Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26617 del 21/12/2016


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. II, 21/12/2016, (ud. 07/12/2016, dep.21/12/2016),  n. 26617

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AZIENDA AGRICOLA LIONA S.R.L., in persona del legale rappresentante

pro tempore, rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a

margine del ricorso, dagli Avv. Ugo Ruffolo, Giorgio Orsoni e L.

Marco Benvenuti, con domicilio eletto nello studio Ruffolo, in Roma,

corso Vittorio Emanuele II, n. 308;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, in persona

del Ministro pro tempore, e AGENZIA DEL DEMANIO, in persona del

legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi, per

legge, dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio eletto

presso gli Uffici di questa in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 184/09

depositata il 3 febbraio 2009;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 7

dicembre 2016 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;

uditi gli Avvocati Giorgio Orsoni, Ugo Ruffolo e L. Marco Benvenuti e

l’Avvocato dello Stato Lorenzo D’Ascia;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. Alessandro Pepe, che ha concluso per la rimessione

alle Sezioni Unite o per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con atto di citazione notificato il 14 luglio 1994, l’Azienda Agricola Liona s.r.l. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Venezia il Ministero delle finanze, il Ministero dei lavori pubblici e il Ministero dei trasporti e della navigazione per sentire accertare la sua proprietà del complesso vallivo denominato “(OMISSIS)”, costituito da terreni emersi e barene, nell’ambito della parte nord-orientale della laguna veneta, e per sentire accertare l’invalidità degli atti di diffida e di intimazione inviati dalle Amministrazioni convenute nonchè l’illecito comportamento tenuto dalle stesse, e dunque per sentirle condannare al risarcimento dei danni derivati dall’illecita affermazione della natura demaniale del bacino, allegando la natura privata della valle, regolarmente acquistata, e sempre appartenuta a soggetti privati.

Le predette Amministrazioni si costituivano chiedendo il rigetto delle domande nonchè, in via riconvenzionale, l’accertamento della demanialità del compendio vallivo, con condanna della società attrice al rilascio del bene ed al pagamento dell’indennità per l’occupazione senza titolo, da liquidarsi in separato giudizio.

Espletata la disposta c.t.u. ed intervenuta in giudizio l’Agenzia del demanio (divenuta titolare dei rapporti già facenti capo al Ministero delle finanze), il Tribunale di Venezia, con sentenza in data 24 maggio 2004, dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, accertava la proprietà della valle in capo al demanio dello Stato, ad eccezione dei pochi tratti di terra emersa; rigettava pertanto le domande della Azienda Agricola Liona; condanna l’Azienda Agricola Liona al rilascio del bene occupato senza titolo e al pagamento dell’indennità d’occupazione, da quantificarsi in separato giudizio.

Il Tribunale motivava che:

– le lagune sono beni rientranti nel demanio marittimo, ai sensi dell’art. 28 c.n., e ciò indipendentemente dalla loro concreta utilizzabilità per esigenze pubbliche;

– la demanialità della laguna veneta era già affermata nel R.D.L. n. 1853 del 1936, art. 1;

– la valle in questione è costituita per la quasi totalità da specchi acquei poco profondi, e presentante un’unica chiavica verso la laguna, controllata da paratoia, utilizzata per l’alimentazione della valle e la regolazione dei suoi livelli interni, non essendo state riscontrate modificazioni di rilievo – giusta la descrizione del c.t.u. prof. D.L. – rispetto allo stato dei luoghi accertato dal D.B. nel suo “catasto” del 1843, in cui la valle de qua veniva descritta quale valle chiusa a stagno;

– la valle attualmente risulta interclusa e non comunicante, se non per brevi periodi, con l’esterno;

– l’interruzione della comunicazione con la laguna (risalente a prima del 1843) non ha determinato la perdita della natura demaniale degli specchi acquei vallivi, non per l’assenza di un formale atto di sdemanializzazione, ma in quanto la chiusura di fatto realizzata non ha determinato la perdita definita ed irreversibile dei caratteri fisici che comportano, se funzionalmente orientati a soddisfare gli usi pubblici del mare, la demanialità (essendo sufficiente tener costantemente aperta la paratoia per restituire il bacino alla laguna);

la valle de qua è senz’altro suscettibile di un uso pubblico del mare, qual è la piscicoltura, risultando dunque idonea a quel particolare uso pubblico del mare che si identifica con la pesca, comprensiva anche delle attività di allevamento e cattura del pesce.

2. – Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 3 febbraio 2009, la Corte d’appello di Venezia ha rigettato l’appello della Azienda Agricola Liona.

La Corte territoriale ha evidenziato che le valli da pesca, costituenti parte del sistema lagunare a carattere unitario, erano di natura demaniale già in base alla normativa preunitaria, ed in specie al regolamento di polizia lagunare del 1841, rimasto in vigore fino al R.D.L. n. 1853 del 1936, natura confermata dalla L. n. 366 del 1963, ed ha affermato che l’area in contesa fa parte del demanio marittimo necessario, ex art. 28 c.n., lett. b), sia per la sua conformazione – trattandosi di bacini di acqua salsa o salmastra, comunicanti con il mare seppure con l’ausilio di meccanismi idraulici – sia perchè idonea ad essere utilizzata per la pesca e per la navigazione, con piccoli natanti, sia, infine, a salvaguardia dell’interesse primario di conservazione e tutela del fragile regime idraulico della laguna.

3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la Azienda Agricola Liona ha proposto ricorso, con atto notificato il 19 marzo 2010, sulla base di tredici motivi e di un ulteriore mezzo con cui si prospetta un’eccezione di illegittimità costituzionale.

