Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26636 del 24/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 24/11/2020, (ud. 09/07/2020, dep. 24/11/2020), n.26636

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo M. – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 11705 del ruolo generale dell’anno

2013, proposto da:

Immobiliare Del Nord s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale a margine

del ricorso, dall’avv.to Dario Stevanato e dall’avv.to Claudio

Lucisano, elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo

difensore, in Roma, Via Crescenzio n. 91;

– ricorrente principale –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, n. 7/05/2013, depositata il 17 gennaio

2013, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 9

luglio 2020 dal Relatore Cons. Maria Giulia Putaturo Donati Viscido

di Nocera.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

– con sentenza n. 7/05/2013, depositata il 17 gennaio 2013, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, nei confronti di “Immobiliare Del Nord” s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso la sentenza n. 152/05/2011 della Commissione tributaria provinciale di Milano che aveva accolto il ricorso proposto dalla società avverso l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) con il quale l’Ufficio, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 aveva contestato, per l’anno 2004, ai fini Ires, Irap e Iva, nei confronti della società, esercente attività di gestione di beni immobili: 1) ricavi non contabilizzati pari a Euro 65.700,00, relativi al canone di locazione di una unità immobiliare, calcolato dall’Ufficio in considerazione del superiore canone di locazione di altro appartamento, di minore metratura, del medesimo stabile; 2) costi di intermediazione immobiliare per Euro 6.210,00 indebitamente dedotti, ai fini delle imposte dirette, e, detratti ai fini Iva, in quanto ritenuti non di competenza;

– in punto di diritto, la CTR, per quanto di interesse ha affermato che:

1) premessa la irrilevanza del rapporto di parentela tra il conduttore (padre) e le socie della società locatrice, stante la intercorrenza del rapporto di locazione tra un soggetto giuridico e una persona fisica, anche considerando le differenze (concernenti le rifiniture) esistenti tra i due appartamenti confrontati rilevate nella relazione di stima, queste non giustificavano la differenza di canone annuo ai quali essi risultavano locati, quasi nello stesso periodo di tempo (di Euro 8.400,00 quello oggetto di verifica di m.q. 165 e di Euro 32.000,00 l’altro appartamento di m.q. 85 dello stesso complesso immobiliare);

2) anche il fatto che entrambi gli immobili fossero stati locati per attività commerciali o professionali costituiva un indice della sussistenza di caratteristiche tra loro, non di molto, dissimili;

3) non escludendo del tutto l’esistenza delle dette differenze e, in considerazione del fatto che l’Ufficio avesse rilevato i maggiori ricavi esclusivamente proporzionando il canone di locazione dell’appartamento di mq. 85 con quello dell’appartamento di mq. 165, i ricavi imponibili derivanti da canoni di locazione non contabilizzati, andavano ridotti a Euro 50.000,00;

4) andava annullata la ripresa a tassazione dei costi relativi a provvigioni per l’intermediazione immobiliare ritenuti dall’Ufficio indebitamente dedotti in quanto non di competenza (dovendo essere, ad avviso dell’Amministrazione, distribuiti per tutti gli anni in cui si fossero verificati i correlativi ricavi), avendo l’Agenzia, in più risoluzioni sostenuto che “le provvigioni passive (…) sono di competenza del medesimo esercizio in cui rilevano i ricavi per cui le medesime provvigioni sono dovute”;

– avverso la sentenza della CTR, la società propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate, spiegando appello incidentale articolato in un motivo;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– in data 9 luglio 2020 si tiene l’adunanza camerale nell’aula d’udienza della sezione V civile del palazzo della Corte di Cassazione alla presenza dei magistrati pres. del collegio Giacinto Bisogni, cons. Enrico Manzon, cons. Salvatore Saija e con la presenza in collegamento remoto attraverso la piattaforma Microsoft Teams individuata con D.Dirig. adottato ai sensi del D.L. n. 18 del 2020, art. 83 convertito in L. n. 24 del 2020 dal direttore generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia e pubblicato sul portale dei servizi telematici in data 20 marzo 2020 – dei magistrati cons. Giacomo Maria Nonno e cons. Maria Giulia Putaturo Donati Viscido Di Nocera, ai quali è assicurata la disponibilità agli atti attraverso la medesima piattaforma;

– con il primo motivo, la ricorrente principale denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9 e art. 53 Cost. per avere la CTR ritenuto erroneamente legittimo (per ricavi imponibili pari a Euro 50.000,00) l’accertamento analitico-induttivo in questione, benchè fosse fondato su di una presunzione non dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza qual era la asserita “incongruenza” fra i corrispettivi pattuiti dalla società contribuente, per la locazione ad uso commerciale, quasi nello stesso periodo di tempo, di due appartamenti, siti nello stesso stabile e, dunque, la pretesa “antieconomicità” di quello richiesto al genitore delle socie della società locatrice;

