di pronunciarsi sull’appello incidentale proposto dall’Ufficio, avendo erroneamente ritenuto che vi fosse stata un’acquiescenza dello stesso in relazione all’unico punto della decisione di primo grado da cui derivava la sua soccombenza. Nell’appello incidentale l’Ufficio non poteva che insistere sull’unico punto di soccombenza dello stesso. In particolare, l’Ufficio nell’appello incidentale ha dedotto che, in presenza di un’opera di durata ultrannuale, la valutazione delle rimanenze non poteva essere effettuata con il metodo del costo, in quanto ai sensi dell’art. 81 L. Fall. il contratto di appalto non è stato “revocato”, ma si è “risolto ex tunc”, non potendosi però attribuire autonoma efficacia anche in ambito tributario alla risoluzione del contratto avvenuta successivamente al momento in cui è avvenuta la valutazione delle rimanenze. Al 31-12-2005 il contratto era, infatti, perfettamente valido, sicchè la valutazione delle rimanenze non poteva essere effettuata con il metodo del costo. Un fatto verificatosi nel 2008, a seguito del fallimento della committente, non poteva quindi incidere sulla determinazione delle rimanenze al 31 dicembre 2005, in quanto a tale data la società non era fallita, il contratto era in corso ed aveva pacificamente ad oggetto opere ultrannuali.

5.1.Tale motivo è fondato.

5.1.Invero, per questa Corte l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come, in genere, l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3 o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” – ovverosia della violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 – la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello (Cass., sez. 1, 27 gennaio 2006, n. 1755; Cass., 27 ottobre 2014, n. 22759).

Nella specie, emerge dal contenuto dell’appello incidentale, riportato nel ricorso incidentale dell’Agenzia delle entrate, che quest’ultima in effetti ha impugnato la sentenza di primo grado proprio in relazione all’accoglimento parziale del ricorso. Infatti, il primo giudice aveva accolto il ricorso della contribuente solo in relazione al rilievo sub b) dell’avviso di accertamento, relativo alla variazione delle rimanenze di opere ultrannuale derivanti dal contratto di appalto stipulato con la committente.

Essendo stato accolto un unico motivo di doglianza nei confronti dell’avviso da parte della contribuente, è chiaro che l’appello incidentale, anche per come è stato trascritto, non poteva che inerire a tale unica questione.

Pertanto, è erronea l’affermazione della Commissione regionale laddove ha affermato che vi sarebbe stata “acquiescenza sul punto da parte dell’Ufficio”.

6.Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, motivazione insufficiente su fatto decisivo e controverso”, in quanto nell’avviso di accertamento il rilievo di cui alla lettera e) riguardava l’indebita deduzione dal reddito del 2005 di provvigioni per Euro 49.906,05, per provvigioni da correlare, invece, ad affari conclusi in esercizi anteriori al 2005. Pertanto, per l’Agenzia delle entrate il costo doveva essere dedotto nel 2004, anche se la transazione vi era stata nel 2005.

La contribuente nel ricorso originario aveva eccepito che il costo delle provvigioni spettanti a F.G. era divenuto certo solo a seguito della transazione stipulata il 6 giugno 2005.

La Commissione provinciale aveva rigettato tale doglianza in quanto “viene esclusa la transazione con F. perchè avvenuta per il 2004”.

La Commissione regionale, invece, ha accolto l’impugnazione della contribuente in quanto “il costo in questione divenne certo solo nell’anno 2005 a seguito della definizione dell’accordo transattivo intervenuto tra le parti in data 6-6-2005”.

Per la ricorrente è mancata una compiuta disamina degli atti di causa da parte del giudice di appello, in quanto l’Ufficio aveva dedotto in sede di controdeduzioni di appello che, poichè la transazione si era conclusa il 6 giugno 2005, quindi prima della presentazione della dichiarazione per l’anno 2004, si rendevano applicabili i principi giurisprudenziali, per cui il dovere del contribuente di conteggiare i componenti dell’esercizio si arrestava solo di fronte a quei ricavi che non erano ancora noti all’atto della determinazione del reddito, cioè al momento della redazione e presentazione della dichiarazione. La dichiarazione dei redditi del 2004 era stata presentata solo il 27 ottobre 2005. Vi era, allora, tutto il tempo per tenere conto dell’esito della transazione in relazione all’esercizio 2004.

