Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26624 del 22/10/2018

Cassazione civile sez. II, 22/10/2018, (ud. 03/07/2018, dep. 22/10/2018), n.26624

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. SCARPA Ubaldo – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15703/2014 proposto da:

V.P.U., V.A., elettivamente domiciliati in

ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 76, presso lo studio dell’avvocato

ANTONELLA FAIETA, rappresentati e difesi dall’avvocato STEFANO

GILIBERTI giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

A.C., C.F., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA ALESSANDRIA 119, presso lo studio dell’avvocato FRANCO

CICCHIELLO, rappresentati e difesi dall’avvocato ALICE PUCCI in

virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 657/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 30/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

03/07/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dai ricorrenti.

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. V.A. e V.P.U. convenivano dinanzi al Pretore di Pistoia A.C. e C.F., nonchè Ca.Ma. e R.L., al fine di accertare l’esistenza in favore della loro proprietà sita in (OMISSIS), in NCEU al foglio (OMISSIS), mappale (OMISSIS) ed a carico della corte dei convenuti, riportata in NCEU al mappale (OMISSIS), il diritto di servitù di passo e di sosta per due autoveicoli.

Assumevano che tale diritto era stato costituito con testamento dell’originario unico proprietario F.A. e che inopinatamente i convenuti, che si erano resi acquirenti in epoca successiva del fondo servente originariamente attribuito dal de cuius a favore di altri coeredi, negavano la possibilità di suo esercizio.

Si costituivano i soli A. e C. che chiedevano il rigetto della domanda, ed in via riconvenzionale instavano per la condanna degli attori alla rimozione di una palina e di uno sportello del gas posti abusivamente sul mappale di loro proprietà.

Il Tribunale di Pistoia, subentrato nelle more al Pretore, con la sentenza n. 1285 del 7 dicembre 2005 rigettava la domanda attorea volta al riconoscimento del diritto di servitù, e ritenendo che il diritto previsto nel testamento avesse natura personale, riconosceva il diritto di sosta al solo V.P.U., dichiarando estinto invece il diritto vantato dall’altro attore.

Accoglieva altresì la domanda riconvenzionale, ordinando a V.A. di astenersi dal parcheggiare la propria auto sul fondo dei convenuti, e condannando entrambi gli attori al rimuovere sia la palina dell’impianto di messa a terra per la sicurezza elettrica, realizzata con un pozzetto, sia lo sportello del gas realizzato sul muro est a confine del piazzale dei convenuti.

A seguito di appello dei V. nonchè di separato gravame dell’ A. e della C., la Corte d’Appello di Firenze, riunite le due impugnazioni, con la sentenza n. 657 del 30 aprile 2013 rigettava il gravame dei V., ed in parziale accoglimento dell’appello dei convenuti, compensava per la metà le spese del primo grado, ponendo la residua parte, nonchè integralmente quelle del giudizio di appello a carico delle originarie parti attrici.

Nell’interpretare la disposizione testamentaria, sulla scorta della quale gli attori pretendevano di essere titolari di un diritto di servitù sul fondo dei convenuti, la Corte di merito osservava che, accanto alla previsione di un vero e proprio diritto di servitù, al fine di consentire la costruzione uno o due garage sotto il piazzale antistante sul lato est, passando sul mappale (OMISSIS), per l’ipotesi di mancata costruzione di tali manufatti, il de cuius aveva attribuito ai germani V., nipoti del testatore, un diritto personale di parcheggio, diritto che si era estinto una volta che V.V., originario erede istituito, aveva trasferito la proprietà del bene a favore del nipote A..

Nella fattispecie doveva escludersi che fosse stato costituito un peso a carico del fondo per il vantaggio di quello degli attori, atteso che il testatore aveva fatto espresso riferimento alle persone dei proprietari dei beni, indicandoli nominativamente. Inoltre il diritto di parcheggio non era accordato in maniera assoluta, ma era condizionato alla possibilità di parcheggiare ed al fatto di non recare alcun pregiudizio agli altri comproprietari, limiti questi che apparivano incompatibili con il preteso carattere reale del diritto de quo.

