Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26590 del 12/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/12/2011, (ud. 06/10/2011, dep. 12/12/2011), n.26590

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25546/2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato ALLEGRA Gaetana, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DEI

PARIOLI 44, presso lo studio dell’avvocato SICILIANO Rosario, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BILOTTA MARIA, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1533/2006 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 15/11/2006 R.G.N. 583/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/10/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato SICILIANO ROSARIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 5/10 – 15/11/06 la Corte d’appello di Catanzaro – Sezione lavoro ha rigettato l’impugnazione formulata dalle Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Cosenza, con la quale era stata dichiarata la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con B. E. per il periodo 2/5 – 30/6/02 ed ordinata la riammissione di quest’ultimo in servizio, dopo aver escluso che il rapporto lavorativo potesse essersi risolto per mutuo consenso, desumibile dal lasso di tempo intercorso tra la cessazione dello stesso e la data di proposizione del ricorso giudiziario, e dopo aver rilevato che l’assunzione a termine era avvenuta in violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, posto che dall’elenco generico delle causali indicate non era possibile desumere la vera ragione del ricorso alla tipologia del contratto a termine.

A quest’ultimo riguardo la Corte territoriale ha osservato che la società postale si era limitata a richiamare gli accordi collettivi facenti riferimento a generali esigenze di riposizionamento del personale e a procedure di mobilità, senza specificare se le stesse fossero presenti ed in qual misura nell’ufficio presso il quale era stato assunto l’appellato e se investissero anche l’area operativa che lo riguardava. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società Poste Italiane s.p.a. che affida l’impugnazione ad undici motivi di censura.

Resiste con controricorso il B..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la ricorrente si duole dell’omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5) rappresentato dalla dedotta circostanza del successivo licenziamento disciplinare del B., non impugnato nei termini di legge, la qual cosa aveva di fatto comportato la cessazione della materia del contendere senza che la Corte d’appello si fosse pronunziata sulle conseguenze scaturenti nel giudizio da una siffatta risoluzione.

Tale censura è infondata: invero, la Corte di merito si è pronunziata su tale aspetto della questione precisando, con argomentazione immune da vizi di natura logico-giuridica, sottratta come tale ai rilievi di legittimità, che nessuna rilevanza poteva essere attribuita alla circostanza che l’appellato non aveva inteso riprendere il servizio dopo la sentenza di primo grado e nonostante l’invito rivoltogli in tal senso dalla società, provocando in tal modo il suo licenziamento, in quanto si trattava di un evento successivo al giudizio che poteva incidere unicamente sull’entità del risarcimento del danno, da circoscrivere temporalmente fino al momento del licenziamento. Infatti, ancor prima di tale determinazione la Corte d’appello aveva confermato sia la dichiarazione di illegittimità dell’apposizione del termine al contratto “de quo” che la specifica statuizione sulla decorrenza del diritto del lavoratore alle retribuzioni dalla notifica del ricorso introduttivo, quale atto che racchiudeva in sè i contenuti di una messa in mora della società.

2. Col secondo motivo del ricorso la società Poste italiane s.p.a.

denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), deducendo che il licenziamento intimato al lavoratore in epoca successiva al ripristino del rapporto, che era stato eseguito sulla scorta della pronunzia giudiziale dichiarativa della nullità del termine apposto al contratto in esame, aveva di fatto determinato la cessazione della materia del contendere con riferimento alla domanda di riammissione in servizio, posto che lo stesso atto di risoluzione non era stato impugnato nei termini di legge.

Anche tale motivo è privo di pregio: invero, è agevole osservare che, una volta ottenuta la pronunzia favorevole al ripristino del rapporto, sussisteva in capo al lavoratore l’interesse a vedersela confermata nel giudizio d’appello, tanto più che in relazione al periodo compreso tra la messa in mora della società e l’effettiva ripresa del servizio era maturato il suo diritto alle retribuzioni riconosciutegli attraverso la stessa sentenza gravata, mentre il licenziamento, quale evento successivo al giudizio di primo grado, poteva solo influire sulla delimitazione temporale del risarcimento, così come correttamente evidenziato dal giudice d’appello.