6.1. Tale motivo è fondato.

6.2. Invero, è pacifico che la transazione sia stata stipulata il 6 giugno 2005, nè l’Agenzia delle entrate deduce che, in realtà, il costo era già certo e determinabile nell’anno 2004.

Ritiene, invece, l’Agenzia delle entrate che tale costo, pur se certo e determinato solo nel giugno 2005, quindi dopo la chiusura dell’esercizio relativo al 2004, in realtà, poichè la dichiarazione dei redditi del 2004 è stata presentata nell’ottobre del 2005, la contribuente ne avrebbe dovuto tenere conto. Di questa specifica circostanza non v’è alcuna menzione nella motivazione della sentenza di appello.

Effettivamente la motivazione tace del tutto su tale aspetto, mentre va condiviso il ragionamento dell’Ufficio.

Infatti, il periodo di imposta è annuale e si chiude al 31 dicembre di ciascun anno. Pertanto, l’esercizio del 2004 si è chiuso nel dicembre del 2004. Tuttavia, vanno considerati per il bilancio del 2004 anche avvenimenti verificatisi dopo la chiusura dell’esercizio, ma di cui il contribuente venga a conoscenza entro la data di presentazione della dichiarazione dei redditi del 2005.

Per questa Corte, infatti, i requisiti di certezza e di obiettiva determinabilità dei componenti di reddito devono realizzarsi entro la fine del periodo di imposta, quindi entro il 31 dicembre di ciascun esercizio; di conseguenza concorrono a formare il reddito dell’esercizio di competenza anche i componenti la cui conoscenza sia sopravvenuta per il contribuente dopo la chiusura dell’esercizio, ma entro il termine impiegato per la redazione del bilancio ed entro il termine stabilito per la presentazione della dichiarazione, purchè i detti requisiti di certezza e di obiettiva determinabilità siano maturati entro la fine dell’esercizio, in modo che non sia rimessa alla volontà delle parti la scelta dell’esercizio cui il componente è imputato (Cass., 6 maggio 2015, n. 9080).

Nel caso in esame, appunto, il fatto generatore del tributo, ossia la transazione che ha posto fine alla lite, si è verificato nel giugno 2005, quindi dopo la chiusura dell’esercizio del 2004, con la manifestazione e la conoscibilità dei requisiti della certezza della componente negativa di reddito e della obiettiva determinabilità, sì da imporre le modifiche all’esercizio 2004.

7.Va tenuto conto per la decisione della controversia, quanto meno a titolo interpretativo, essendone preclusa l’applicazione ratione temporis, anche di quanto previsto dai i principi contabili nazionali (OIC) e da quelli internazionali (IAS), entrambi distinguendo due categorie di fatti intervenuti dopo la data di chiusura di bilancio (art. 10 IAS).

7.1. Invero, deve premettersi che l’art. 83 del TUIR sancisce il principio di “derivazione”, nel senso che il reddito di impresa deriva dal risultato del conto economico della stessa (“Il reddito complessivo è determinato apportando all’utile o alla perdita risultante dal conto economico, relativo all’esercizio chiuso nel periodo di imposta, le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri stabiliti nelle successive disposizioni della presente sezione”).

7.2.Con il Regolamento CEn. 1606/2002 del 19-7-2002 si è proceduto alla armonizzazione contabile nel processo di integrazione dei mercati finanziari, con riguardo alle società Europee emittenti “strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentari unionali”, obbligate ad adottare i principi contabili internazionali (IAS/IFRS; International Accounting Standards;) per la redazione dei propri bilanci consolidati a decorrere dal 2005, con l’obiettivo di fornire adeguate informazioni agli investitori, basate su criteri uniformi e, quindi, confrontabili tra loro.

Inoltre, l’art. 5 del Regolamento 1606/2002 ha previsto che gli Stati membri possono consentire o prescrivere l’applicazione degli IAS/IFRS emanati dallo IASB (International Accounting Standard Board) nei bilanci consolidati delle società non quotate e nei bilanci di esercizio delle società quotate o “non quotate”.