Il Ministero dell’economia e delle finanze, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l’Agenzia del demanio hanno resistito con controricorso.

In prossimità dell’udienza la ricorrente ha depositato una istanza di differimento di udienza e di assegnazione del giudizio alle Sezioni Unite; ha depositato, altresì, una memoria illustrativa.

Ragioni della decisione

1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 12 preleggi, nonchè degli artt. 822 c.c. e ss. e art. 28 c.n. e ss., anche in quanto applicati in collegamento con il regolamento austriaco del 20 dicembre 1841 (“regolamento per impedire i danni che vengono recati alla laguna di Venezia”), con i paragrafi 285, 287, 290, 311, 355, 1455, 1454, 1456 e 1472 c.c. austriaco all’epoca vigente, con la L. n. 3706 del 1877, artt. 1 e 16 con gli artt. 76 e 80 del regolamento per la pesca marittima, approvato con R.D. 13 novembre 1882, n. 1090, con il R.D. 22 settembre 1905, n. 546, con il R.D.L. 18 giugno 1936, n. 1853, artt. 6 e 41 con la L. 31 ottobre 1942, n. 1471, con la L. n. 366 del 1963, art. 9. Secondo la ricorrente, la demanialità del bene non può essere desunta dall’asserita demanialità alla stregua di altro ordinamento precedentemente vigente; in ogni caso, nel diritto austriaco vigente nel Veneto preunitario, i beni oggetto di proprietà pubblica potevano essere suscettibili di legittima acquisizione da parte dei privati, non vigendo un regime dei beni demaniali equivalente a quello del nostro ordinamento positivo; il regolamento austriaco del 20 dicembre 1841 deve essere interpretato nel senso che lo stesso non stabilisce la demanialità della laguna di Venezia, limitandosi a dettare una mera disciplina di polizia lagunare.

1.1. – Il motivo è infondato.

La Corte di Venezia ha rilevato “come già all’epoca del regolamento approvato dal competente organo dell’Impero (giusta dispaccio 8 ottobre 1841 della cancelleria aulica e pubblicato con notificazione 20 dicembre 1841), la laguna era considerata demanio pubblico, nel senso attuale di bene appartenente al demanio marittimo necessario che l’art. 28 c.n. individua in beni di origine naturale, la cui proprietà non può che essere pubblica, e quindi distinti da quelli per i quali la demanialità è condizionata dalla loro appartenenza allo Stato”. In detto regolamento – precisa la Corte territoriale – “risulta, invero, espressamente affermata la demanialità della laguna, concepita quale sistema comprendente anche le valli da pesca; la laguna difatti è descritta quale “seno di acqua salsa che si estende dalla foce del (OMISSIS), che è compreso tra il mare e la terrafermà e presenta, quindi, quelle caratteristiche di unitarietà che non consentono di enucleare singoli beni acquei in esso ricadenti, al fine di farne risultare caratteristiche differenti”.

Tanto premesso, la doglianza con cui si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione di legge in riferimento a normativa preunitaria, e comunque non più in vigore, non coglie la ratio decidendi, perchè la Corte d’appello non è affatto venuta meno al dovere di compiere l’indagine in ordine al carattere demaniale della (OMISSIS) in riferimento all’art. 28 c.n., lett. b).

L’impugnata sentenza ha affermato la natura demaniale della laguna di Venezia anche muovendo dalle disposizioni del regolamento di polizia adottato dal competente organo dell’Impero austroungarico nel 1841, in conformità dei p. 287 e 1455 c.c. austriaco, e questa affermazione ha già superato il vaglio delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U., 18 febbraio 2011, n. 3937); a ciò aggiungasi che a tale riferimento deve attribuirsi un valore meramente storico -ricostruttivo – essendo il regolamento rimasto in vigore fino all’emanazione della L. n. 191 del 1937 – nel senso di avere evidenziato come, già in base alla normativa previgente, la laguna, e le valli da pesca in essa ricadenti, erano considerate demanio pubblico nel senso attuale di bene appartenente al demanio marittimo necessario, che l’art. 28 c.n. individua in beni di origine naturale, la cui proprietà non può che essere pubblica, e perciò distinti da quelli per i quali la demanialità è condizionata dalla loro appartenenza allo Stato.

La notazione della Corte di Venezia rileva, invero, sul piano fattuale, nel senso che dalla stessa si desume che, anche nel diciannovesimo secolo, le valli da pesca appartenevano, sotto il profilo geofisico, al sistema lagunare di carattere unitario, sistema che, nel preambolo del citato regolamento, veniva appunto descritto quale “seno di acqua salsa che si estende dalla foce del (OMISSIS), che è compreso tra il mare e la terraferma”.

La sentenza impugnata afferma infatti, in particolare, che, in detto regolamento, la laguna presenta “quelle caratteristiche di unitarietà che non consentono di enucleare singoli beni acquei in esso ricadenti, al fine di farne risultare caratteristiche differenti”.

Come già osservato da questa Corte in vicenda similare (Cass., Sez. 1, 28 gennaio 2016, n. 1619), la ricostruzione di natura storico-giuridica appare funzionale all’affermazione della nullità, derivante dall’accertata natura demaniale, degli atti di disposizione relativi ai beni in questione, nonchè all’esclusione di un eventuale carattere espropriativo dell’art. 28 c.n., lett. b).