3. Col terzo motivo del ricorso la società Poste italiane s.p.a.

denuncia la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 1372 c.c., comma 1, art. 1175 c.c., art. 1375 c.c., art. 2697 c.c., art. 1427 c.c., art. 1431 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Attraverso tale motivo la ricorrente ripropone sostanzialmente la questione della supposta risoluzione del rapporto per mutuo consenso riconducibile all’inerzia del lavoratore protrattasi per circa diciotto mesi dall’epoca della cessazione del contratto (30/6/02) a quella della proposizione dell’azione giudiziaria (29/12/03). Il quesito di diritto che viene formulato al riguardo può riassumersi nei seguenti termini: se ai sensi dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175 e 1375 c.c., il comportamento inerte delle parti successivo alla scadenza del termine finale apposto ad un contratto di lavoro di breve durata ed il protrarsi della mancata reazione del lavoratore all’estromissione dall’azienda possano considerarsi quale mutuo consenso alla cessazione dello stesso rapporto; se in un caso del genere incomba sul datore di lavoro dimostrare l’avvenuta estinzione del rapporto o se la stessa debba presumersi, incombendo sul lavoratore che agisca per l’accertamento della nullità del termine l’onere di provare le circostanze atte a contrastare una siffatta presunzione; se ai fini della dimostrazione della consapevolezza dell’illegittimità del termine finale di durata apposto al contratto di lavoro occorra che il lavoratore fornisca anche la prova della riconoscibilità dell’errore da parte dell’altro contraente.

4. Oggetto del quarto motivo di censura è la denuncia dell’omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5). In concreto, la ricorrente si lamenta della omessa motivazione sulla ammissibilità e rilevanza della sua richiesta diretta all’accertamento del successivo svolgimento, da parte del lavoratore, di altre attività lavorative in epoca successiva alla cessazione del rapporto a termine, al fine di dimostrare un ulteriore elemento a sostegno della eccepita risoluzione dello stesso per mutuo consenso.

Osserva la Corte che sia il terzo che il quarto motivo possono essere trattati congiuntamente essendo unitaria la questione ad essi sottesa della eccepita risoluzione del rapporto per mutuo consenso. Ebbene, entrambi i motivi sono infondati.

Invero, l’indirizzo consolidato di questa stessa Sezione (Cass. sez. lav. n. 5887 dell’11/3/2011; Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010;

Cass. sez. lav. n. 26935 del 10/11/08; C. sez. lav. n. 17150 del 24/6/08; C. sez. lav. n. 20390 del 28/9/07; C. sez. lav. n. 23554 del 17/12/04; C. sez. lav. n. 17674 dell’11/12/02) è nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicchè la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.

D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contrasto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824 e da ultimo Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010).

Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe “contra legem” anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003).

Oltretutto, nel caso di specie, con argomentazione perfettamente logica, la Corte territoriale ha evidenziato che se si considera il tempo trascorso tra la risoluzione del contratto e le contestazioni del lavoratore, il suddetto lasso temporale appare tutt’altro che eccessivo e significativo nel senso voluto dalle Poste italiane, il tutto in presenza di una situazione di incertezza inerente all’interpretazione della normativa sul contratto a termine entrata in vigore poco tempo prima della conclusione del contratto oggetto di causa.

Tra l’altro, non va sottaciuto che è onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi le circostanze che si adducono a sostegno della relativa eccezione (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell’1/2/2010, n. 16303 de 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007).

5. Col quinto motivo del ricorso la società Poste italiane s.p.a.

denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4, comma 2, dell’art. 12 preleggi, nonchè dell’art. 1362 c.c., e segg. e art. 1325 c.c., e segg. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Ci si duole, in particolare, del fatto che nel contratto a termine “de quo” le ragioni concrete dell’assunzione erano da intendersi chiaramente, seppure per “relationem”, esplicitate, atteso lo specifico contenuto degli accordi collettivi in esso richiamati, la qual cosa dimostrava la sussistenza dei requisiti formali richiesti dalla normativa in materia. Si contesta, pertanto, che fosse da ritenere generica la motivazione posta a base dell’assunzione e si chiede di accertare se non costituisca violazione dell’art. 1362 c.c., art. 1325 c.c. e art. 12 preleggi l’interpretazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2, che esiga la prova datoriale particolareggiata delle ragioni già specificate nel contratto, pur laddove ciò sia desumibile per “relationem” dal contenuto di documenti preesistenti, esattamente indicati nella causale del contratto individuale.