7.3.Il legislatore italiano si è avvalso di tali opzioni con il D.Lgs. 28 febbraio 2005, n. 38. In tal modo, con la possibilità di utilizzo dei principi IAS anche per la redazione dei bilanci di esercizio di numerosi soggetti (quindi non solo per i bilanci consolidati), si è creata una frattura tra principi contabili internazionali, volti a soddisfare esigenze informative degli investitori, e principi civilistici, volti soprattutto alla tutela della integrità del capitale sociale nell’interesse dei creditori e dei soci. In tal senso le peculiarità del disinteresse degli IAS/IFRS per le funzioni organizzatorie del bilancio, l’applicazione più estesa del fair value, quindi del criterio di valutazione al valore di mercato come strumento di misurazione delle capacità reddituali o patrimoniali dell’impresa, ed, infine, l’applicazione del principio di prevalenza della sostanza sulla forma, funzionale alla confrontabilità dei bilanci, con la valorizzazione dell’effettivo contenuto economico degli atti di gestione (Cass., sez. 5, 5 novembre 2019, n. 28355).

7.4.Dal principio di “neutralità” derivante dalla prima applicazione delle regole fiscali introdotte dal D.Lgs. n. 38 del 2005, si è passati al principio di “derivazione rafforzata” del reddito imponibile dalle qualificazioni, imputazioni temporali e classificazioni in bilancio previste dai principi contabili internazionali, introdotto con la L. n. 244 del 2007.

Infatti, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83 come modificato dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 58, e poi dal D.L. 30 dicembre 2016, n. 244, convertito in L. 27 febbraio 2017, n. 19″ prevede che “Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali di cui al regolamento CE n. 1602/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 luglio 2002 e per i soggetti diversi dalle micro-imprese di cui all’art. 2435 ter c.c., che redigono il bilancio in base alle disposizioni del codice civile, valgono, anche in deroga alle disposizioni dei successivi articoli della presente sezione, i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti da detti principi contabili”.

Inoltre, la citata L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 61, prevede che “le disposizioni recate dai commi 58 e 59 si applicano a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007. Per i periodi di imposta “precedenti”, sono fatti salvi gli effetti sulla determinazione dell’imposta prodotti dai comportamenti adottati sulla base della corretta applicazione dei principi contabili internazionali, purchè coerenti con quelli che sarebbero derivati dall’applicazione delle disposizioni introdotte dal comma 8″. Si sono volute superare così le difficoltà derivanti dalla gestione del doppio binario tra valori civili e fiscali.

Tuttavia, come detto, proprio dall’applicazione dei principi contabili internazionali sorge il principio di “prevalenza della sostanza sulla forma”.

Il D.M. 1 aprile 2009, n. 48, art. 2 (“regolamento recante disposizioni di attuazione e coordinamento delle norme contenute nella L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, commi 58 e 59 in materia di determinazione del reddito dei soggetti tenuti alla adozione dei principi contabili internazionali”) prevede sul punto che “ai sensi dell’art. 83, comma 1, terzo periodo, per i soggetti IAS assumono rilevanza, ai fini dell’applicazione del Capo II, Sezione I, del testo unico, gli elementi reddituali e patrimoniali rappresentati in bilancio in base al criterio della prevalenza della sostanza sulla forma previsto dagli IAS. Conseguentemente, devono intendersi non applicabili a tali soggetti le disposizioni dell’art. 109, commi 1 e 2, del testo unico, nonchè ogni altra disposizione di determinazione del reddito che assuma i componenti reddituali e patrimoniali in base a regole di rappresentazione non conformi all’anzidetto criterio”.