In ogni caso, anche le specifiche previsioni del regolamento richiamate in ricorso non appaiono in grado di confutare la natura pubblica demaniale delle valli da pesca, in quanto deve ritenersi che, là dove si fa riferimento alla qualità del proprietario, si abbia riguardo a quelle porzioni della laguna non costituite da spazi acquei, e che, là dove si richiamano i diritti o titoli legittimi, lungi dal sottintendere il rinvio al diritto di proprietà, si intenda in realtà riferirsi all’attribuzione di un diritto di sfruttamento esclusivo, che ben può derivare da provvedimenti aventi carattere concessorio, come tali presupponenti, a monte, la natura pubblica del bene suscettibile di fornire particolari utilità.

2. – Il secondo mezzo (ulteriore violazione e falsa applicazione degli artt. 822 c.c. e ss. e 28 c.n. e ss., anche in relazione alla pregressa condizione giuridica dei luoghi quale risultante dal regolamento austriaco del 20 dicembre 1841, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione con riferimento all’accertamento in concreto delle caratteristiche fisiche della valle da pesca oggetto del giudizio che avrebbero determinato la demanialità degli specchi acquei della medesima) contesta la legittimità dell’interpretazione seguita dalla Corte d’appello, comportante, di fatto, la perdita della privata proprietà di un bene da parte di chi è stato sempre considerato (in forza dei titoli di acquisto risalenti nei secoli, del possesso pacifico ed incontestato nel tempo, dei conformi dati catastali – di catasti aventi anche valore reale -, con atti e provvedimenti della P.A. e mediante l’esazione di tasse sulla proprietà) legittimo proprietario; deduce, altresì, la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, che da una parte afferma la necessità di un accertamento in concreto delle caratteristiche fisiche dello specifico bene ai fini della sua qualificazione come demaniale e, dall’altra, con riferimento all’accertamento della demanialità degli specchi acquei di (OMISSIS), omette del tutto tale accertamento, affermandone la demanialità in quanto facenti parte “normativamente” della laguna di Venezia.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dei principi attinenti all’operatività, nel caso di specie, dell’istituto dell’immemorabile, e la nullità della sentenza per omessa pronuncia con riferimento alla medesima questione.

Il quarto motivo lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 28 c.n. in relazione all’appartenenza della valle da pesca alle categorie di beni elencate in detta disposizione. Premesso che la valutazione sull’esistenza dei caratteri della demanialità andava effettuata con riguardo alla situazione di fatto attuale, e non con riguardo a situazioni passate e non più corrispondenti alla realtà al momento dell’operare delle norme costitutive della demanialità, e rilevato che le norme sulla conterminazione della laguna non attengono alla delimitazione della demanialità, ma determinano unicamente l’area entro la quale si applicano le norme di polizia idraulica dettate per la laguna di Venezia, la ricorrente ritiene violato l’art. 28 c.n., perchè la sentenza: (a) ha interpretato il requisito della libera comunicazione con il mare nel senso che la stessa possa riscontrarsi in presenza di una mera permeabilità delle strutture di conterminazione degli specchi acquei la cui demanialità è contestata, pur se questi sono caratterizzati da requisiti fisici – quali la salinità, profondità e temperatura – che ne differenziano sostanzialmente l’ambiente da quello della laguna aperta; (b) ha affermato l’indispensabile elemento fisico-morfologico della comunicazione con il mare di un bene di cui è contestata la demanialità, separatamente e non in connessione alla sua attitudine ai pubblici usi del mare, ovvero, senza accertare il requisito fisico-morfologico della libera comunicazione con il mare in senso finalistico-funzionale, e, cioè, nel senso che la comunicazione con il mare determini la sua attitudine ai pubblici usi del mare; (c) pur riconoscendo la legittimità degli interventi di chiusura della valle da pesca, precedenti o successivi alla entrata in vigore del codice della navigazione, ne ha affermato la perdurante demanialità.

Con il quinto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 28 c.n. e ss. con riferimento all’accertamento della idoneità della valle agli usi pubblici del mare, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia attinente sempre all’accertamento della pretesa attitudine degli specchi acquei di (OMISSIS) ai pubblici usi del mare. Erroneamente la Corte d’appello avrebbe accertato la demanialità dei beni in contestazione, benchè essi siano legittimamente chiusi prima della entrata in vigore delle norme sulla demanialità e siano sede soltanto di attività imprenditoriali di vallicultura, diverse dalla pesca vagantiva. Erroneamente, inoltre, la demanialità sarebbe stata accertata sulla scorta della loro pretesa attitudine alla navigazione, intesa quale pubblico uso del mare, considerando tale anche quella praticata in acque poco profonde di un bacino completamente chiuso ed arginato. Ad avviso della ricorrente, incorre in violazione dell’art. 28 c.n. e degli artt. 3, 42 e 97 Cost. la sentenza che accerta la demanialità degli specchi acquei di una valle da pesca della laguna di Venezia sulla scorta della loro pretesa attitudine alla conservazione e tutela del regime idraulico della laguna di Venezia, intesa nel senso di necessaria demanialità di tutti i beni pretesamente atti allo scopo. L’accertamento della demanialità sarebbe in aperto contrasto con gli esiti della c.t.u.

Con il sesto motivo si denuncia la nullità della sentenza della Corte d’appello per indeterminatezza dell’oggetto nella parte in cui genericamente dichiara la demanialità della valle denominata (OMISSIS) ad accezione di pochi tratti di terra emersa, omettendo di individuarne le singole particelle catastali.

