Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26625 del 21/12/2016


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Cassazione civile, sez. VI, 21/12/2016, (ud. 10/11/2016, dep.21/12/2016),  n. 26625

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Anna – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25211/2015 proposto da:

S.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSTANTINO

MORIN 1, presso lo studio dell’avvocato WALTER FELICIANI,

rappresentata e difesa dall’avvocato RICCARDO LEONARDI giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositato il

19/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Roma in data 27 marzo 2013, S.G. chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento dell’indennizzo del pregiudizio subito per la irragionevole durata di un procedimento penale, scaturito da una sua denuncia – querela in data 16 gennaio 2002. Aggiungeva che la notitia criminis era iscritta nel registro della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Macerata solo a distanza di due anni dalla presentazione e che l’azione penale era stata tardivamente esercitata solo il 14 marzo 2006, avendo quindi provveduto a costituirsi parte civile in data 25 ottobre 2006. Evidenziava poi che il processo si era concluso in primo grado con l’assoluzione di uno degli imputati e con la condanna delle altre due imputate.

A seguito di appello proposto sia dalle imputate che dalla parte civile, la Corte d’Appello di Ancona con la sentenza n. 580 del 27 febbraio 2012 dichiarava non doversi procedere nei confronti delle imputate per l’estinzione dei reati per prescrizione.

La Corte d’appello, nella persona del Consigliere delegato, con decreto depositato in data 18 marzo 2014, rigettava la domanda, rilevando che i tempi del processo penale, tenuto conto per la ricorrente del periodo decorso dalla costituzione di parte civile, non eccedevano il limite di sei anni di cui alla L. n. 89 del 2011, art. 2, comma 2 ter.

A seguito di opposizione della S., la Corte d’Appello con decreto collegiale del 19/3/2015 confermava il provvedimento opposto, ritenendo che la persona offesa assume la qualità di parte, anche ai fini della richiesta di indennizzo ai sensi della citata legge, solo allorquando si sia costituita parte civile, dovendosi altresì escludere la fondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale della normativa vigente alla luce dei principi della CEDU.

Per la cassazione di questo decreto S.G. ha proposto ricorso sulla base di un motivo.

Il Ministero della giustizia ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 comma 2 bis, e dell’art. 6, par. 1, della CEDU, lamentando altresì l’illegittimità costituzionale della norma in esame in relazione agli artt. 3, 111 e 117 Cost..

Rileva che il diritto alla equa riparazione da irragionevole durata del processo compete a ogni persona che abbia subito un danno non patrimoniale per tale causa, dovendo il termine “parte” essere inteso come ogni persona interessata al procedimento; qualità, questa, che non potrebbe certo essere negata alla persona offesa dal reato; ciò tanto più in quanto la persona offesa non può costituirsi parte civile sino a quando non venga chiesto il rinvio a giudizio dell’imputato. Inoltre la persona offesa gode di una serie di diritti e prerogative già nella fase delle indagini preliminari, sicchè il negare l’indennizzo per il tempo inutilmente decorso prima dell’esercizio dell’azione penale, equivale ad una evidente violazione dell’art. 6 della CEDU, attesa l’ampia nozione di processo che tale Carta configura.

Ad avviso del Collegio il ricorso è infondato, dovendosi confermare il pacifico orientamento di questa Corte che esclude la possibilità di indennizzare in favore della persona offesa il periodo di tempo trascorso prima della sua costituzione come parte civile.

In tal senso si è affermato che, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, per la persona offesa dal reato in quanto tale e per il querelante, che non si siano costituiti parte civile, il procedimento penale non può essere definito come una propria causa; ad essi, pertanto, non può essere direttamente e personalmente riconosciuto il diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ai fini dell’equa riparazione prevista dalla citata L. n. 89 del 2001.

Ne deriva che la persona offesa dal reato, che al fine di conseguire il risarcimento del danno si sia costituita parte civile nel processo penale instaurato dal contro l’autore di detto reato, ha diritto alla ragionevole durata del processo, con le connesse conseguenze indennitarie in caso di violazione, soltanto a partire dal momento della costituzione di parte civile, senza che possa darsi alcun rilievo al fatto che essa persona offesa dal reato abbia, comunque, dovuto attendere lo sviluppo del procedimento per potersi costituire parte civile” (Cass. n. 19032 del 2005, Cass. n. 10303 del 2010; Cass. n. 5294 del 2012; Cass. n. 2842/2013; nello stesso senso, v. anche Cass. n. 13889 del 2003; Cass. n. 11480 del 2003; Cass. n. 4138 del 2003; Cass. n. 1405 del 2003; Cass. n. 996 del 2003).

