Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26631 del 30/09/2021

Cassazione civile sez. I, 30/09/2021, (ud. 12/05/2021, dep. 30/09/2021), n.26631

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10724/2020 proposto da:

S.M., alias S.M., rappresentato e difeso dall’Avv.

Davide Verlato, domiciliato presso la Cancelleria della Corte;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato domiciliato in Roma, via

dei Portoghesi n. 12, costituito al solo fine di partecipare ex art.

370 c.p.c., comma 1, all’eventuale udienza di discussione della

controversia;

– resistente –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO DI VENEZIA n. 5568/19,

depositata il 10 dicembre 2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/5/2021 dal Consigliere GORI PIERPAOLO.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

1. Con sentenza n. 5568 del 2019 depositata il 10 dicembre 2019 nella causa iscritta al numero di registro 1208 del 2017 la Corte d’appello di Venezia rigettava il ricorso proposto da S.M., alias S.M., avverso l’ordinanza D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, resa il 9 Marzo 2017 dal Tribunale di Venezia, reiettiva dell’opposizione a decreto della Commissione territoriale che aveva negato al richiedente ogni forma di protezione internazionale e di tutela umanitaria.

2. Il richiedente proveniva dal Ghana, rendeva noto di professare la religione cristiana cattolica e di aver abbandonato la propria famiglia e lasciato tale Stato per motivi religiosi dopo essersi rifiutato di aderire al culto animista feticista praticato nel villaggio di origine di cui il padre, deceduto, era stato anche sacerdote subendo per tale scelta minacce e violenze fisiche. Sia in primo che in secondo grado il racconto veniva ritenuto non credibile e non venivano ritenuti sussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e, in subordine, della tutela umanitaria.

3. Propone ricorso il richiedente affidato a due motivi mentre il Ministero dell’Interno ha depositato mera comparsa di costituzione in giudizio ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

4. Con il primo motivo di ricorso – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, viene dedotta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 1, 3 e 5 nonché il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3, in combinato disposto con gli artt. 115 e 116 c.p.c., in tema di disponibilità e valutazione della prova da parte della Corte d’appello di Venezia, la quale avrebbe mancato di acquisire d’ufficio tutte le informazioni necessarie per integrare gli elementi non offerti dalla ricorrente fiu:ruatzp:e0 poteva limitarsi a fornire indizi relativi alla veridicità del proprio racconto in caso di impossibilità di procurarsi delle prove nel paese d’origine.

5. Il motivo è infondato. La Corte osserva che la Corte d’appello ha assolto agli obblighi di cooperazione istruttoria con riferimento alle condizioni del Paese di origine (Ghana), richiamando quanto al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), numerose fonti internazionali di riferimento (Freedom House Freedom in the World, Report on International Religious Freedom – Ghana Viaggiare sicuri del Ministero degli Esteri ecc.), a conferma dal fatto che il giudice d’appello ha preso in carico l’allegazione di violazione dei diritti inviolabili dell’uomo e di situazione di instabilità socio-politica del Paese, vagliandole e non condividendole. Tale statuizione è argomentata, con riferimenti circostanziati al racconto del richiedente, anche avuto riguardo alla richiesta di protezione umanitaria. Ne’ sussiste un pari obbligo di cooperazione con riferimento alle fattispecie di cui alle lett. a) e b) del decreto da ultimo citato allorquando, come nel caso di specie, la ritenuta e motivata assenza di credibilità del dichiarante (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16122 del 28/07/2020) non consenta di apprezzare rischi individuali.

5. Orbene, gli accertamenti in fatto operati dalla Corte d’appello e sopra sintetizzati, che implicano anche l’esercizio di reperimento di informazioni d’ufficio, adempimento esercitato già in primo grado e ribadito dalla sentenza impugnata nel quadro dei poteri devolutivi del giudice di appello, non sono superati dalle deduzioni contenute nel motivo in esame ma, in sintesi, alle statuizioni in fatto adottate dal giudice di appello viene semplicemente contrapposta una ricostruzione secondo cui vi sarebbero serie compressioni di diritti fondamentali a danno del richiedente, che tuttavia non risulta essere stata supportata in sede di merito da allegazioni in fatto circostanziate (la denuncia alla polizia non risulta essere stata prodotta al giudice).

6. Con il secondo motivo di ricorso – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – viene prospettato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti con riferimento alla richiesta di concessione di un permesso per motivi umanitari e la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, oltre alla violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a) e c), oltre alla possibile violazione dell’art. 8 CEDU e dell’art. 19 comma 1 e comma 1.1 del TU immigrazione.

In particolare, nel corpo del motivo viene lamentata l’erronea statuizione da parte della Corte d’appello circa l’insufficiente integrazione sociale e lavorativa del richiedente, oltre che circa la valutazione della vulnerabilità personale dello stesso, in quanto da farsi a prescindere dall’effettiva credibilità della vicenda narrata. Infine, viene censurato il fatto che il giudice d’appello non abbia tenuto conto del tempo trascorso dal ricorrente negli Stati intermedi di passaggio in particolare in Libia per circa tre anni tra il 2011 e il 2014 subendo anche una dura prigionia di sei mesi.

7. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. Con riferimento alla permanenza in Libia per circa 3 anni dal 2011 sino al settembre 2014, pochi mesi dopo lo scoppio della guerra del maggio di quell’anno, di cui non vi è menzione nella sentenza impugnata pure assai particolareggiata nel descrivere la fattispecie concreta, la censura è inammissibile. Infatti il ricorso, che ha per oggetto una sentenza della Corte d’appello e non un decreto del Tribunale, non è autosufficiente, ossia non riporta alcun chiaro riferimento al corrispondente motivo d’appello proposto (cfr. ex multis Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 10489 del 2021) a seguito di tempestiva doglianza in primo grado, al fine di consentire a questo Collegio di apprezzare l’eventuale errore commesso dalla Corte territoriale e così la decisività della censura.

8. Per il resto, la decisione sulla richiesta di protezione umanitaria non risiede semplicemente nella non credibilità del racconto, ma è stata oggetto di autonoma valutazione nei suoi presupposti alle pagg. 5 e 6 della sentenza, ritenuti non sussistenti attraverso un accertamento di fatto. Quanto all’ulteriore aspetto dell’inserimento in Italia su cui insiste il motivo, la sentenza impugnata, che lo ha considerato definendolo ad un livello iniziale, non ha trovato smentita nel ricorso, che sul punto ha fatto inapprezzabile riferimento ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato successivo alla assunzione della causa in decisione. Del resto, va comunque escluso che l’inserimento sociale possa di per sé rendere doveroso il rilascio del permesso umanitario, il quale pone come punto di partenza ineludibile per il riconoscimento del diritto l’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce della peculiarità della vicenda personale (cfr. Sez. 6-1, n. 420/2012, Rv. 621178-01; Sez. 6-1, n. 359/2013; Sez. 6-1, n. 15756/2013). Valutazione di vulnerabilità comparativa che è stata compiuta dalla Corte d’appello sulla base degli elementi utilizzabili, in difetto di ulteriori deduzioni circa la situazione personale del richiedente nel luogo di origine diverse da quelle ritenute motivatamente inattendibili, e ha concluso con un accertamento in fatto argomentato (anche con riguardo alle condizioni di salute) in senso sfavorevole per il ricorrente.

9. In conclusione, il ricorso dev’essere rigettato e, in assenza di svolgimento di difese effettive da parte del Ministero, nessuna statuizione dev’essere adottata sulle spese di lite.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza allo stato dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2021

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