6. Col sesto motivo del ricorso è denunziata l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., art. 1, comma 2) in quanto il giudice d’appello non avrebbe spiegato il motivo per il quale la compresenza nel contratto di più ragioni di apposizione del termine, fra esse non incompatibili, non avrebbe potuto ritenersi egualmente legittima. In pratica, secondo la ricorrente era incontestata la circostanza che fosse in atto un processo di riorganizzazione e di riposizionamento delle risorse sul territorio, così come era innegabile la concorrenza dell’esigenza straordinaria, conseguente a tale processo, di garantire lo svolgimento del servizio nella fase centrale di riorganizzazione aziendale, degli assetti produttivi e di riequilibrio delle risorse umane, per cui la presenza contestuale di tali ragioni non poteva rappresentare un motivo di nullità della clausola della delimitazione temporale apposta al contratto.

7. Col settimo motivo è denunziata la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4, comma 2, nonchè dell’art. 2697 c.c., art. 116 c.p.c., art. 244 c.p.c., art. 421 c.p.c., comma 2, art. 253 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Attraverso tale motivo si chiede di accertare se risulti conforme al principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., esigere da datore di lavoro la dimostrazione della sussistenza delle esigenze poste a fondamento dell’apposizione del termine, nonostante che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4, lo preveda limitatamente all’ipotesi delle esigenze legittimanti l’eventuale proroga del termine, e se debba reputarsi ammissibile la richiesta datoriale di prova per testi anche nel caso in cui l’articolazione dei fatti oggetto della deposizione, cioè quelli inerenti i processi di mobilità del personale sul territorio e la loro incidenza sull’articolazione produttiva in cui era stato inserito il lavoratore, sia avvenuta per il tramite di una esposizione dei loro elementi essenziali tale da consentire al giudicante un controllo della loro pertinenza.

8. Con l’ottavo motivo è dedotta l’omessa ed insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Al riguardo la ricorrente si lamenta del fatto che la Corte di merito avrebbe omesso di valutare l’ammissibilità e la rilevanza del capitolo di prova n. 33 relativo alla persistenza, all’epoca dell’assunzione della controparte, della fase attuativa delle procedure di mobilità originate dagli accordi del 17 e del 23 ottobre 2001 che avevano prodotto effetti anche sull’unità produttiva cui era stato applicato il B.; qualora una tale prova fosse stata ammessa è opinione della ricorrente che il giudicante avrebbe potuto integrarne gli esiti col ricorso ai propri poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c..

Osserva la Corte che il quinto, il sesto, il settimo e l’ottavo motivo possono essere esaminati congiuntamente in considerazione del fatto che la questione in essa affrontata, seppur sotto diversi aspetti, è sostanzialmente unitaria, vale a dire la verifica della avvenuta dimostrazione o meno della ricorrenza delle causali di cui al decreto legislativo n. 368 del 2001, applicabile “ratione temporis” nella fattispecie, ai fini della legittimità della apposizione del termine finale al contratto oggetto di causa.

8.1. Orbene, il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, relativo alla “Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES” stabilisce ai primi due commi: “1 – è consentita l’apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. 2 – L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”.

Va subito detto che le considerazioni della ricorrente sul significato da attribuire al termine “specificate” usato dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, non appaiono condivisibili. Invero, la ricorrente ritiene che tale termine non sia propriamente riferibile ad una qualità che (debbano possedere le ragioni dell’assunzione a termine, bensì all’operazione della indicazione della concreta esigenza sussumibile in una delle più generali categorie di “ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive di cui all’art. 1 del citato decreto legislativo.

In realtà, con l’espressione sopra riprodotta, di chiaro significato già alla stregua delle parole usate, il legislatore ha infatti inteso stabilire un vero e proprio onere di specificazione delle ragioni oggettive del termine finale, perseguendo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità dì tali ragioni nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (così Corte Costituzionale sent. 14 luglio 2009 n. 214).