Quanto al secondo motivo di appello, con il quale ci si doleva che fosse stata accolta la domanda riconvenzionale sul presupposto che i relativi fatti costitutivi non fossero stati contestati dagli attori, la sentenza di appello riteneva che il principio di non contestazione fosse stato correttamente applicato.

Infine accoglieva il separato appello dei coniugi A. – C., reputando che essendo stata rigettata la domanda principale, ed avendo trovato parziale accoglimento la domanda riconvenzionale, pur tenute presentì le difficoltà di interpretazione del testamento, era giusto compensare le spese del primo grado solo nella misura del 50%, dovendosi porre la residua parte a carico degli attori, unitamente alle spese del giudizio di appello, ma per l’intero.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso V.U. e V.A. sulla base di cinque motivi.

A.C. e C.F. hanno resistito con controricorso.

2. Preliminarmente rileva la Corte che il ricorso, sebbene relativo all’impugnazione di una sentenza che aveva visto come originarie parti convenute anche Ca.Ma. e R.L., individuati come comproprietari del preteso fondo servente, non risulta essere stato notificato nei confronti di tutti i soggetti che hanno preso parte ai precedenti gradi di giudizio.

E’ bensì vero che nella specie si versa in un caso di litisconsorzio necessario, anche nel grado di impugnazione, per cui sarebbe indispensabile l’impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti; con la conseguenza che dovrebbe disporsi, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari, a cui il ricorso non è stato in precedenza notificato.

Senonchè, occorre ribadire che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei diritti del l’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti (Cass. 17 giugno 2013 n. 15106; Cass. 8 febbraio 2010 n. 2723; Cass., Sez. Un., 3 novembre 2008, n. 26373; Cass., Sez. 3, 7 luglio 2009, n. 15895; Cass., Sez. 3, 19 agosto 2009, n. 18410; Cass., Sez. 3, 23 dicembre 2009, n. 27129).

In applicazione di detto principio, essendo il presente ricorso (per le ragioni che andranno ad esporsi nel prosieguo) prima, facie infondato, appare superflua la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti.

3. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la nullità della sentenza gravata per la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione al rigetto della domanda di accertamento della servitù di sosta e parcheggio.

Assumono che a fondamento del motivo di appello con il quale era stata contestata l’avversa decisione del Tribunale, avevano addotto una serie di argomenti in base ai quali non poteva attribuirsi al diritto loro riconosciuto con testamento natura personale, bensì reale, evidenziandosi come non potesse nemmeno invocarsi il carattere tipico delle servitù per disconoscere l’esistenza di una servitù di parcheggio.

Ancora avevano addotto la necessità di dover indagare quale fosse l’effettiva volontà del de cuius, alla luce del complesso delle previsioni testamentarie.

A fronte di tali argomenti, la Corte d’Appello si è limitata a ribadire che il diritto vantato dagli appellanti aveva carattere personale, in quanto la disposizione testamentaria non faceva riferimento ai fondi, ma alle persone dei proprietari, peraltro indicati nominativamente, sottolineando altresì che il diritto di parcheggiare non era attribuito in maniera assoluta, come sarebbe tipico per un diritto reale, ma era condizionato alla possibilità di parcheggiare ed al fatto di non arrecare alcun pregiudizio agli altri comproprietari, laddove, se il testatore avesse voluto veramente costituire una servitù, di sicuro non avrebbe posto i suddetti limiti, rimettendoli peraltro alla volontà del proprietario del fondo servente.

Il motivo è infondato.

Ed, invero, il giudice di appello, senza legare la sua decisione alla dibattuta possibilità di riconoscere paternità nel nostro ordinamento ad una servitù di parcheggio, questione sulla quale si registra di recente un acceso dibattito sia in dottrina che nella stessa giurisprudenza di questa Corte, è pervenuto al rigetto della domanda attorea de qua, ritenendo che la conformazione del diritto attribuito dal testatore avesse intrinseche caratteristiche di personalità, legate non tanto al tipo di utilità che si intendeva assicurare, ma alla formulazione delle espressioni letterali utilizzate che miravano ad individuare un vantaggio non già di carattere reale, bensì a favore di specifiche persone, e con delle limitazioni che rendevano il diritto del tutto inconciliabile con il carattere della realità tipico delle servitù.

