Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2659 del 30/01/2019

Cassazione civile sez. I, 30/01/2019, (ud. 10/10/2018, dep. 30/01/2019), n.2659

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25062/2015 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Giulio

Cesare n. 21/23, presso lo studio dell’avvocato Boursier Niutta

Carlo, rappresentato e difeso dall’avvocato Di Salvo Settimio,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Fallimento della (OMISSIS) S.r.l.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5356/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

pubblicata il 03/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/10/2018 dal cons. TRICOMI LAURA;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha chiesto che

Codesta Corte di Cassazione voglia accogliere il motivo di ricorso

1).

Fatto

RITENUTO IN FATTO

CHE:

M.G. ricorre con cinque mezzi, corredati da memoria, per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma che, in parziale riforma della prima decisione, lo aveva condannato al pagamento delle somme di Euro 3.070.336,00 = e di Euro 8.092.879;00 = a favore della curatela del Fallimento (OMISSIS) SRL (dichiarato il 28/1/1999), con interessi e rivalutazione come stabiliti dalla sentenza di primo grado, in controversia avente ad oggetto la sua responsabilità in qualità di amministratore della fallita.

Il Fallimento intimato non ha svolto difese.

Il Procuratore generale ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, respinti gli altri.

Già il Tribunale di Roma aveva ravvisato la responsabilità del M. – amministratore unico della (OMISSIS) dal 26/10/1995 al 2/9/1996 – e degli altri amministratori che si erano succeduti nella carica per violazione dei doveri loro imposti nella qualità, avendo accertato che vi erano state condotte lesive perchè, in presenza di perdite che avevano annullato il capitale sociale fin dal 1995, era stata omessa la convocazione dell’assemblea ex art. 2447 c.c., e, prodottosi lo stato di scioglimento della società per mancata reintegrazione del capitale sociale, non era stata avviata la procedura per la messa in stato di liquidazione; inoltre gli amministratori succedutisi non si erano astenuti dal compiere nuove operazioni di gestione, producendo così ulteriori perdite e danni al patrimonio della società.

Nel procedere alla liquidazione del danno, il Tribunale aveva circoscritto la responsabilità dei diversi amministratori succeduti nel periodo in esame, agli atti di gestione da ciascuno compiuti nel rispettivo periodo di carica ed ai danni cagionati dagli atti compiuti dai loro predecessori per il consapevole contributo causale offerto alla determinazione del danno con il prosieguo delle attività, mentre la aveva esclusa con riferimento agli atti di gestione compiuti dagli amministratori ad essi succeduti. Di seguito aveva liquidato il danno risarcibile per ciascun esercizio sulla preliminare considerazione che il danno, quale conseguenza diretta di azioni o omissioni non poteva automaticamente identificarsi nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, dovendosi invece applicare la regola del nesso di causalità materiale tra azioni ovvero omissioni ed il pregiudizio dalle stesse derivato al patrimonio sociale ed ai creditori della società ed aveva proceduto alle condanne, in forma anche solidale, secondo i criteri fissati.

La Corte di appello, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal M., ha affermato che il danno conseguente al divieto di nuove operazioni ex art. 2449 c.c. (anteriore alla riforma del diritto societario) andava dimostrato in concreto come conseguenza immediata e diretta dei fatti di mala gestio e non poteva determinarsi in via presuntiva con riferimento all’intera perdita di periodo; che la prova del danno, del suo ammontare e del nesso causale competeva al curatore fallimentare che aveva agito, atteso che la documentazione contabile, anche se incompleta, non era tale da precludere al curatore di provare il nesso di causalità. Su tale premessa concludeva che il Fallimento non aveva provato che la perdita verificatasi dopo la cessazione dalla carica del M. fosse conseguenza immediata e diretta della sua attività gestoria e per l’effetto riformava parzialmente la sentenza di primo grado sulla considerazione che non potevano essere imputate all’appellante le perdite subite dopo la sua cessazione dalla carica a meno che non fossero riconducibili all’attività gestoria da lui posta in essere nel periodo 26/10/1995 – 2/9/1996. Determinava quindi gli importi dovuti a titolo risarcitorio in Euro 3.070.336,00= per l’esercizio 1995 ed in Euro 8.092.879;00= per l’esercizio 1996, corrispondenti alle perdite di esercizio.

Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’rt. 2449 c.c., e art. 112 c.p.c..

Secondo il ricorrente, amministratore della società dal 26/10/1995 al 2/9/1996, il danno era stato erroneamente quantificato nella totalità delle perdite di esercizio del 1995 e del 1996 in mancanza della prova del nesso causale e del danno stesso, mentre il danno da nuove operazioni doveva essere precisato individuando le nuove operazioni.

1.2. Con il secondo motivo si denuncia l’omesso esame del fatto che la condanna del M. era stata pari alle perdite di esercizio del 1995 e del 1996 in violazione dei principi in tema di nesso causale e di onere della prova di cui al precedente motivo.

1.3. I motivi possono essere trattati congiuntamente per connessione e vanno accolti perchè fondati.

1.4. Giova ricordare che “Nel caso in cui l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’art. 2447 c.c., non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l’attivo ed il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l’intero passivo come frutto delle nuove operazioni intraprese dagli amministratori, ma dovendosi ascrivere lo stesso, almeno in parte, alle perdite pregresse che avevano logorato il capitale”. (Cass. n. 16211 del 23/07/2007, n. 17033 del 23/06/2008).