Il settimo motivo è rubricato violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all’art. 2697 c.c., all’art. 115 c.p.c. e art. 28 c.n. In assenza di alcun elemento probatorio circa la effettiva comunicazione con il mare degli specchi acquei della valle da pesca e la loro attitudine agli usi pubblici del mare, la Corte di Venezia avrebbe fondato la propria pronuncia su una asserzione (la possibile comunicazione degli specchi acquei con la laguna) in contrasto con gli stessi esiti della espletata c.t.u., senza motivare le ragioni in forza delle quali ha ritenuto di doversi discostare dagli stessi. Ad avviso della Azienda Agricola, inoltre, nel decidere la controversia, i giudici del merito avrebbero omesso di valutare le prove addotte dalla ricorrente a sostegno della privata proprietà dei beni controversi in ragione della pretesa demanialità degli stessi fondata non su un concreto esame delle caratteristiche fisiche, bensì sulla sola contestata interpretazione del regolamento austriaco del 20 dicembre 1841.

Con l’ottavo motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 28 c.n. nella parte in cui la sentenza impugnata ha deciso sulla base di una causa petendi non prospettata da alcuna delle parti con riguardo alla pretesa demanialità della valle perchè “in collegamento con la laguna aperta” e perchè idonea alla pesca ed alla navigazione (trattandosi di causa petendi mai prospettata, ed ancor meno provata, dalla P.A. agente in riconvenzionale).

Il nono motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 822, 823 e 948 c.c., art. 28 c.n., lett. b), artt. 32 e 35 c.n., della L. n. 191 del 1937 e della L. n. 1471 del 1942, in particolare agli artt. 66 e 67, errata interpretazione e violazione della L. n. 366 del 1963, artt. 2 e 24 e violazione dell’art. 42 Cost. in relazione alle normative sopra richiamate con riferimento al regime speciale per la laguna di Venezia. La ricorrente si duole che la Corte distrettuale abbia affermato la demanialità di degli specchi acquei di una valle da pesca della laguna veneta legittimamente chiusa, malgrado le richiamate norme ne presuppongano la proprietà privata.

2.1. – I motivi dal secondo al nono – da esaminare congiuntamente, stante la stretta connessione – sono infondati.

L’impugnata sentenza ha accertato – con congruo e motivato apprezzamento delle risultanze di causa – la natura demaniale della (OMISSIS) alla stregua dell’art. 28 c.n., lett. b), secondo cui fanno parte del demanio marittimo “le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell’anno comunicano liberamente col mare”.

Gli spazi acquei in contesa – ha rilevato la Corte d’appello – sono bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell’anno ben possono comunicare liberamente con il mare, seppure con l’azionamento dei meccanismi idraulici approntati dal privato, e per i quali permane anche l’idoneità a soddisfare gli usi marittimi, in particolare la pesca e la navigazione (sia pure solo con modeste imbarcazioni).

Nello specifico – ha precisato la Corte territoriale – la valle in questione – già descritta nel c.d. catasto D.B. negli anni 1843-1844 quale valle “arginata” e “conterminata su buona parte del perimetro da strutture fisse (argini in terra) che si appoggiavano al dosso naturale di (OMISSIS)” – presentava negli argini esterni una chiavica, affacciantesi sul (OMISSIS), costituente l’unico varco di comunicazione delle acque interne con la laguna; negli anni successivi l’assetto dei luoghi dovette subire varie modifiche, essendo stato dal c.t.u. evidenziato che dalla disamina della carta idrografica della laguna dei primi anni del ‘900 le zone di barena risultano sensibilmente meno estese; in tempi più recenti la valle fu oggetto dei provvedimenti del 10 agosto 1943 del Magistrato delle acque, relativi all’approvazione dei “piani organici” delle opere ritenute adatte al miglioramento delle valli sotto il profilo idrodinamico.

La Corte di Venezia ha in particolare accertato che l’attuale e risalente chiusura a stagno della valle, per la presenza di un’arginatura continua, non si rileva idonea a determinare una completa e definitiva separazione dal resto della laguna, in realtà mantenuta dalla chiavica (a chiusura di un varco largo circa 2 metri), presidiata da una paratoia e da griglie, e che è tenuta aperta in taluni periodi dell’anno, al fine di consentire lo scambio con le acque della laguna, a seconda delle necessità stagionali dell’attività di piscicoltura intensiva praticata negli specchi acquei interni.

La Corte d’appello ha quindi accertato la demanialità dei menzionati beni acquei tanto in relazione alle caratteristiche fisiche dell’area quanto in funzione della loro attitudine a realizzare gli interessi che attengono ai pubblici usi del mare, in particolare la pesca (anche se da tempo di fatto sostituita dalla specifica attività della piscicoltura, esercitata in modo esclusivo mediante la disposta chiusura, effettuata per scelta produttiva della parte privata, sì che il privato preleva l’acqua dalla laguna, o scarica in essa le acque interne, azionando le paratoie della chiavica, a seconda delle sue esigenze produttive stagionali) e la navigazione (quest’ultima, ovviamente, solo con modeste imbarcazioni).

Tale accertamento di fatto, riservato al giudice del merito, resiste alle critiche che ad esso sono state rivolte dalla ricorrente, avendo la Corte distrettuale reso ampia e adeguata motivazione sui punti rilevanti ai fini dell’accertamento della demanialità (cfr., in vicenda analoga, Cass., Sez. 1, 1 luglio 2015, n. 13519), avendo accertato che si è di fronte a bacini acquei che sarebbero rimasti, in assenza dell’intervento dell’uomo, pur sempre in collegamento con la laguna aperta e quindi con il mare, e per i quali permane l’idoneità a soddisfare gli usi marittimi, in particolare la pesca e, nei termini suindicati, la navigazione.

