Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26604 del 12/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/12/2011, (ud. 10/11/2011, dep. 12/12/2011), n.26604

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato SIGILLO’ MASSARA GIUSEPPE, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

TARQUINIA 5/D presso lo studio degli avvocati RIOMMI MAURIZIO e

MICHELI CARLO (Studio Avv.to FALLA TRELLA MARIA LUISA), che la

rappresentano e difendono, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 127/2007 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 30/04/2007 R.G.N. 458/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega SIGILLO’ MASSARA GIUSEPPE;

udito l’Avvocato GALLEANO SERGIO per delega RIOMMI MAURIZIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

IN FATTO E DIRITTO

La Corte, premesso che il Collegio ha disposto, all’esito dell’odierna udienza, la redazione motivazione della presente sentenza in forma semplificata;

rilevato che:

il giudice d’appello di Perugia ha dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato fra il lavoratore indicato in epigrafe e Poste Italiane s.p.a. e la conseguente instaurazione fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato;

per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Poste Italiane s.p.a. affidato a tre motivi, il lavoratore ha resistito;

con riferimento all’assunzione del lavoratore in epigrafe assunto con contratto a termine a norma dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 la Corte territoriale, premesso che l’accordo de quo era disciplinato dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 attribuendo rilievo decisivo al fatto che le parti avevano fissato il limite del 30 aprile 1998 alla possibilità di procedere con assunzioni a termine ha ritenuto il contratto a termine in esame illegittimo in quanto stipulato in epoca posteriore – e cioè per il periodo dal 10 luglio 1999 al 30 ottobre 1999;

la prima censura con la quale si chiede, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., “se è vero in virtù della delega in bianco contenuta nella L. n. 56 del 1987, art. 23 l’autonomia sindacale investita da funzioni paralegislative non incontra limiti ed ostacoli di sorta nella tipologia dei nuovi contratti a termine in relazione alle ipotesi che ne legittimano la conclusione, per cui gli accordi successivi a quello del 25.9.1997 non hanno una natura negoziale bensì ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e se la norma contrattuale debba necessariamente prevedere una specificazione della causale collettiva in una causale individuale”, non essendo accompagnata dalla specificazione, a norma dell’art. 366 c.p.c., n. 6, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 5 della sede processuale dove si trovano gli accordi richiamati è inammissibile (Cass. S.U. 2 dicembre 2008 n. 28547, Cass. Cass. 23 settembre 2009 n. 20535, Cass. S.U. 25 marzo 2010 n. 7161 e Cass. S.U. 3 novembre 2011 n. 22726); nè tali accordi risultano depositati insieme al ricorso secondo quanto stabilito, a pena d’improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4;

neppure, d’altro canto, vi è trascrizione nel ricorso del contenuto delle clausole collettive che interessano;

il secondo ed il terzo motivo , con i quali si chiede, a norma del richiamato art. 366 bis c.p.c., rispettivamente:

1 “se al pari dell’esecuzione, anche il suo contrario assume valore dichiarativo, per cui il comportamento protratto nel tempo che si risolve nella totale mancanza di operatività di un rapporto caratterizzato dal complesso intreccio di molteplici obbligazioni reciproche, deve essere valutato in modo socialmente tipico quale dichiarazione risolutoria. Sicchè se da un lato va riconosciuto il diritto di azione per la declaratoria di nullità, dall’altro va tutelato l’affidamento che la società ha ragionevolmente fatto sulla condotta della lavoratrice, altrimenti ne conseguirebbe un periodo di indefinita esposizione di uno dei contraenti e di assoluto disimpegno dell’altro”;

2 “se in caso di domanda di risarcimento danni proposta dal lavoratore a seguito dell’intervenuto scioglimento del rapporto di lavoro determinatosi per effetto dell’iniziativa del datore fondata su clausola risolutiva contrattuale nulla, rimane a carico dello stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e di provare il danno da scioglimento del rapporto di lavoro fondato su clausola risolutiva contrattuale nulla e tale danno può equivalere alle retribuzioni perdute – detratto l’aliunde perceptum – a causa della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative , ma presuppone che queste siano state offerte dal lavoratore e che il datore di lavoro le abbia illegittimamente rifiutate; se il risarcimento è da escludersi ove si accerti che il danno del lavoratore (derivante dalla perdita della retribuzione) si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti (c.d. aliunde perceptum) per prestazioni lavorative svolte nel periodo considerato – presso altri datori di lavoro”, sono inammissibili per genericità del quesito;

invero tali quesiti prescindono del tutto dalla ratio decidendi posta a base della sentenza impugnata e si risolvono nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia e come tale non è idoneo ad assolvere alla sua funzione;

questa Corte ha affermato, infatti, che, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420); ovvero quando, essendo la formulazione generica e limitata alla riproduzione del contenuto del precetto di legge, è inidoneo ad assumere qualsiasi rilevanza ai fini della decisione del corrispondente motivo, mentre la norma impone al ricorrente di indicare nel quesito l’errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759);

del resto non vi è per il dedotto vizio di motivazione l’indicazione, in una sintesi riassuntiva simile al quesito di diritto, delle ragioni che rendono, in caso d’insufficienza, inidonea la motivazione a giustificare la decisione, in caso di omissione, decisivo il difetto di motivazione e in caso di contraddittorietà, non coerente la motivazione (cfr. Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556, Cass. S.U. 18 giugno 2008 n. 16528 e Cass. S.U. 1 ottobre 2007 n. 2063);

nè per la ritenuta inammissibilità dei motivi afferenti le conseguenze economiche vi è spazio per l’operatività dello ius superveniens di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi da 5 a 7, trovando detto ius superveniens applicazione con il limite invalicabile della cosa giudicata (Cfr. Corte Cost. n. 3003 del 2011 che ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e art. 117 Cost., comma 1);

il ricorso in conclusione va rigettato per inammissibilità dei motivi; le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 50,00 per esborsi oltre Euro 3000,00 per onorario ed oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2011

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