Compiuta tale premessa, va osservato che la sentenza di appello non ha in alcun modo violato la prescrizione di cui all’art. 112 c.p.c., essendo pervenuta in maniera espressa al rigetto del motivo di appello che investiva direttamente il riconoscimento del diritto di servitù in favore delle originarie parti attrici.

Ebbene a fronte della motivazione sopra riportata per sintesi, va sicuramente esclusa la ricorrenza della violazione dell’art. 112 c.p.c., dovendo a tal fine farsi richiamo alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui (Cass. n. 24542/2009) nella redazione della motivazione della sentenza, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, essendo necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4 (nel testo “ratione temporis” vigente), che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo seguito (conf. Cass. n. 25509/2014).

Nella fattispecie, l’affermazione della ricorrenza dei presupposti di fatto per il riconoscimento di un solo diritto personale di sosta e parcheggio, consente di ritenere che le argomentazioni poste a sostegno dell’appello siano state quanto meno implicitamente disattese, potendosi al più ripercuotere la carenza di motivazione sul diverso piano della ricorrenza di un vizio della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4, questione che è invece oggetto del quinto motivo di ricorso.

4. Il secondo motivo di ricorso denuncia del pari la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per la violazione dell’art. 112 c.p.c., sostenendosi l’omessa pronuncia quanto ai motivi di impugnazione vertenti sull’accoglimento della domanda riconvenzionale, in ragione dell’applicazione del principio di non contestazione.

Si ricorda che nell’atto di appello si erano addotte plurime considerazioni che avrebbero dovuto portare ad escludere la ricorrenza di un’ipotesi di non contestazione, ragioni che sono rimaste tutte evidentemente prive di risposta nella motivazione della Corte d’Appello, che si è limitata a riferire che dovevano reputarsi provati i fatti posti a fondamento della domanda riconvenzionale, alla luce del principio di non contestazione, che risulta applicabile in giurisprudenza anche ai processi introdotti in epoca anteriore alla riforma dell’art. 115 c.p.c., di cui alla L. n. 69 del 2009.

Le considerazioni svolte in occasione della disamina del motivo che precede risultano attagliarsi perfettamente anche al motivo in esame che, a fronte di un espresso rigetto del motivo di appello, sostiene infondatamente la possibilità di riscontrare una violazione dell’art. 112 c.p.c., solo perchè non siano state esaminate tutte le argomentazioni difensive spese dalla parte. Anche tale motivo va quindi rigettato.

5. Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in merito alla ravvisata non contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda riconvenzionale.

Assumono i ricorrenti che in realtà avevano dichiarato di non accettare il contraddittorio sulla domanda riconvenzionale avanzata dai convenuti che pertanto non potrebbe darsi seguito all’applicazione del principio di non contestazione.

Si sostiene che ciò sarebbe possibile solo in caso di espressa ammissione dei fatti addotti dalla controparte, ovvero laddove si imposti la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento dei fatti dedotti dall’avversario.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

In primo luogo la censura difetta evidentemente del requisito di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

La giurisprudenza di questa Corte ha infatti ribadito che (cfr. da ultimo Cass. n. 12840/2017) il motivo di ricorso per cassazione con il quale si intenda denunciare l’omessa considerazione, nella sentenza impugnata, della prova derivante dalla assenza di contestazioni della controparte su una determinata circostanza, deve indicare specificamente il contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori atti difensivi, evidenziando in modo puntuale la genericità o l’eventuale totale assenza di contestazioni sul punto, il che impone specularmente che laddove si intenda criticare l’applicazione del principio di non contestazione, la parte debba altrettanto specificamente riportare in ricorso gli elementi sulla scorta dei quali risulterebbe erronea la affermazione del giudice di merito circa la maturazione della non contestazione.

In tal senso si veda Cass. n. 20637/2016 a mente della quale, il ricorso per cassazione con cui si deduca l’erronea applicazione del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto integrata la non contestazione che il ricorrente pretende di negare, atteso che l’onere di specifica contestazione, ad opera della parte costituita, presuppone, a monte, un’allegazione altrettanto puntuale a carico della parte onerata della prova.