E si tratta di un accertamento che la Corte di Venezia ha compiuto avendo riguardo anche all’attuale situazione: nel pieno rispetto dell’insegnamento secondo cui la sussistenza delle caratteristiche in concreto previste dal legislatore deve essere verificata all'”attualità” (Cass., Sez. U., 18 febbraio 2011, n. 3937, cit.).

Deve, al riguardo, condividersi la considerazione secondo cui la natura demaniale di un bene non può cessare per effetto di mere attività materiali eseguite da soggetti privati. D’altra parte, la chiusura dei bacini vallivi doveva essere temporanea e rinnnovabile di anno in anno, ai sensi dell’art. 59 del citato regolamento di epoca austriaca (e nello stesso cfr. il R.D. n. 1853 del 1936, artt. 45 e ss.); e nella stessa relazione D.B. era sottolineata la presenza di scavi abusivi da peschiere, chiuse da robusti argini di presidio, eretti senza concessione, e sollecitata la relativa distruzione, a conferma del perdurante interesse al mantenimento del dominio pubblico. E le Sezioni Unite di questa Corte, nella citata sentenza n. 3937 del 2011, hanno già convalidato l’affermazione del giudice del merito, resa in una vicenda similare, secondo cui la chiusura della valle con la costruzione di argini con chiaviche non è idonea a determinare un’effettiva separazione dal resto della laguna, in quanto la demanialità naturalmente acquisita da tempo immemorabile con l’espandersi delle acque lagunari non può cessare per effetto di mere attività materiali eseguite da soggetti privati, sia pure nell’inerzia o con la tolleranza degli organi pubblici. In sostanza, gli ostacoli non naturali frapposti alla libera espansione del mare non sono idonei, ex se, a trasformare il demanio in allodio.

D’altra parte, non sono decisivi in senso contrario la presenza di titoli di acquisto dei beni acquei in questione, l’esercizio, su di essi, del “possesso” da parte di privati, il fatto che tali beni siano stati riportati nei registri catastali e che per essi la P.A. abbia esatto tasse sulla proprietà. Infatti – a differenza di quanto previsto dall’art. 829 c.c., che attribuisce natura dichiarativa al passaggio di un bene dal demanio al patrimonio – per i beni appartenenti al demanio marittimo non è possibile che si realizzi la sdemanializzazione in forma tacita, essendo necessaria, ai sensi dell’art. 35 c.n., l’adozione di un espresso e formale provvedimento della competente autorità amministrativa, avente carattere costitutivo: di talchè nella specie non può neppure giovare l’invocato istituto dell’immemorabile o l’inerzia dell’ente proprietario (Cass., Sez. 2, 11 maggio 2009, n. 10817). I titoli di proprietà e le ragioni di possesso, nonchè le iscrizioni e le descrizioni catastali, cedono rispetto al fatto della demanialità naturale marittima.

Sotto altro profilo, il Collegio deve senz’altro ribadire il principio secondo cui l’indispensabile elemento fisico morfologico della comunicazione con il mare non costituisce di per sè solo il fattore decisivo e qualificante della demanialità, ma deve essere accertato e valutato in senso finalistico-funzionale, in quanto, cioè, si presenti tale da estendere al bacino di acqua salmastra le stesse utilizzazioni cui può adempiere il mare, rilevando la complessiva idoneità del bene, secondo la sua oggettiva conformazione fisica, a servire ai pubblici usi del mare (Cass., Sez. 1, 28 gennaio 2016, n. 1619; Cass., Sez. 1, 19 maggio 2016, n. 10337).

Se, dunque, è l’attitudine a servire agli usi del mare a costituire il criterio delimitativo dell’estensione dei beni demaniali marittimi e tale funzione costituisce la ratio e il limite per l’affermazione del loro carattere demaniale, tale carattere è rimasto in conclusione accertato, in riferimento all’attività di piscicoltura e alla percorribilità delle acque con piccoli natanti. Si è infatti in presenza di bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell’anno ben possono comunicare liberamente con il mare (seppure con l’azionamento dei meccanismi idraulici approntati dai privati), dove permane l’idoneità a soddisfare gli usi marittimi, in particolare la pesca e la navigazione (v., in fattispecie similare, Cass., Sez. U., 18 febbraio 2011, n. 3936).

Le valutazioni espresse dal giudice del merito, con congruo e motivato apprezzamento e tenendo conto della situazione dei luoghi emergente dalle risultanze probatorie, circa l’utilizzabilità degli specchi d’acqua vallivi in questione per l’attività della pesca e per la navigazione con piccoli natanti si risolvono in accertamenti di fatto qui non ulteriormente sindacabili. La parte ricorrente, pur lamentando formalmente una plurima violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, tende, in realtà, ad una (non ammissibile in sede di legittimità) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito. Sotto questo profilo la parte ricorrente, lungi dal prospettare a questa Corte vizi della sentenza rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, invoca, piuttosto, una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo così all’impugnata sentenza censure che non possono trovare ingresso in questa sede, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Non sussiste neppure la lamentata nullità della sentenza per indeterminatezza dell’oggetto della demanialità. La sentenza impugnata si dà infatti cura di precisare che l’accertata demanialità della valle da pesca riguarda i beni vallivi da intendersi in senso stretto, ossia tutti gli spazi occupati dalle acque, con esclusione delle terre emerse (e di quanto sulle stesse edificato), le quali all’evidenza non costituiscono bacini lagunari di acqua salsa o salmastra in senso stretto.

Nè sussiste il lamentato vizio di extrapetizione, prospettato dai ricorrenti sulla base di una presunta diversità tra demanialità lagunare e demanialità marittima.