– con il secondo motivo, la ricorrente principale denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), art. 2697 c.c. per avere la CTR, nel ritenere “irrilevanti” le circostanze (rapporto di parentela tra la compagine sociale della contribuente e il conduttore e perizia di stima) addotte dalla società quali fatti impeditivi e estintivi della pretesa impositiva al fine di comprovare che quello convenuto fosse effettivamente il corrispettivo percepito per la locazione, violato il criterio di riparto dell’onere della prova, non avendo l’Amministrazione, a fronte di tali prove, prodotto alcun argomento di segno contrario;

-i motivi primo e secondo – da trattarsi congiuntamente per connessione – si profilano inammissibili;

-va premesso che l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte su/la base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata (ex multis: Cass., sez. 5, n. 33508 del 2018; n. 20060 del 2014); egualmente, in materia di IVA, è stato soggiunto che “l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni” (cfr., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 26036 del 30/12/2015, Rv. 638202-01; eadem, Sez. 5. Ordinanza n. 25217 del 11/101/2018; n. 32624 del 2019); Costituisce infatti principio consolidato che, a fronte di una valutazione di antieconomicità dell’operazione, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere ad accertamento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d, (v. Cass. n. 9084 del 07/04/2017; Cass. n. 26036 del 30/12/2015), in base al principio secondo cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti. La valutazione di antieconomicità ha due versanti. Se i costi sostenuti dall’impresa siano eccessivi e sproporzionati l’Amministrazione finanziaria può contestare – in materia di imposte dirette (e, in termini più limitati e rigorosi, di Iva) – l’antieconomicità della spesa, che assume rilievo, sul piano probatorio, come indice sintomatico della carenza di inerenza, con la conseguenza che, in tal caso, spetta al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali (v. Cass. n. 18904 del 17/07/2018). Ove, invece, i profitti siano eccessivamente bassi, l’incongruità costituisce indice di un possibile occultamento (parziale) del prezzo, che legittima, anche qui, la ricostruzione induttiva (Cass. n. 16948 del 2019);

-parimenti non si dubita che, se il giudice tributario ha il potere di controllare l’operato della P.A. e di verificare se gli effetti che l’ufficio ha ritenuto di desumere dai fatti utilizzati come indizi siano o meno compatibili con il criterio della normalità, nondimeno gli elementi assunti a fonte di presunzione che legittimano l’accertamento analitico-induttivo della condizione reddituale del contribuente “non debbono essere necessariamente plurimi potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria” (Cass. n. 27552 del 2018; Cass. 6689/16; 403/16; 25706/15; 656/14);

– nella specie, i motivi di ricorso, pur prospettando una violazione

del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9 e art. 2697 c.c., in realtà tendono inammissibilmente ad una nuova interpretazione di questioni di merito, avendo la CTR, con una valutazione in fatto non sindacabile dinanzi al giudice di legittimità, ritenuto costituire indice presuntivo, grave, preciso e concordante dei maggiori ricavi non contabilizzati, la antieconomicità del comportamento della contribuente concretantesi nella riscontrata incongruenza tra i canoni di locazione annui di due appartamenti siti all’interno del medesimo stabile (di Euro 8.400,00 quello oggetto di verifica di m.q. 165 e di Euro 32.000,00 l’altro appartamento di m.q. 85). In particolare, il giudice di appello, da un lato, ha valorizzato la pattuizione contrattuale del canone di locazione della unità immobiliare verificata, sensibilmente inferiore a quello di un altro appartamento, di minore metratura, sito nel medesimo stabile, e, dall’altro, ha ritenuto le differenze (di rifiniture) rilevate nella relazione di stima tra i due appartamenti in questione non sufficienti a giustificare la differenza di canone tra gli stessi, anche in considerazione della locazione di entrambi per uso commerciale/professionale, il che costituiva un indice della sussistenza di caratteristiche non molto dissimili tra loro; a fronte di tale presunzione semplice dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, alcuna idonea prova contraria ha ritenuto il giudice di appello essere stata fornita dalla contribuente non potendo valere a tal fine, nè il dedotto rapporto di parentela tra il conduttore (padre) e le socie della società locatrice, per essere il contratto di locazione intercorso “tra un soggetto giuridico e una persona fisica”, nè tantomeno le evidenziate differenze emerse nella perizia di stima, non considerate sufficienti a giustificare la riscontrata incongruenza di canone tra i due immobili; va, al riguardo, ribadito l’orientamento di questa Corte secondo cui “E’ inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017; Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 18721 del 13/07/2018);

