Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26592 del 23/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 23/11/2020, (ud. 10/09/2020, dep. 23/11/2020), n.26592

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1993-2017 proposto da:

ENAV (ENTE NAZIONALE DI ASSISTENZA AL VOLO) S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA FRANCESCO DENZA 15, presso lo studio dell’avvocato NICOLA

PAGNOTTA, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA TERESA PEZZONI;

– ricorrente –

contro

V.N., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dagli Avvocati ANDREA BORDONE, FERDINANDO PERONE, PAOLO

PERUCCO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 685/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 14/07/2016 R.G.N. 1983/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/09/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. la Corte di Appello di Milano, con sentenza pubblicata il 14 luglio 2016, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accertato il demansionamento subito da V.N. dal 2004 al 2011 ad opera della datrice di lavoro Ente Nazionale di Assistenza al Volo S.p.a., condannando quest’ultima al pagamento di Euro 83.902,66, somma “comprensiva del danno patrimoniale e non patrimoniale”;

2. la Corte territoriale – in sintesi – ha condiviso la lettura delle risultanze istruttorie effettuata dal primo giudice “in ordine all’affermata dequalificazione per il periodo oggetto di causa”;

3. circa la quantificazione del danno, la Corte ha respinto sia l’appello principale della società che quello incidentale del lavoratore sul punto, così argomentando: “il primo giudice ha tenuto conto proprio di elementi secondari provati (tipologia delle mansioni in precedenza svolte, lunghezza non breve delle giornate di inattività o dello svolgimento di attività non corrispondenti alle precedenti, durata oltre 4 anni) per inferire da questi la prova del fatto principale, ossia del danno professionale verificatosi, consistito nella perdita del bagaglio professionale acquisito, che notoriamente incide sulle chance di carriera future ed anche in realtà di mantenimento del posto di lavoro”; “quanto al danno non patrimoniale… il primo giudice ha liquidato un danno nella misura del 5% della retribuzione mensile, proprio tenendo conto che il lungo demansionamento ha compromesso un diritto soggettivo fondamentale consistente nella lesione della dignità morale sofferta per così lungo tempo di inattività nell’ambito dell’ambiente lavorativo”;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso l’ENAV Spa con 7 motivi, cui ha resistito il V. con controricorso;

la società ha anche comunicato memoria;

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. i primi quattro motivi di ricorso devono essere dichiarati, in limine litis, inammissibili in quanto invocano esplicitamente il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – criticando la dichiarata sussistenza del demansionamento in entrambi i gradi di merito – senza considerare che quest’ultima disposizione, per i giudizi di appello instaurati dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012 n. 83, non può essere denunciata, rispetto ad un appello promosso nella specie il 29 novembre 2013 dopo la data sopra indicata (richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c., in base al quale il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. “doppia conforme”; v. Cass. n. 23021 del 2014; in questi casi il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse: Cass. n. 26774 del 2016, conf. Cass. n. 20944 del 2019);

2. il quinto motivo di ricorso denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103, 2697, 2727 e 2729, nonchè degli artt. 115,116,414,415 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riguardo al mancato assolvimento dell’onere di allegazione e prova del danno alla professionalità”; si eccepisce che i giudici del merito avrebbero accertato la sussistenza del danno alla professionalità “in difetto di allegazioni puntuali e di elementi di prova concreti… applicando, inoltre, il metodo presuntivo in modo non corretto”;

con il sesto motivo si denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103,2697,2727 e 2729 c.c., nonchè degli artt. 115,116,414,415 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riguardo al mancato assolvimento dell’onere di allegazione e prova del danno non professionale”; si lamenta che la Corte territoriale avrebbe ritenuto “sufficiente un unico indizio, rappresentato dalla durata della dequalificazione, per inferire la prova del danno, pur in assenza di allegazioni specifiche e puntuali e di prove”, senza poi che fosse stata fornita finanche l’allegazione che il ricorrente avesse mai segnalato all’azienda qualsiasi disagio”;