In particolare si ritiene di dover dare continuità alle ampie e condivisibili argomentazioni di cui alla sentenza n. 14925/2015, la quale ha precisato che l’esercizio dell’azione civile in sede penale, realizzato mediante lo strumento della costituzione di parte civile, benchè consenta di far confluire detta azione nell’ambito del processo penale, tuttavia non implica l’incorporazione della causa civile in quella penale, e non travolge la differenza che esiste tra le parti dell’una e dell’altra causa. A tal fine deve ricordarsi che la causa penale concerne unicamente la pretesa punitiva dello Stato nei confronti di chi si assume essere autore di un fatto costituente reato, mentre quella civile ha per oggetto il diritto del privato al risarcimento del danno eventualmente cagionatogli da quel medesimo reato, con la conseguenza che, la persona offesa dal reato, quand’anche abbia svolto il ruolo di querelante, non può dirsi parte del giudizio penale; e che, viceversa, tale qualità compete al danneggiato che si sia costituito parte civile in relazione alla causa per risarcimento di danni che in tal modo si è innestata nel processo penale. In tal senso, se è vero che diverse disposizioni del codice di procedura penale attribuiscono alla persona offesa anche un ruolo attivo nel processo penale, al punto che si è parlato di un’accusa privata, in posizione accessoria a quella pubblica e, per certi aspetti, con funzioni anche di sollecitazione e controllo sull’operato di quest’ultima, tuttavia resta il fatto che il processo penale, di per sè, non è volto ad accertare nessuna posizione di diritto o di soggezione facente capo alla persona offesa, la quale non può dunque essere assimilata ad una delle parti private di cui si occupano altre disposizioni del medesimo codice, posto che, il processo penale è pur sempre finalizzato unicamente all’esercizio dell’azione penale, di cui è solo titolare il pubblico ministero, onde i poteri e le facoltà che sono autonomamente riconosciuti alla persona offesa sin dalle indagini preliminari si risolvono in una mera anticipazione di quanto ad essa spetterà una volta che, ricorrendone le condizioni, abbia eventualmente formalizzato la costituzione di parte civile.

Tali considerazioni non appaiono destinate a subire modificazioni a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 212 del 2015, con il quale è stata data attuazione alla direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2012/29/UE del 25/10/2012, che, pur avendo rafforzato la posizione della vittima del reato, anche in vista dell’esigenza di tutela di soggetti aventi difficoltà di comprensione della lingua italiana (cfr. l’introduzione dell’art. 143 bis c.p.p.) e pur avendo individuato specificamente una serie di elementi che debbano essere comunicati ovvero costituire oggetto di informazioni per la persona offesa (cfr. i novellati artt. 90 bis e 90 ter c.p.p.) non incide sulla conclusione circa l’impossibilità di attribuire la qualifica di parte del processo penale alla persona offesa prima della sua costituzione come parte civile.

Ne discende altresì che deve escludersi la violazione delle previsioni della CEDU, in quanto per la persona offesa, il procedimento penale non può essere definito come una “propria causa”, in relazione alla quale le possa perciò essere direttamente e personalmente riconosciuto il diritto alla ragionevole durata di tale causa, non avendo un autonomo diritto a che il reo sia sottoposto a pena e neppure, dunque, alla tempestività della decisione di assoluzione o di condanna dell’imputato in sè sola considerata.

Tali considerazioni escludono altresì la sussistenza del sospetto di illegittimità costituzionale per disparità di trattamento – ben potendo la persona offesa liberamente decidere di svincolarsi dalle sorti del procedimento penale, per autonomamente promuovere domanda risarcitoria in sede civile. Nè è possibile ravvisare una violazione dell’art. 24 Cost., non risultando in alcun modo compresso il diritto della persona offesa di costituirsi, quando possibile, parte civile nel procedimento penale scaturito dalla sua iniziativa; nè, infine, è ravvisabile una violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea, poichè, come chiarito, il procedimento penale diventa la causa propria anche della persona offesa solo dal momento in cui la stessa faccia valere in sede penale il diritto al risarcimento dei danni subiti per effetto della commissione del reato oggetto della denuncia. Ne consegue che la decisione gravata è del tutto conforme ai principi espressi da questa Corte e che dunque il ricorso deve essere rigettato. In applicazione del principio della soccombenza, la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

Risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al T.U. approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2016

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