Il D.Lgs. n. 368 del 2001, abbandonando il precedente sistema di rigida tipicizzazione delle causali che consentono l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro (in parte già oggetto di ripensamento da parte del legislatore precedente), in favore di un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), cui ricondurre le singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto, si è infatti posto il problema, nel quadro disciplinare tuttora caratterizzato dal principio di origine comunitaria del contratto di lavoro a tempo determinato (cfr., in proposito, Cass. 21 maggio 2008 n. 12985) del possibile abuso insito nell’adozione di una tale tecnica.

Per evitare siffatto rischio di un uso indiscriminato dell’istituto, il legislatore ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell’onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contento che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale.

In altri termini, per le finalità indicate, tali ragioni giustificatrici, contrariamente a quanto sostenuto in prima battuta dalla ricorrente, devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza della loro effettiva portata e, quindi, il controllo di effettività delle stesse. Che questo debba ritenersi il significato del termine “specificate” usato dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. cit., risulta del resto confermato dalla interpretazione della relativa disciplina anche alla luce della direttiva comunitaria a cui il decreto medesimo da attuazione. In proposito, è stato di recente chiarito dalla Corte di giustizia CE (cfr., in particolare sent. 23 aprile 2009 nei procc. riuniti da C – 378/07 a C – 380/07, Kiziaki e altri nonchè sent. 22 novembre 2005, C – 144/04, Mangold) che l’accordo quadro trasfuso nella direttiva 1999/70/CE contiene nel preambolo e nel testo sia norme riguardanti ogni tipo di contratto a termine, sia norme riferibili esclusivamente al fenomeno della reiterazione di tale tipo di contratto e quindi ai lavoratori dei contratti a termine c.d. successivi.

“Risulta infatti chiaramente sia dall’obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70, sia dall’accordo quadro e dalla formulazione delle pertinenti disposizioni di esso, che… l’ambito disciplinato da tale accordo non è limitato ai soli lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ma che, al contrario, si estende a tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un determinato rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori” (punto 116 della sentenza Kiziaki).

In particolare, nella prima categoria rientra a pieno titolo la clausola 8, n. 3 dell’accordo, alla stregua della quale “la applicazione” (della direttiva) “non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo”.

Tale clausola, c.d. di non regresso, è stata esplicitamente ritenuta dalla Corte di giustizia come riferita ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto a tempo determinato. Ed infatti: “La verifica dell’esistenza di una “reformatio in pejus” ai sensi della clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro deve ritenersi in rapporto all’insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato” (punto 120 della medesima sentenza).

Come è stato recentemente rilevato in dottrina, in tal modo la clausola di non regresso persegue lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto per i datori e sicurezza per i lavoratori.

A ciò consegue che una interpretazione del termine “specificate” che non consentisse, nella piena trasparenza, quel controllo di effettività, assicurato, seppur in maniera diversa, dalla disciplina previgente, risulterebbe in contrasto con la clausola di non regresso di cui alla clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro recepito dalla direttiva, in quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al precedente livello generale di tutela applicabile nello Stato Italiano e finirebbe altresì per configurare un eccesso di delega da parte del governo rispetto a quanto stabilito dalla L. 29 dicembre 2000, n. 422, che a questo attribuiva unicamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, con la possibilità di apportare nei settori interessati dalla normativa da attuare unicamente modifiche o integrazioni necessarie ad evitare disarmonie tra le norme introdotte e quelle già vigenti.

8.2. Il collegio ritiene, peraltro, che siffatta specificazione delle ragioni giustificatrici del termine può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso per “relationem” in altri testi scritti accessibili alle parti, in particolare nel caso in cui, data la complessità e la articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è alla base della esigenza di assunzioni a termine, questo risulti analizzato in documenti specificatamente ad esso dedicati per ragioni di gestione consapevole e/o concordata con i rappresentanti del personale. Ciò è quello che la ricorrente deduce essere avvenuto nel caso in esame, in cui il contratto di lavoro del B. (che pur enuncia, nella prima parte, solo genericamente motivi attinenti ad esigenze aziendali) fa riferimento, per precisarne in concreto la portata, “all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, 13 febbraio e 17 aprile 2002”.

Da tali accordi, come riprodotti dalla difesa della società nelle parti di interesse (nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione), si desumerebbe infatti l’attivazione, nel periodo dagli stessi considerato e nell’ambito del processo di ristrutturazione in atto, di processi di mobilità del personale all’interno dell’azienda al fine di riequilibrane la distribuzione su tutto il territorio nazionale,nonchè quanto alle mansioni, da posizioni sovradimensionate, in genere di staff, verso il servizio di recapito, carente di personale.