3. i motivi, da valutarsi congiuntamente per connessione dovuta alla comune pertinenza con il capo di sentenza che ha qualificato il danno, sono inammissibili;

essi, infatti, riguardano inevitabilmente una quaestio facti quale è la sussistenza o meno di danni che si siano in concreto prodotti nella sfera patrimoniale e non patrimoniale di quel determinato lavoratore; nonostante la veste formale della denuncia di plurime violazioni e false applicazioni di legge, nella sostanza la società censura quello che è un accertamento di fatto concernente la sussistenza o meno di pregiudizi risarcibili, che avrebbe potuto essere contestato solo nei ristretti limiti imposti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, e sempre che non vi fosse la preclusione dovuta alla cd. “doppia conforme” (la Corte di Appello ha interamente confermato la liquidazione del primo giudice);

con particolare riferimento, poi, ai danni non patrimoniali questa Corte ha ritenuto che il ristoro pecuniario del pregiudizio attinente alla sfera personale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l’unica fonte di convincimento del giudice (cfr. Cass. SS.UU. n. 26972 del 2008); in ipotesi di dequalificazione il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., ex plurimis, Cass. n. 12253 del 2015; Cass. n. 19778 del 2014; Cass. n. 4652 del 2009; Cass. n. 28274 del 2008; Cass. SS.UU. n. 6572 del 2006);

ciò posto, nella specie, lo sconfinamento nel merito ad opera dei motivi in esame è conclamato dall’improprio riferimento sia all’art. 2697 c.c. sia agli artt. 115 e 116 c.p.c.;

per il primo aspetto la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l’apprezzamento operato dai giudici del merito circa la sussistenza di danni patrimoniali e non patrimoniali, opponendo una diversa valutazione; per l’altro aspetto, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, di nuovo conio (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017);

circa la pretesa violazione dell’art. 2729 c.c., pure richiamato in entrambi i motivi, va ribadito che le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione; spetta innanzi tutto al giudice del merito, con apprezzamento di fatto a lui riservato, valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010) e compete sempre al giudice del merito procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi indiziari precedentemente selezionati ed accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione, e non piuttosto una visione parcellizzata di essi, sia in grado di fornire una valida prova presuntiva tale da ingenerare il convincimento in ordine all’esistenza o, al contrario, all’inesistenza del fatto ignoto; la delimitazione del campo affidato al dominio del giudice del merito consente innanzi tutto di escludere che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sè solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito interpretativo raggiunto nei gradi inferiori (v. Cass. n. 29781 del 2017); essendo compito istituzionalmente demandato al giudice del merito selezionare gli elementi certi da cui “risalire” al fatto ignorato (art. 2727 c.c.) che presentino una positività parziale o anche solo potenziale di efficacia probatoria e l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit esso è sottratto al controllo di legittimità (in termini, Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017), salvo che esso non si presenti intrinsecamente implausibile tanto da risultare meramente apparente; pertanto chi censura un ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice del merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (in termini, Cass. n. 10847/2007 cit.) e, nel vigore del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, sempre che, come nella specie, non sia precluso;

6. il settimo motivo, proposto in via subordinata rispetto alle censure che precedono, denuncia ancora un omesso esame di fatto decisivo, a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rappresentato dal “concorso della condotta del lavoratore nella causazione dell’evento dannoso”, nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c.; si deduce che la Corte di Appello avrebbe “omesso di pronunciarsi” sul “profilo della evitabilità del danno dedotto sia nella memoria di costituzione nel giudizio di primo grado, sia nel ricorso in appello”;

il motivo è inammissibile non solo perchè invoca ancora l’art. 360 c.p.c., n. 5 in una ipotesi preclusa ma anche perchè lamenta un error in procedendo, rappresentato dalla omessa pronuncia, al di fuori delle forme previste dall’art. 360 c.p.c., n. 4 che postula sia evidenziato il vizio che determina la nullità della sentenza o del procedimento a mente (v. Cass. n. 1196 del 2007; Cass. n. 22759 del 2014; Cass. n. 10862 del 2018), senza neanche riportare nel corpo del motivo i contenuti testuali degli atti processuali che dovrebbero documentare la consumazione del vizio di omessa pronuncia e senza dimostrare come la questione sia stata introdotta nel giudizio e riproposta in appello;

7. conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con le spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente società, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 6.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2020

 

 

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