– con il terzo motivo, la ricorrente principale denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9 nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, per avere la CTR determinato il quantum del canone di locazione non contabilizzato da Euro 65.700,00 a 50.000,00, non in base al reale ed effettivo “valore normale” dell’unità immobiliare locata, ma in un importo superiore a quello giudicato in linea con i valori di mercato e richiesto dalla contribuente (alla Banca Italease s.r.l.) per la locazione dell’altro appartamento nello stesso stabile;

– il motivo – che consta di due sub-censure da trattarsi congiuntamente per connessione – è complessivamente inammissibile;

– in particolare, si profila inammissibile la denuncia di difetto di motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio in quanto trattasi di vizio non più censurabile in virtù della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nella specie, per essere stata la sentenza di appello depositata in data 17 gennaio 2013 (v. nello stesso senso, Cass. 30948 del 2018);

– la seconda sub censura incentrata sulla assunta violazione del c.d. “valore normale” ex art. 9 cit. non è attinente al decisum in quanto premesso che la ripresa fiscale dei maggiori ricavi asseritamente non dichiarati era stata fondata non già su un supposto scostamento del canone di locazione dell’immobile verificato dal c.d. valore normale, ma su di un puntuale raffronto con il superiore canone di locazione di un altro appartamento, di minore metratura, del medesimo stabile;

– la ricostruzione (analitico)induttiva del quantum dei maggiori ricavi (non contabilizzati) da parte della CTR si è basata non già sull’applicazione del c.d. valore normale (per il quale si intende ex art. 9, comma 3, cit., vigente ratione temporis, “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nei tempo e nel luogo in cui beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”) ma sulla valutazione di merito- non sindacabile in sede di legittimità- di una serie di elementi, avendo, in particolare, il giudice di appello rapportato la emersa sproporzione tra i canoni locativi in questione proprio alle differenze emerse in sede di stima tra i due appartamenti locati che, se da un lato, non potevano giustificare la differenza di canone, dall’altro, potevano supportare una rideterminazione dei ricavi imponibili da Euro 65.700,00 a Euro 50.000,00;

– con l’unico motivo del ricorso incidentale, l’Agenzia denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, lett. b) (TUIR) per avere la CTR, richiamando risoluzioni dell’Amministrazione inconferenti, ritenuto erroneamente illegittima la ripresa a tassazione dei costi di intermediazione immobiliare non di competenza, benchè ai sensi dell’art. 109, comma 2, lett. b) cit. i detti costi, dipendenti da contratti di locazione, si dovessero considerare sostenuti “alla data di maturazione dei corrispettivi”;

– il motivo è infondato;

– questa Corte in materia ha precisato che “In tema di determinazione dei redditi di impresa, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 (ora 109), comma 1, i ricavi, i costi e gli altri oneri sono imputabili nell’esercizio di competenza in cui si è formato il titolo giuridico che ne costituisce la fonte, purchè l’esistenza o l’ammontare degli stessi sia determinabile in modo oggettivo, circostanze, queste ultime, che rientrano, per i componenti positivi, nell’onere probatorio dell’Amministrazione finanziaria e per quelli negativi in quello del contribuente (Cass. n. Sez. 5 -, Sentenza n. 28671 del 09/11/2018); In tema di reddito d’impresa, le spese relative all’acquisizione di servizi, a norma del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75 ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza, si considerano sostenute alla data in cui le prestazioni dalle quali derivano i servizi sono ultimate, non avendo alcun rilievo il momento in cui viene effettuato il pagamento, con l’unica eccezione dei contratti di locazione, mutuo, assicurazione o altri contratti da cui derivino corrispettivi periodici, in relazione ai quali le spese per i corrispettivi sono imputabili all’esercizio di maturazione degli stessi” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9096 del 06/06/2012);

– nella specie, trattandosi di ripresa a tassazione di costi di intermediazione immobiliare (provvigioni corrisposte dalla contribuente ad agenzie operanti nel settore per la ricerca di clienti cui locare immobili di proprietà sociale) e non già di spese per i corrispettivi periodici dei contratti di locazione, la CTR si è attenuta ai suddetti principi, nell’avere ritenuto che tali costi fossero imputabili in sostanza, all’esercizio in cui era stato concluso il contratto di mediazione immobiliare (ovvero “all’esercizio in cui rilevavano i ricavi per cui le medesime provvigioni erano dovute”) e non già all’esercizio di maturazione dei singoli canoni di locazione, non rientrando nel campo di applicazione dell’art. 109, comma 2, lett. b), ultima parte, cit.;

– in conclusione, va rigettato sia il ricorso principale che quello incidentale;

– in considerazione della reciproca soccombenza, si ravvisano giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte:

rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità;

Dà inoltre atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2020

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