8.Pertanto, in base ai principi contabili sopra menzionati, da utilizzare come criterio interpretativo, che sono inapplicabili solo alle micro-imprese di cui all’art. 2435 ter c.c., vi sono fatti successivi che comportano una rettifica e si riferiscono a “fatti già sorti” prima della data di chiusura del bilancio. Vi sono, poi, fatti successivi che non comportano urla rettifica e si riferiscono a fatti sorti dopo la data di chiusura del bilancio. Tra i primi, che impongono la rettifica del bilancio, vi è proprio la “definizione” di una causa legale dopo la chiusura del bilancio per un importo diverso da quello presunto o non rilevato alla data di chiusura del bilancio. L’OIC 29 reca le medesime indicazione e fa riferimento alla “definizione” dopo la chiusura dell’esercizio di una causa legale in essere alla data del bilancio per un importo diverso da quelle prevedibile a tale data (cfr. sul punto anche incontro stampa specializzata del 24-5-2018, con cui si richiama l’OIC 29).

8.1. Altro aspetto che dovrà essere esaminato dal giudice di appello attiene alla possibilità di applicazione anche alle imprese “minori” del principio per cui deve tenersi conto, nella redazione del bilancio, anche delle voci che mutano prima della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione. In tal senso si è pronunciata questa Corte (Cass., 13 settembre 2017, n. 21239) che, con riferimento all’anno di imposta 2004, ha ritenuto applicabili tali principi anche alle imprese a contabilità semplificata (D.L. 2 marzo 1989, n. 69, art. 9, comma 1, convertito in L. 27 aprile 1989, n. 154).

Infatti, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, comma 3, prevede, infatti, che “le società e gli enti il cui bilancio o rendiconto è soggetto per legge o per statuto all’approvazione dell’assemblea o di altri organi possono effettuare nelle scritture contabili gli aggiornamenti consequenziali all’approvazione stessa fino al termine stabilito per la presentazione della dichiarazione”.

Tale possibilità è stata estesa anche alle società che utilizzano il sistema di contabilità semplificata dal D.L. 2 marzo 1989, n. 69, art. 9 (“I soggetti che, ai fini della determinazione del reddito di impresa, sono ammessi al regime di contabilità semplificata…devono annotare nei registri tenuti ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 18: … b) entro il termine stabilito per la presentazione della dichiarazione, le…annotazioni rilevanti ai fini della determinazione del reddito….”.

8.2.Un ulteriore aspetto di cui il giudice di appello dovrà tenere conto attiene alle pronunce di legittimità sul tema trattato.

Invero, in linea con la direttiva CEE 18 luglio 1978, devono valutarsi tutte le perdite e i rischi, anche se conosciuti soltanto fra la data di chiusura del bilancio ed il giorno della sua compilazione (Cass., 27 febbraio 2002, n. 2892; Cass., sez. 5, 13 settembre 2017, n. 21239).

L’art. 2423 bis c.c., peraltro, prevede che “nella redazione del bilancio devono essere osservati i seguenti principi: … 4) si deve tenere conto dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se conosciuti dopo la chiusura di questo”.

In senso contrario si è espressa questa Corte in relazione alle “rese” di un contratto di franchising, per cui doveva tenersi conto nel bilancio 1998, solo delle “rese” effettuate nel 1998, ma non di quelle effettuate nei primi mesi del 1999 (Cass., sez. 5, 6 maggio 2015, n. 9080). Successivamente, però, questa Corte è tornata sui principi della decisione del 2002 n. 2892 (Cass., sez. 5, 1 marzo 2019, n. 6092; Cass., sez. 5, 13 settembre 2017, n. 21239; Cass., sez. 5, 18 gennaio 2017, n. 1107; Cass., sez. 5, 18 ottobre 2017, n. 24547; Cass., sez. 5, 14 febbraio 2014, n. 3484).

Non si è valutato in particolare il momento in cui la società è venuta a conoscenza della transazione e quello di redazione e presentazione del bilancio relativo all’anno 2004, redatto nei primi mesi del 2005. Nè si è tenuto conto della data di presentazione della dichiarazione dei redditi relativi al 2004 (27 ottobre 2005). Neppure si è valutato se la contribuente era o meno una micro-impresa ai sensi dell’art. 2453 ter c.c..

Di tutti questi aspetti la motivazione della sentenza del giudice di appello non ha tenuto conto in alcun modo, palesando, quindi, la sua insufficienza.

7.La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata in accoglimento dei due motivi del ricorso incidentale, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie i motivi primo e secondo del ricorso incidentale della Agenzia delle entrate; rigetta il ricorso principale della contribuente; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2020

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