Va poi rilevato, conclusivamente, che, proprio in relazione alle valli da pesca della laguna di Venezia, le Sezioni Unite di questa Corte, in fattispecie sovrapponibili a quella oggetto del presente giudizio, hanno respinto censure corrispondenti a quelle qui riproposte (sentenza 14 febbraio 2011, n. 3665; sentenza 16 febbraio 2011, n. 3811; sentenza 18 febbraio 2011, n. 3936; sentenza 18 febbraio 2011, n. 3937), con argomentazioni fondate anche sui principi costituzionali relativi alla tutela del paesaggio e dell’ambiente.

3. – Con il decimo motivo si censura violazione e falsa applicazione di norme di diritto, là dove la Corte di Venezia ha confermato la statuizione della sentenza di primo grado relativa alla condanna della ricorrente al pagamento dell’indennità di occupazione del suolo richiesta in via riconvenzionale. Vi sarebbe violazione degli artt. 112 e 167 c.p.c. e art. 24 Cost. perchè la Corte d’appello, pronunciando una condanna generica, avrebbe omesso di decidere sulla eccepita nullità ed inammissibilità della relativa domanda ri-convenzionale per assoluta indeterminatezza della stessa, ritenendo sufficiente, per la pronuncia di condanna generica, non un effettivo accertamento dei presupposti di fatto e di diritto per l’accoglimento della relativa domanda, ma, semplicemente, il mero accertamento di potenziale idoneità lesiva. La Corte di Venezia avrebbe omesso di pronunciarsi sulla eccepita assenza dei requisiti essenziali della condanna generica, ivi compreso l’elemento soggettivo, rinviando alla successiva fase di liquidazione gli accertamenti relativi alla esistenza concreta del danno, della sua reale entità e del rapporto di causalità.

3.1. – Il motivo non è fondato.

Non sussiste la denunciata inammissibilità o nullità della domanda riconvenzionale, giacchè questa è stata formulata con una precisa causa petendi, essendo stata la domanda di condanna al pagamento di una indennità risarcitoria per l’occupazione senza titolo della valle prospettata in ragione della natura demaniale della valle da pesca.

E non v’è dubbio, d’altra parte, che la privazione del possesso conseguente all’occupazione senza titolo di una valle da pesca appartenente al demanio necessario costituisce un fatto potenzialmente causativo di effetti pregiudizievoli.

Inoltre, ai fini della pronuncia di condanna generica al pagamento della chiesta indennità è sufficiente l’accertamento della potenzialità lesiva derivante dalla concreta totale sottrazione da parte del privato degli spazi acquei della valle (cfr. Cass., Sez. Il, 13 settembre 2012, n. 15335), mentre la prova dell’esistenza concreta del danno (in riferimento a tutti i suoi presupposti, compresa la ricorrenza dell’elemento psicologico), della reale entità di esso e del rapporto di causalità è riservata alla successiva fase di liquidazione (Cass., Sez. 1, 12 ottobre 2007, n. 21428; Cass., Sez. 1, 19 maggio 2016, n. 10337, cit.).

4. – Con l’undicesimo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., della L. n. 2248 del 1865, all. E, artt. 2, 4 e 5, della L. n. 1034 del 1971, art. 3 nonchè della L. n. 241 del 1990, artt. 7, 8 e 10 per eccesso di potere, per assoluto difetto di istruttoria ed insufficiente motivazione oltre che con riferimento al principio di buona ed efficiente azione amministrativa e a quello generale del divieto di venire contra factum proprium. Il quesito che correda il motivo è se violi l’art. 112 c.p.c. la sentenza impugnata nella parte in cui non ha preso in esame gli atti di diffida al pagamento di somme di denaro e contestativi dell’altrui proprietà e omettendo di giudicare su una presentata domanda di accertamento della loro illegittimità in relazione alla L. n. 1034 del 1971, art. 3 per violazione della L. n. 241 del 1990, artt. 7, 8 e 10 per eccesso di potere, per assoluto difetto di istruttoria e di insufficiente motivazione oltre che per violazione del principio di buona ed efficiente azione amministrativa e di quello generale del divieto di venire contra factum proprium.

4.1. – Il motivo è infondato.

La legittimità della diffida a cessare l’occupazione discende implicitamente dall’accertamento della demanialità del compendio vallivo.

Quanto alla intimazione a risarcire il danno quantificato negli atti dell’Amministrazione, non sussiste la lamentata omessa pronuncia, perchè la Corte d’appello – dopo avere precisato che le Amministrazioni non hanno dato alcun seguito alle suddette diffide, già impugnate avanti al giudice amministrativo – ha affermato che la questione è definibile in sede civilistica solo nel separato giudizio avente ad oggetto la quantificazione del danno, restando in definitiva la pronuncia assorbita.

5. – Il dodicesimo motivo denuncia, in primo luogo, violazione degli artt. 822, 948 e 2043 c.c., artt. 28 e 32 c.n., della L. n. 191 del 1937, 4, 66 e 67, della L. n. 366 del 1963, artt. 2, 9 e 24 chiedendosi se sia meritevole di tutela, anche risarcitoria, la lamentata lesione dell’affidamento ingenerato dalla condotta della P.A. resistente, mediante fatti, atti e provvedimenti amministrativi, sulla legittimità del titolo e possesso della ricorrente sui beni dichiarati demaniali dalla Corte d’appello. Sarebbero inoltre violati gli artt. 101, 112 e 345 c.p.c., per avere il giudice ritenuto mutata la causa petendi di una domanda di risarcimento del danno che nel corso del giudizio è sempre stata prospettata dall’attore come avente per presupposto la negligenza dello Stato nell’avere affermato solo tardivamente la natura demaniale di un bene. Con il motivo ci si duole, infine, che la Corte di Venezia non abbia sufficientemente motivato in ordine ai fatti che potevano eliminare la responsabilità aquiliana.