In tale contesto, secondo la ricorrente, l’accordo 17 ottobre 2001, sul punto implicitamente richiamato anche nelle sedi contrattuali successive, prevedrebbe che “La società potrà continuare a ricorrere all’attivazione di contratti a tempo determinato per sostenere il livello di servizio recapito durante la fase di realizzazione dei processi di mobilità di cui al presente accordo, ancorchè nella prospettiva di ridurne gradualmente l’utilizzo”.

Infine, con l’ulteriore indicazione nel contratto della sede lavorativa e delle mansioni cui era assegnato il lavoratore, risulterebbero, secondo la ricorrente, sufficientemente specificate le ragioni giustificative della clausola di apposizione del termine alla sua assunzione. In definitiva, secondo la difesa della società il requisito della specificità risulterebbe soddisfatto posto che la lettera di assunzione, nell’individuare la sede di lavoro dell’intimato, riferirebbe anche a quel determinato ambito produttivo il processo “nazionale” sottostante la stipulazione del contratto.

8.3. Ciò posto, va tuttavia rilevato che la Corte territoriale ha evidenziato, con argomentazione congrua ed esente da vizi di natura logico-giuridica, che nell’atto d’appello la società si è limitata a richiamare gli accordi collettivi che fanno riferimento a generali esigenze di riposizionamento del personale e a procedure di mobilità, ma non ha specificato se dette esigenze fossero presenti e in qual misura nell’ufficio presso il quale era stato assunto l’appellato e se investissero anche l’area operativa che lo riguardava. Ancor più in particolare, la Corte di merito ha osservato che nell’atto d’appello nulla era stato dedotto dalla società Poste Italiane s.p.a. che riguardasse in termini specifici la singola posizione lavorativa dell’appellato.

Deve, quindi, dedursi che, pur ammettendosi la possibilità di un richiamo “per relationem” agli accordi collettivi all’interno del singolo contratto di assunzione, le doglianze della ricorrente non superano, in ogni caso, i chiari rilievi operati dal giudice d’appello, sia in merito alla verificata mancanza di specificazione della sussistenza e dell’entità delle generali esigenze di riposizionamento e mobilità del personale anche nell’ufficio al quale l’appellato era stato destinato, sia in ordine alla accertata mancanza di allegazione del fatto che tali generali esigenze avevano investito anche l’area operativa che riguardava il lavoratore assunto con contratto a termine.

8.4. Va, inoltre, disattesa la pretesa, oggetto del settimo motivo del ricorso, alla stregua della quale, nel nuovo sistema introdotto dal D.Lgs. n. 368 del 2001, non graverebbe più sul datore di lavoro l’onere di provare le ragioni obiettive che giustificano la clausola appositiva del termine, ma dovrebbe essere il lavoratore a dedurre e provare la non ricorrenza nel caso concreto della situazione enunciata per legittimare il termine. Questa Corte (Cass. 21 maggio 2008 n. 12985, cit. nonchè gli obiter dieta in Cass. 21 maggio 2002 n. 7468 e 26 luglio 2004 n. 14011) ha, infatti, avuto già modo di osservare che, anche anteriormente alla esplicita introduzione del comma “premesso” della L. 24 dicembre 2007, n. 247, art. 39 (secondo cui “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”), il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo pur sempre l’apposizione del termine una ipotesi derogatoria.

Lo testimonia la stessa tecnica legislativa adottata dal decreto legislativo, secondo la quale l’apposizione del termine “è consentita” solo “a fronte” di determinate specifiche ragioni derogatorie, come tali normalmente da provare in giudizio da chi le deduce a sostegno delle proprie difese.

Lo conferma poi il dato relativo alla “vicinanza” al datore di lavoro delle situazioni che consentono la deroga, anch’essa elemento normalmente significativo del conseguente carico probatorio in giudizio.

Infine e soprattutto, un tale risultato ermeneutico è sostenuto dal richiamo alla c.d. clausola di non regresso contenuta nella direttiva a cui il decreto da attuazione, alla luce delle argomentazioni in precedenza svolte, nonchè dal riferimento al contenuto della delega alla base del decreto legislativo, limitato appunto sostanzialmente all’attuazione della direttiva, che non contiene disposizioni che si attaglino ad una diversa distribuzione dell’onere della prova con riguardo al primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato.

8.5. Nemmeno coglie nel segno la censura di cui all’ottavo motivo del ricorso avente ad oggetto sta la denunzia di omessa valutazione dell’ammissibilità del capitolo di prova n. 33 relativo alla persistenza, all’epoca dell’assunzione della controparte, della fase attuativa delle procedure di mobilità originate dagli accordi del 17 e del 23 ottobre 2001 e dei loro riflessi sull’unità produttiva di destinazione del dipendente, sia la doglianza sul mancato esercizio dei poteri ufficiosi del giudicante ex art. 421 c.p.c..

Invero, come questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. sez. lav. n. 6570 del 2/4/2004) “la motivazione del rigetto di un’istanza di mezzi istruttori – nella specie, escussione di alcuni testimoni – non deve necessariamente essere espressa, potendo la stessa “ratio decidendi”, che ha risolto il merito della lite, valere da implicita esclusione della rilevanza del mezzo dedotto”. Inoltre, per quel che concerne l’aspetto della doglianza che fa leva sulla mancata attuazione dei poteri istruttori d’ufficio, si è già chiarito (Cass. sez. lav. n. 5878 dell’11/3/2011) che “nel processo del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze:

l’insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali, l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa. Non ricorrono, pertanto, i suddetti presupposti, allorchè la parte sia incorsa in decadenze per la tardiva costituzione in giudizio in primo grado e non sussista, quindi, alcun elemento, già acquisito al processo, tale da poter offrire lo spunto per integrare il quadro probatorio già tempestivamente delineato”.

Orbene, se si considera che la Corte di merito ha osservato che nell’atto d’appello nulla era stato dedotto dalla società Poste Italiane s.p.a. che riguardasse in termini specifici la singola posizione lavorativa dell’appellato, deve dedursi che a maggior ragione non potevano considerarsi presenti gli elementi di indagine atti a giustificare il ricorso ai poteri istruttori ufficiosi auspicati dalla ricorrente.

9. Col nono motivo è segnalata la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5, nonchè dell’art. 12 disp. gen. e dell’art. 1362 c.c., e segg. e art. 1419 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) con riferimento alla questione delle conseguenze giuridiche scaturenti dalla nullità della clausola di apposizione del termine, conseguenze che la Corte di merito ha individuato nella conversione a tempo indeterminato del rapporto lavorativo oggetto di causa, soluzione, questa, contestata dalla ricorrente. Attraverso il relativo quesito di diritto l’odierna ricorrente chiede di verificare se non costituisca violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5 e dell’art. 12 preleggi, applicare la sanzione della conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato qualora si accerti la nullità del termine per insussistenza delle esigenze di cui all’art. 1 dello stesso decreto, nonostante che una tale sanzione sia prevista solo nelle ipotesi di cui all’art. 5, commi 2, 3 e 4 del summenzionato decreto. La ricorrente chiede, altresì, di accertare se non costituisca violazione delle norme di cui all’art. 1362 c.c., e segg. e art. 1419 c.c., il non estendere la nullità della clausola appositiva del termine all’intero contratto ove risulti che i contraenti abbiano espressamente attribuito alla stessa il carattere della essenzialità.

Il motivo è infondato. Invero, questa Corte ha già statuito al riguardo (Cass. Sez. Lav. n. 12985 del 21/5/2008) che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (principio applicato in fattispecie di primo ed unico contratto a termine)”.

10. Col decimo motivo del ricorso la società Poste italiane s.p.a.

denuncia la violazione ed erronea applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218 c.c., art. 1219 c.c., art. 1223 c.c., art. 2094 c.c., art. 2099 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) e formula il seguente quesito di diritto: 1) Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 cod. civ., e segg.; 2) in ipotesi di accertamento della nullità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro e di riconoscimento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni maturate, in applicazione delle previsioni di cui all’art. 1218 c.c., e segg. e dell’art. 2043 c.c., e segg., devono detrarsi i ricavi percepiti o percepibili facendo uso della ordinaria diligenza (rientrando detti ultimi tra le ipotesi di danno riconducibile a fatto e colpa del soggetto che si assume danneggiato) dal lavoratore (sul quale grava conseguentemente l’onere di provare di aver posto in essere ogni attività utile ad eliminare o limitare il danno) che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa.

11. Con l’ultimo motivo del ricorso la società Poste italiane s.p.a.

segnala la contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, (art. 360 c.p.c., n. 5). Sempre con riguardo ai profili economici conseguenti alla dichiarazione di illegittimità del termine, la sentenza impugnata sarebbe affetta, secondo la ricorrente, dal vizio della contraddittorietà della motivazione in merito al fatto controverso della messa in mora della società. Ciò in quanto, pur avendo la Corte d’appello affermato il principio della decorrenza del diritto al pagamento delle retribuzioni dalla messa in mora della datrice di lavoro, la corresponsione delle stesse è stata, però, disposta dalla notifica del ricorso di primo grado, anche se in tale atto non era contenuta alcuna offerta della prestazione, per cui lo stesso era inidoneo alla costituzione in mora della parte datoriale.

Rileva la Corte che gli ultimi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, posto che la questione ad essi sottesa, vale a dire quella delle conseguenze economiche scaturenti dalla disposta conversione del rapporto, seppur affrontata sotto i diversi aspetti della violazione di norme di legge e di vizio della motivazione, è sostanzialmente la stessa.

11.1 Osserva il Collegio che il quesito sub 1), riguardante la mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4/1/2011 n. 80 e Cass. 29/4/2011 n. 9583).

Il quesito di diritto richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. SU. 5/1/2007 n. 36), dovendosi, pertanto, ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. In particolare deve comprendere l’indicazione sia della “regula iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo e la “mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile.” (v. Cass. 30-9-2008, n. 24339). Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v.

Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr.

Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro, neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la esposizione della censura risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la asserita mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, trascurando che la sentenza impugnata, dopo aver richiamato la necessità di una messa a disposizione del datore di lavoro della prestazione lavorativa in termini chiari ed inequivocabili, ha espressamente affermato che “nel caso in esame, correttamente il giudice di primo grado ha ravvisato nella notifica del ricorso introduttivo i contenuti di una chiara messa in mora di Poste Italiane”.

Nel censurare tale statuizione, infatti, la ricorrente, anzichè lamentare genericamente una mancata verifica della messa in mora, avrebbe dovuto innanzitutto, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, riportare il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio, specificando, poi, sotto quali profili la decisione impugnata sarebbe stata censurabile.

11.2. Parimenti, per quanto concerne “l’aliunde perceptum”, il quesito sub 2), relativo alla seconda censura del decimo motivo, risulta assolutamente generico, risolvendosi soltanto nella mera enunciazione astratta del principio invocato dalla ricorrente, come tale inidonea ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (v. fra le altre Cass. n. 24339/08, nonchè Cass. 20/6/2008 n. 16941).

Del resto anche la relativa censura risulta del tutto generica e astratta, oltre che priva di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta.

Nè potrebbe ritenersi ammissibile in questa sede la doglianza (ignorata nel quesito) relativa al mancato accoglimento delle richieste (peraltro meramente esplorative) di informazioni all’UPLMO e di esibizione dei modelli 740 del lavoratore (sulla prima v. Cass. 15-2-2011 n. 3720, Cass. 27-6-2003 n. 10219; sulla seconda v. Cass. 16-11-2010 n. 23120, Cass. 29-10-2010 n. 22196, Cass. 23-2-2010 n. 4375, Cass. 2-2-2006 n. 2262, nonchè Cass. 20-12-2007 n. 26943). Ne consegue l’inammissibilità sia del decimo che dell’undicesimo motivo.

11.3. Così risultati inammissibili gli ultimi due motivi, riguardanti le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27/2/2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene, tale condizione non sussiste nella fattispecie.

In definitiva il ricorso va respinto.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo, con loro attribuzione agli avvocati Maria Bilotta e Rosario Siciliano, i quali hanno dichiarato di averne fatto anticipo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 2.500,00 per onorario, Euro 40,00 per esborsi, I.V.A., C.P.A e spese generali ai sensi di legge con attribuzione agli avvocati anticipatari Bilotta e Siciliano.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2011

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