Nel caso di specie, a fronte di una motivazione del giudice di appello che ha ritenuto che sui fatti posti a fondamento della domanda riconvenzionale si fosse verificata la non contestazione, per assenza di una presa di posizione da parte della controparte, i ricorrenti, oltre a richiamare una nozione ristretta di non contestazione fondata sull’espressa ammissione dell’esistenza dei fatti ovvero sull’avere addotto una linea difensiva incompatibile con la negazione dei fatti costitutivi dell’avversa pretesa, nozione che deve reputarsi ormai superata a seguito dell’arresto delle Sezioni Unite di cui alla sentenza n. 761/2002, hanno omesso di chiarire quali fossero i fatti indicati nella comparsa di risposta contenente domanda riconvenzionale dei coniugi A. – C., impedendo quindi di poter apprezzare, in vista della valutazione circa la corretta applicazione del principio in esame, se attesa la genericità dei fatti, il silenzio opposto dai ricorrenti impedisse che i relativi fatti potessero essere posti al di fuori dl thema probandum.

Le deduzioni sviluppate nel motivo assumono quindi carattere assolutamente teorico, ed appaiono del tutto sganciate dalla concreta verifica dell’andamento della vicenda processuale, trascurando in particolare che anche a seguito della sentenza delle Sezioni Unite n. 761/2002, e senza che alla stessa possa attribuirsi un’efficacia solo per il futuro (come sarebbe per il caso in cui la stessa avesse segnato un’ipotesi di cd. overruling) la Corte ha ribadito che (cfr. Cass. n. 19896/2015) il convenuto (ovvero l’attore in caso di proposizione della domanda riconvenzionale), ai sensi dell’art. 167 c.p.c., è tenuto, anche anteriormente alla formale introduzione del principio di “non contestazione” a seguito della modifica dell’art. 115 c.p.c., a prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall’attore a fondamento della propria domanda, i quali debbono ritenersi ammessi, senza necessità di prova, ove la parte, nella comparsa di costituzione e risposta, si sia limitata a negare genericamente la “sussistenza dei presupposti di legge” per l’accoglimento della domanda attorea, senza elevare alcuna contestazione chiara e specifica.

6. Il quarto motivo lamenta la violazione o falsa applicazione delle norme (artt. 1362 – 1365 c.c.) in tema di interpretazione soggettiva del testamento di F.A. del 31/12/1981, sostenendosi che in realtà la valutazione compiuta sul punto dalla Corte d’Appello, come sopra riportata, non aveva tenuto conto della volontà del de cuius di assicurare con le varie previsioni una possibilità di parcheggio a favore delle unità immobiliari attribuite ai V., anche per l’ipotesi in cui non fosse stato possibile realizzare, come appunto accaduto, i garage.

Sostiene che sarebbe priva di razionalità la soluzione che, a fronte di un diritto reale correlato alla possibilità di costruire i garage, nel caso di mancata realizzazione di tali manufatti, ai beneficiari sarebbe stato assegnato solo un diritto di natura personale.

Il motivo è infondato.

Quanto invece al vizio di violazione di legge, e precisamente delle norme di interpretazione del testamento, è pur vero che (cfr. Cass. n. 23278/2013) nell’interpretazione del testamento, il giudice di merito deve accertare secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art. 1362 c.c. – applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria – quale sia stata l’effettiva volontà del testatore, comunque espressa, valutando congiuntamente e in modo coordinato l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale “mortis causa”, tuttavia, anche laddove si è ritenuto che (cfr. Cass. n. 24637/2010; Cass. n. 14548/2004) l’esigenza di assicurare una più penetrante ricerca, al di là della mera dichiarazione, della volontà del testatore, impone un esame globale della scheda testamentaria, con riferimento, essenzialmente nei casi dubbi, anche ad elementi estrinseci alla scheda, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore, potendosi attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell’atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purchè non contrastante ed antitetico, e si prestino ad esprimere, in modo più adeguato e coerente, la reale intenzione del “de cuius”, si è però precisato che (così Cass. n. 20204/2005) qualora dall’indagine di fatto riservata al giudice di merito risulti già chiara, in base al contenuto dell’atto, la volontà del testatore, non è consentito – alla stregua del primario criterio ermeneutico della letteralità – il ricorso ad elementi tratti “aliunde” ed estranei alla scheda testamentaria.

