Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2659 del 04/02/2021

Cassazione civile sez. VI, 04/02/2021, (ud. 26/11/2020, dep. 04/02/2021), n.2659

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – rel. Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 27435-2019 proposto da:

L.V., elettivamente domiciliato in ROMA, al viale PARIOLI,

n. 41, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO VENNARI, rappresentato

e difeso dall’avvocato DOMENICO GRISOLIA;

– ricorrente –

Contro

COMUNE di CATANZARO, in persona del Sindaco in carica, elettivamente

domiciliato in ROMA, alla piazza CAVOUR presso la Cancelleria della

CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati SAVERIO

MOLICA, ANNA MARIA PALADINO;

– Controricorrente

avverso la sentenza n. 288/2019 della CORTE d’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 14/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 26/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. Valle

Cristiano, osserva quanto segue.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

L.V. impugna, con atto affidato a due motivi di ricorso, la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro, n. 288 del 14/02/2019, che ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede, di rigetto della domanda di risarcimento dei danni alla persona subiti dal L..

Il ricorrente assunse in primo grado di essere caduto per strada a causa di una buca sul marciapiede, coperta di foglie e, quindi, non visibile e non evitabile.

Resiste con controricorso il Comune di Catanzaro.

La proposta del Consigliere relatore di definizione in sede camerale, non partecipata, è stata ritualmente comunicata alle parti.

La sola parte ricorrente ha depositato memoria.

Il primo mezzo deduce violazione e (o) falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il secondo motivo afferma violazione e (o) falsa applicazione dell’art. 2051 c.c.

Il primo motivo, nella parte di censura formulata secondo il parametro normativo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile, in quanto a fronte di una ricostruzione in fatto da parte dei giudici di primo e secondo grado (cd. doppia conforme) non individua alcun fatto nuovo sul quale l’esame giudiziale non sia stato condotto.

I due motivi di ricorso, nella prospettazione formulata avuto riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione all’art. 2051 c.c. invece di addurre censure in diritto chiedono a questa Corte di legittimità un riesame del materiale probatorio, ivi compreso il compendio testimoniale, finanche laddove esso è stato semplicemente riportato nel provvedimento impugnato nella parte concernente la deposizione di uno dei testi addotti dalla difesa del L., che aveva espresso dubbi sulla stessa dinamica del sinistro come prospettata dalla difesa dell’attore, qui ricorrente.

Con riferimento alla censura articolata con i referenti di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. si deve ribadire che: perchè si configuri effettivamente un motivo denunciante la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario che venga denunciato, nell’attività argomentativa ed illustrativa del motivo, che il giudice non ha posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè che abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che, per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”. Ne segue che il motivo così dedotto è privo di fondamento per ciò solo. Per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 116 c.p.c. è necessario considerare che, poichè la detta norma prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, la sua violazione e, quindi, la deduzione in sede di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è concepibile solo: a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso (oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi).

La motivazione della sentenza in scrutinio non è, pertanto adeguatamente censurata in diritto e, in ogni caso, essa è coerente con la giurisprudenza di questa Corte in materia di responsabilità da cose in custodia (Cass. n. 09315 del 03/04/2019 Rv. 653609 – 01).

Tutti i motivi prospettati sono, pertanto, inammissibili, per inadeguata formulazione, e in considerazione dell’adeguata disamina del materiale istruttorio da parte dei giudici di merito.

Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

Le spese di lite di questa fase di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, tenuto conto del valore della controversia e dell’attività processuale espletata.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 3.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15%, oltre CA ed IVA per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di Cassazione, sezione VI civile 3, il 26 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2021

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