5.1. – Il motivo è infondato.

E’ assorbente la prima ratio decidendi che sostiene la statuzione impugnata, ratio secondo cui “la pretesa risarcito-ria della parte privata non trova alcun sostegno, sotto il profilo che non è ravvisabile qualsivoglia illecito da parte delle Amministrazioni nel far valere il diritto dello Stato sui beni in questione, apparendo a tal riguardo speciosa la protesta per l’inerzia mostrata in passato dagli organi pubblici”.

Si tratta di statuizione che va esente dalle censure formulate, stante l’insussistenza di alcun illecito nell’attività delle Amministrazioni volta a far valere, ed in ogni tempo, il diritto dello Stato sulla valle da pesca, costituente bene demaniale, ed essendo privo di effetto, nei confronti dell’Amministrazione, il possesso di beni appartenenti al demanio marittimo. Il rigetto della domanda della Azienda Agricola è conseguente all’accertamento della natura demaniale della valle e alla esclusione della sua natura privata.

6. – Con il tredicesimo motivo si prospetta omessa e comunque contraddittoria e insufficiente motivazione nella parte in cui la sentenza ha dichiarato la carenza di legittimazione passiva dell’Amministrazione delle infrastrutture e dei trasporti, già Amministrazione dei lavori pubblici, dei trasporti e della navigazione.

6.1. – Il motivo è inammissibile per difetto di interesse. Poichè tanto la domanda di accertamento della proprietà privata quanto quella di risarcimento del danno nei confronti della P.A. sono state dichiarate infondate dal giudice del merito con statuizioni che resistono alle censure articolate con il ricorso per cassazione, la ricorrente non ha un interesse concreto ed attuale a che il contraddittorio sia instaurato anche nei confronti dell’Amministrazione delle infrastrutture e dei trasporti.

7. – Infine, la ricorrente eccepisce, in riferimento agli artt. 3, 42, 43 e 97 Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 28 c.n. nonchè della L. n. 366 del 1963, nella parte in cui non prevedono la corresponsione di alcun indennizzo nell’ipotesi di sdemanializzazione di beni già in proprietà dei privati e nella parte in cui “espropriano” pur in carenza di un corrispondente adeguato interesse pubblico e sociale.

7.1. – All’esame del motivo occorre premettere che l’accertamento della natura demaniale della valle non si pone in contrasto con la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, resa il 23 settembre 2014 nella controversia Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.a. c. Italia.

Ed, infatti, la Corte EDU non smentisce affatto la demanialità della valle da pesca, affermata dalle Sezioni Unite, nella citata sentenza 18 febbraio 2011, n. 3937.

Al contrario, la CEDU espressamente afferma (par. 65) che “Nel caso di specie, dopo aver studiato, alla luce delle relazioni peritali, le caratteristiche morfologiche e funzionali della (OMISSIS), i giudici interni hanno concluso che quest’ultima era un bacino d’acqua che comunicava con il mare ed era idoneo agli usi pubblici di quest’ultimo, e che faceva dunque parte del demanio pubblico marittimo in virtù dell’art. 28 c.n. (par. 9, 10, 14, 15 e 21). La dichiarazione di demanialità del “bene” della ricorrente aveva dunque una base legale sufficiente nel diritto italiano”; ed aggiunge (par. 45) di non poter sostituire, in assenza di una manifesta arbitrarietà, la propria valutazione a quella dei tribunali interni.

Semplicemente, la Corte di Strasburgo ne prescinde: muovendo dal presupposto (par. 37) che “la nozione di “beni” evocata nella prima parte dell’art. 1 del Protocollo n. 1 ha una portata autonoma che non si limita alla proprietà di beni materiali ed è indipendente dalle qualificazioni formali del diritto interno”, ritiene (par. 46) che la questione della demanialità della valle da pesca “non sia determinante ai fini dell’applicabilità dell’art. 1 del Protocollo n. 1”, per esser “possibile avere un “bene” nel senso di questa stessa disposizione in caso di revoca di un titolo di proprietà, a condizione che la situazione di fatto e di diritto precedente a questa revoca abbia conferito al ricorrente un’aspettativa legittima, collegata a interessi patrimoniali, sufficientemente importante per costituire un interesse sostanziale tutelato dalla Convenzione”. Quindi, dopo aver evidenziato che l’ingerenza effettuata dall’amministrazione pubblica “soddisfaceva la condizione di legalità e non era arbitraria”, la Corte ha affermato, in relazione a parecchi elementi non contestati dal Governo (indicati al par. 46), la sussistenza della titolarità in capo alla parte ricorrente di un interesse del tipo enunciato, e ha, quindi, stabilito esservi stata violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, evidenziando esser dovuto un risarcimento per la misura di ingerenza (privazione del bene – nell’accezione anzidetta – in assenza di alcun indennizzo), onde mantenere un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo.

La misura risarcitoria per il conseguimento di detto giusto equilibrio – la cui richiesta nella fattispecie dovrebbe ricavarsi implicitamente dal dedotto diritto di proprietà privata sui beni in contestazione da parte della Azienda Agricola, comportante il diritto alla gestione economica delle valli da pesca – non può, tuttavia, esser oggetto di dibattito in questa sede.