Ed, invero, va ribadito il principio per cui (Cass. n. 5604/2001) nell’interpretazione del testamento deve privilegiarsi la ricostruzione della volontà del testatore condotta alla stregua degli elementi intrinseci alla scheda testamentaria, sulla base dell’esame globale della scheda stessa, potendosi solo in via sussidiaria, ove cioè dal testo dell’atto non emerga con certezza l’effettiva intenzione del “de cuius” e la portata della disposizione, far ricorso ad elementi estrinseci al testamento, ma pur sempre riferibili al testatore, quali ad esempio la personalità dello stesso, la sua mentalità, cultura, condizione sociale, ambiente di vita, ecc..

Ribadito altresì il principio per cui l’accertamento della volontà testamentaria, risolvendosi in una indagine di fatto da parte del giudice di merito, è, quindi, sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica legali o (in passato) per vizi logici e giuridici attinenti la motivazione (così Cass. n. 7422/2005), appare al Collegio evidente l’infondatezza della censura mossa da parte ricorrente.

I giudici di merito, con motivazione congrua ed esauriente, hanno ritenuto che le espressioni letterali delle quali si era servito il testatore, nonchè la conformazione oggettiva del diritto assegnato, fortemente limitato dalle esigenze del fondo sul quale il diritto veniva a gravare non lasciassero dubbio alcuno circa la possibilità di poter individuare i diritti spettanti ai V. come aventi carattere personale, mancando incertezze per colmare le quali dovesse farsi ricorso ad elementi estrinseci.

Peraltro quella suggerita dai ricorrenti non è l’unica interpretazione plausibile del testamento, essendo fortemente influenzata dalla pretesa di poter cogliere quale fosse l’effettiva volontà del testatore, anche prescindendo da quanto espressamente specificato nella scheda testamentaria condizione che avrebbe appunto consentito di riscontrare l’effettiva violazione delle regole di ermeneutica legale, essendo invece insindacabile la decisione del giudice di merito di fare propria una delle possibili interpretazioni dell’atto negoziale.

7. Il quinto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza d’appello per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, sostenendosi che la motivazione sarebbe inidonea in relazione al rigetto del riconoscimento del diritto di servitù.

Richiamandosi quanto già dedotto in occasione della disamina del primo e del quarto motivo, si rileva che le motivazioni spese dai giudici di appello sono inidonee a scalfire le critiche mosse con i motivi di appello.

Anche tale motivo è palesemente destituito di fondamento.

Ed, invero deve farsi richiamo a quanto precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo introdotto dalla L. n. 134 del 2012, il vizio denunciabile è limitato all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione fra le parti, essendo stata così sostituita la precedente formulazione (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio). La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata (a prescindere dal confronto con le risultanze processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. S.U. 8053/2014). Pertanto, non possono essere sollevate doglianze per censurare, ai sensi dell’art. 360, n. 5 citato, la correttezza logica del percorso argomentativo della sentenza, a meno che non sia denunciato come incomprensibile il ragionamento ovvero che la contraddittorietà delle argomentazioni si risolva nella assenza o apparenza della motivazione (in tal caso, il vizio è deducibile quale violazione della legge processuale ex art. 132 c.p.c.).

Nel caso di specie, alla luce del tenore della sentenza gravata, va sicuramente esclusa la ricorrenza di un’anomalia motivazionale idonea a determinare la nullità della sentenza nel senso delineato dalle Sezioni Unite, risolvendosi la critica in una denuncia di insoddisfazione per le argomentazioni spese dal giudice di appello, ritenute inappaganti, e volta nella sostanza a riproporre, sotto mentite spoglie, il non più denunciabile vizio di insufficiente ovvero contraddittoria motivazione.

8. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio di soccombenza, come da dispositivo.

9. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione principale.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2018

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