In particolare questa Corte ha affermato che per “nuove operazioni” – le quali non possono essere intraprese dagli amministratori quando si sia verificato un fatto che determina lo scioglimento della società – s’intendono tutti quei rapporti giuridici che, svincolati dalle necessità inerenti alla liquidazione delle attività sociali, vengono costituiti dagli amministratori, con assunzione di ulteriori vincoli per l’ente, e siano preordinati al conseguimento di nuovi utili (Cass. n.3694 del 16/2/2007; Cass. n.1035 del 28/1/1995; Cass. n.9887 del 10/9/1995). Ed ancora si è detto, con maggior precisione, che l’art. 2449 c.c., esprime sul piano normativo la coerente conseguenza del fatto che, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato, qual era in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale, onde gli amministratori non possono più utilizzarlo a tal fine, ma sono abilitati a compiere soltanto quegli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando ad essi inibito il compimento di nuovi atti d’impresa suscettibili di porre a rischio il diritto dei creditori e degli stessi soci (Cass. n. 5275 del 12/6/1997). Nel vigore del vecchio testo dell’art. 2449 c.c., risultavano, infatti, vietate tutte le nuove operazioni, da intendersi come tutti gli atti gestori diretti non a fini liquidatori e quindi alla trasformazione delle attività societarie in denaro destinato al soddisfacimento dei creditori e, nei limiti del residuo, dei soci, ma al conseguimento di fini diversi, essendo invece lecito il completamento di attività in corso destinate al miglior esito della liquidazione. L’art. 2449 c.c., vecchio testo stabilisce che gli amministratori che contravvengono al divieto di nuove operazioni, assumono responsabilità illimitata e solidale per gli affari intrapresi. Si è condivisibilmente osservato che quando il curatore esperisce l’azione di responsabilità L.Fall., ex art. 146, non può far valere la responsabilità diretta degli amministratori per le nuove operazioni verso i creditori sociali, ma soltanto la violazione dell’obbligo su di essi gravante per legge nella misura in cui esso si è tradotto in un danno per la società o per i creditori, inoltre, come già rilevato in precedenza, questa Corte ha osservato che nel caso in cui l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’art. 2447 c.c., non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l’attivo ed il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l’intero passivo come frutto delle nuove operazioni intraprese dagli amministratori, ma dovendosi ascrivere lo stesso, almeno in parte, alle perdite pregresse che avevano logorato il capitale (Cass. n. 16211 del 23/7/2007).

Nel caso in esame la Corte d’appello non si è attenuta a questi principi, avendo estrapolato dalla condanna posta a carico del M. solo le perdite subite dalla società dopo la sua cessazione dalla carica, mentre avrebbe dovuto estendere la valutazione anche agli atti compiuti nel corso della gestione del ricorrente, stante l’inammissibilità della valutazione automatica del danno.

La sentenza risulta pertanto viziata e va cassata con rinvio per l’applicazione dei principi ricordati.

2.1. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., contestando la utilizzabilità della documentazione acquista nel corso della CTU che avrebbe colmato gravi carenze probatorie della curatela.

2.2. Con il quarto motivo si denuncia la nullità del procedimento afferente all’espletamento della CTU per insufficienza delle ragioni di fatto richieste dall’art. 1633 c.p.c., n. 4, a fondamento della domanda.

2.3. I motivi possono essere trattati congiuntamente per connessione e vanno respinti perchè inammissibili in quanto non colgono e non censurano l’autonoma e decisiva ratio decidendi espressa dalla Corte di appello.

Questa infatti ha richiamato il condiviso principio secondo il quale le ipotesi di nullità delle consulenze tecniche sono soggette al regime di cui all’art. 157 c.p.c., avendo carattere relativo, e devono essere fatte valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanate (cfr. Cass. n. 2251 del 31/01/2013; n. 15747 del 15/06/2018) ed ha accertato che, nello specifico, nessuna contestazione era stata mossa nell’udienza immediatamente successiva al deposito della CTU avvento il 12/1/2014, con l’effetto che le deduzioni in appello dei vizi della consulenza risultano tardive ed i motivi di ricorso per cassazione inammissibili.

3.1. Con il quinto motivo si denuncia l’omesso esame del fatto decisivo costituito dalla circostanza che la svalutazione di una posta di bilancio (relativa all’immobile costituito dalla Caserma La Spezia) non costituirebbe automaticamente un danno.

3.2. Il motivo è inammissibile.

Alla stregua del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014).

Nel caso in esame il fatto storico, e cioè il conferimento in altra società partecipata maggioritariamente dalla società amministrata dal ricorrente, della caserma della Spezia per un valore inferiore a quello appostato nel bilancio di quest’ultima società, è stato preso in considerazione dal giudice e la contestazione riguarda la valutazione nel merito compiuta dalla Corte di appello sulla base delle risultanze dalla CTU e sul confronto tra i dati di bilancio della società fallita, conferente, e della società conferitaria, che – a distanza di sei mesi non erano tali da giustificare il conferimento per un valore inferiore a quello reale ed è volta, inammissibilmente, a pervenire ad una rivalutazione dei medesimi fatti conforme alle aspettative del ricorrente.

4.1. In conclusione vanno accolti i motivi primo e secondo del ricorso, inammissibili gli altri; la sentenza impugnata va cassata e la controversia va rinviata alla Corte di appello di Roma in diversa composizione nei limiti dei motivi accolti per il riesame alla luce dei principi espressi e per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

– Accoglie i motivi primo e secondo del ricorso, inammissibili gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia la controversia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2019

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