Il Collegio rileva che il riconoscimento di detta misura presuppone, in base alla menzionata sentenza, anzitutto, lo svolgimento, in contraddittorio con le Amministrazioni controricorrenti (art. 111 Cost. e art. 6 Convenzione EDU), di indagini di fatto inerenti l’accertamento della titolarità in capo alla parte ricorrente “di un’aspettativa legittima collegata ad interessi patrimoniali” tutelata dalla Convenzione, indagini che i paragrafi 46 e segg. della sentenza indicano: a) nell’esistenza di un titolo formale di proprietà, ricevuto da un notaio e registrato nei registri immobiliari; b) nella prassi esistente da lunga data, che consiste nel riconoscere ai privati dei titoli di proprietà sulle valli da pesca e nel tollerare da parte loro un possesso e un utilizzo continui di questi beni; c) nel pagamento delle imposte fondiarie; d) nell’attività di impresa svolta nel sito dalla ricorrente.

Queste indagini non sono state compiute nei pregressi gradi di merito; e soprattutto involgono la deduzione di una diversa causa petendl: fondata non già, come avvenuto nella presente controversia, sulla responsabilità da fatto illecito in ragione della illegittima affermazione della demanialità di un compendio di proprietà privata, ma, piuttosto, sulla dannosità della legittima ingerenza dell’Amministrazione, per avere questa, nel quadro di una lecita richiesta di accertamento e rivendicazione della demanialità del bene pubblico, tuttavia imposto al privato un onere sproporzionato ed eccessivo, non riconoscendo in favore dello stesso alcun indennizzo per la privazione della legittima aspettativa radicatasi nel tempo e non adottando alcuna misura per ridurre l’impatto economico dell’ingerenza.

Resta fermo ed impregiudicato il diritto della ricorrente di chiedere nelle competenti sedi il riconoscimento di una prestazione economica per il conseguimento di detto giusto equilibrio, e di documentarne tutti i presupposti richiesti dalla Corte europea al fine di averne riconosciuta la spettanza: e ciò sia con un giudizio autonomo, avente appunto una diversa causa petendi, sia in quello, eventuale, conseguente alle statuizioni adottate in questo, con cui le Amministrazioni chiedano la concreta liquidazione dei danni sofferti per avere avuto sottratta la disponibilità delle valli da pesca in oggetto.

A tale stregua, il dubbio di costituzionalità dell’art. 28 c.n. e delle norme collegate, in riferimento agli artt. 3, 42, 43 e 97 Cost., risulta privo di rilevanza nel presente giudizio.

Questo giudizio è infatti essenzialmente incentrato sulla questione della demanialità del compendio vallivo, demanialità che, come si è detto, non è stata affatto smentita dalla Corte di Strasburgo e che non pregiudica la questione di cui si è invece occupata la sentenza della CEDU, relativa alla spettanza di un indennizzo per la misura di ingerenza adottata dall’Amministrazione: costituendone anzi l’indispensabile presupposto, individuato dalla stessa Corte europea proprio nella circostanza che “la dichiarazione di demanialità del ‘benè della ricorrente aveva dunque una base legale sufficiente nel diritto italiano” (par. 65 cit.) e conseguentemente nel rilievo che “l’ingerenza in questione soddisfaceva la condizione di legalità e non era arbitraria” (par. 74) (in questi stessi termini, Cass., Sez. I, 19 maggio 2016, n. 10337, cit.).

Non è pertanto condivisibile quanto sostenuto dalla difesa di parte ricorrente nella memoria in prossimità dell’udienza e in sede di discussione, che cioè la sentenza della Corte di Strasburgo investirebbe e condizionerebbe il momento attributivo della demanialità, la quale non sarebbe più tale naturalmente e automaticamente, ma abbisognerebbe – attraverso un adeguamento dell’art. 28 c.n. e delle norme collegate per mezzo di una pronuncia di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost. – di una dichiarazione costituiva ed ablativa quanto meno nelle situazioni nelle quali si è creato un legittimo, ed opposto, affidamento del privato.

Va infatti al riguardo ribadito che il giusto equilibrio richiesto dalla pronuncia della Corte EDU si colloca per così dire a valle della demanialità accertata e dichiarata secondo la disciplina interna (art. 28 c.n., in relazione all’art. 822 c.c.), la quale in sè soddisfa la condizione di legalità e di non arbitrarietà dell’ingerenza.

8. – Resta da aggiungere che, essendo la statuizione sulla natura demaniale della valle da pesca coerente con i principi posti dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, sopra menzionata, giurisprudenza in sè non superata, per gli aspetti che vengono in rilievo nel presente giudizio, dalla pronuncia della CEDU nel caso (OMISSIS) (Cass., Sez. 1, 19 maggio 2016, n. 10337, cit.), la richiesta di rimessione a detto consesso – inoltrata al Primo Presidente della Corte e reiterata, da ultimo, in sede di memoria ex art. 378 c.p.c. e nell’udienza di discussione – deve essere disattesa.

Parimenti non può essere accolta la richiesta avanzata dal pubblico ministero di investire le Sezioni Unite perchè forniscano un chiarimento sul requisito dell’accertamento all'”attualità” delle caratteristiche che gli specchi acquei devono presentare per poter essere ricompresi nel demanio pubblico marittimo: si tratta infatti di un profilo in ordine al quale non è ravvisabile contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.

Egualmente – stante la pendenza del ricorso in cassazione da oltre sei anni – non può essere accolta l’istanza di differimento per facilitare una chiusura conciliativa della vertenza, chiusura che allo stato neppure è data per imminente.

9. – Il ricorso è rigettato.

La complessità delle questioni trattate giustifica l’integrale compensazione delle spese di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 7 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2016

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA